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Libri

Ormai da diversi anni oggetto di studio, il tema della globalizzazione si presta per la sua stessa complessità a molteplici letture e approcci interpretativi. L’analisi subisce però l’interferenza di ideologie e pregiudizi, che filtrano la realtà e pongono in risalto solo alcuni aspetti, specie quelli negativi, a scapito di altri che rischiano di scomparire dai radar. Il risultato è che di globalizzazione si parla molto, ma mai a prescindere da posizioni aprioristiche. Il libro si tuffa in questo dibattito e, attraverso l’uso dialettico delle posizioni pro e contro, tenta una ricomposizione finalizzata a far emergere le effettive direzioni in cui si sta sviluppando la globalizzazione. Il lavoro viene compiuto canalizzando la discussione lungo alcuni assi: economia, cultura, politica. Così, per quanto riguarda gli aspetti economici, sono messe a confronto le voci di chi denuncia una pauperizzazione di massa con quelle di chi intravede una tendenza all’accrescimento complessivo della ricchezza che coinvolge soprattutto i paesi emergenti. Sul fronte della cultura, le posizioni di chi denuncia un generalizzato smarrimento identitario sono raccordate a quelle di chi inquadra l’avvento di nuove identità che ricompongono in modo originale il piano globale e quello locale. Sul piano della politica, quanti diagnosticano turbolenze sulla scena internazionale sono affiancati a coloro che salutano l’allargamento della governance ad attori emergenti come le organizzazioni non governative. Così ricostruito dall’autore, il dibattito incrementa la possibilità del lettore di cogliere la reale natura di un cambiamento che nell’arco di pochi anni ha reso irriconoscibile il nostro pianeta.

INDICE

Parte I: prologo
Favorisca i documenti
Lamento imperiale
Mal di mare
Risalire a monte

Parte II: cultura
Cultura globale?
Ma allora, l’identità?

Parte III: politica
Politica globale?

Parte IV: economia
Economia globale?


