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Saggi

Si intitola “Africa, il nuovo grande gioco” il nuovo numero del quadrimestrale Start Magazine che analizza e racconta le prospettive economiche del Continente, il suo inquadramento geopolitico, le diverse problematiche e le tante opportunità. Contributi di Anna Bono, Paolo De Castro, Andrea Giuricin, Gennaro Malgieri, Pierluigi Mennitti, Marco Orioles.

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La proiezione africana dei Paesi del Golfo

di Marco Orioles

Si infittiscono le relazioni tra le due sponde del Mar Rosso, che palesano un rinnovato interesse dei Paesi del Golfo verso le vicine nazioni del Corno d’Africa. I segnali di questo intreccio si moltiplicano. Di grande rilievo, da un punto di vista non solo simbolico, è l’incontro tenutosi a Riad nel dicembre del 2018 tra rappresentanti di Arabia Saudita, Sudan, Somalia e Gibuti, chiamati a discutere della creazione di un’alleanza di sicurezza nel Mar Rosso. Ma il nuovo protagonismo della Casa Saud nella regione era divenuto manifesto già tre mesi prima, quando a Gedda i leader di Etiopia ed Eritrea hanno siglato un accordo di pace salutato nel mondo come il segno tangibile della distensione tra due nemici irriducibili. Dietro l’accordo si intravedono, nitide, le impronte digitali dell’Arabia Saudita insieme a quelle di un altro attore del Golfo che ha da tempo gli occhi puntati sulle opportunità offerte dal Corno d’Africa: gli Emirati Arabi Uniti. I quali, di concerto coi sauditi, sono riusciti anche nell’impresa di far sedere l’Eritrea allo stesso tavolo con un Paese con cui non scorre buon sangue: Gibuti. Un altro risultato che corona la proiezione africana di Abu Dhabi, che ha appena sviluppato un ambizioso progetto immobiliare ad Addis Abeba che, e dal 2015, dispone di una base militare in Eritrea, presto affiancata da quella in cantiere nel Somaliland. L’Arabia Saudita, dal canto suo, dispone di una installazione militare a Gibuti, da cui scruta le mosse delle potenze rivali, Qatar e Turchia, che hanno appena ristrutturato un porto nel vicino Sudan.

TRA CULTURA, RELIGIONE E MIGRAZIONE

Il motivo di questo tour de force nel Corno d’Africa dei due Paesi leader del Golfo è presto detto. Vi sono, anzitutto, legami storici di natura culturale e religiosa – in ambedue le aree l’islam è patrimonio comune di buona parte della popolazione – che si sommano all’ordito demografico e migratorio che da sempre unisce le due rive del Mar Rosso. Per l’Arabia Saudita, che ama presentarsi come nazione guida della umma, rivendicare la propria egemonia nel Corno d’Africa è un passo intrinseco alla sua missione religiosa universale. Una vocazione che in questo momento di grande dinamismo coinvolge anche gli Emirati, alleati di ferro dei sauditi e artefici insieme a loro di grandi manovre geopolitiche e geoeconomche con cui il Golfo sta cementando la propria leadership nella Mezzaluna islamica contendendola all’altra potenza islamica dalle ambizioni smisurate, l’Iran.

GLI INVESTIMENTI

Pedina fondamentale in questa partita a scacchi col rivale sciita, il Corno d’Africa sta attirando da anni consistenti investimenti dal Golfo: ben 13 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2017, secondo il calcolo del Clingendael Institute, think tank olandese. Un fiume di denaro riversatosi prevalentemente in Sudan ed Etiopia, dove i Paesi del Golfo hanno anche acquistato ampie fasce di terreni coltivabili per far fronte alle difficoltà dell’approvvigionamento interno. Per i beneficiari di questi investimenti, i vantaggi sono evidenti. Sia il Sudan che l’Etiopia, tanto per dirne una, soffrono di un grave deficit di valuta pregiata. Non è un caso che una delle prime mosse del nuovo premier etiope, Abiy Ahmed, sia stato assicurarsi un assegno di tre miliardi di dollari in investimenti ed aiuti da parte degli Emirati, comprensivi di un deposito di un miliardo di dollari nella banca centrale. Nello stesso torno di tempo, la banca centrale del Sudan beneficiava di un analogo deposito – 1,4 miliardi di dollari – proveniente dalle medesime casse emiratine.  Per Abu Dhabi, questi investimenti hanno più di un senso. La questione della sicurezza marittima ha assunto rilevanza strategica per un Paese che ha deciso da tempo di proiettare la propria influenza all’esterno attraverso la rete di porti ed infrastrutture che puntellano le coste della penisola araba e quelle del Mar Rosso. E se fino a pochi anni fa la lotta alla pirateria somala era per gli Emirati la priorità numero uno, oggi è un altro il tema fondamentale: la guerra in Yemen, dove l’alleanza saudita-emiratina sta tentando dal 2015 di ripristinare il governo legittimo del presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi scalzato dal potere dai ribelli Houthi appoggiati dalla Repubblica Islamica. In questo sforzo militare, la base di cui gli Emirati dispongono in Eritrea è diventata un asset centrale. Anche per l’Arabia Saudita, il mar Rosso ha assunto da tempo un ruolo cardine.

GLI INTERESSI ENERGETICI

L’esigenza fondamentale è, in questo caso, la necessità di disporre di una rotta alternativa per il proprio export energetico nell’eventualità che l’Iran dia seguito alla minaccia, più volte ventilata, di chiudere lo Stretto di Hormuz al traffico delle navi che si riforniscono nel Golfo Persico. Come osserva Alex de Waal, presidente della World Peace Foundation, “circa dieci anni fa i sauditi hanno cominciato a disegnare piani per una flotta del Mar Rosso che controlli il Mar Rosso” in chiave anti-iraniana, con l’obiettivo di assicurarsi un eventuale “canale alternativo per il proprio petrolio. Così – prosegue de Waal – i sauditi hanno cominciato a costruire pipeline e raffinerie sulle coste del Mar Rosso, determinando la necessità di avere sicurezza in entrambe le sponde del Mar Rosso stesso”.

IL RUOLO (DA PROTAGONISTA) DELL’ARABIA SAUDITA

La conseguenza è messa bene in rilievo da Elizabeth Dickinson, analista dell’International Crisis Group: l’Arabia Saudita non solo si è affrettata a diventare il “principale donatore” dei paesi del Corno d’Africa, ma questi ultimi sono assurti al rango di “nuova priorità diplomatica” per il regno. Va letta in questo contesto l’iniziativa di pace tra Eritrea ed Etiopia.

ERITREA ED ETIOPIA: UNA PACE FUNZIONALE AGLI INTERESSI ARABI

L’annoso conflitto tra i due Paesi è stato per lungo tempo il principale ostacolo ad un engagement saudita ed emiratino nel Corno d’Africa. Archiviare questa rivalità porta innegabili vantaggi in chiave di proiezione di potenza per i paesi del Golfo. L’accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia non è solo funzionale ai loro disegni di sicurezza, ma apre la porta ad investimenti e progetti che promettono di legare maggiormente a sé quest’area anche da un punto di vista economico e politico.

IL TERZO INCOMODO: LA CINA

Se la posta in gioco è il controllo di un braccio di mare da cui transita una fetta consistente dei flussi commerciali globali, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dovranno fare i conti però con i calcoli di un’altra potenza che qui ha grandi progetti: la Cina.  Appare sintomatica, in questo senso, la disputa sorta intorno al Terminal Container di Doraleh, a Gibuti, gestito dal 2004 dalla DP World di Dubai. Un investimento cui il Paese del Corno d’Africa aprì entusiasticamente le porte. Ma nel 2013, Gibuti sorprese gli Emirati vendendo il 23,5% della sua partecipazione di maggioranza nel Terminal alla China Merchants Port Holdings, sussidiaria di Hong Kong del conglomerato statale China Merchants Group. I cinesi non hanno atteso molto tempo prima di sfidare gli interessi emiratini, inaugurando nel 2017 il Doraleh Multipurpose Port. Le tensioni che ne sono scaturite sono culminate nel gesto estremo del governo di Gibuti, che il 22 febbraio 2018 con decreto presidenziale ha cancellato il contratto con DP World espropriandone tutti gli asset. La compagnia emiratina ha reagito aprendo una causa al tribunale di Hong Kong contro China Merchants Group. Scintille rivelatrici. Che ne preannunciano altre a venire.

 

Anno di Pubblicazione

2019

Editore

Start Magazine

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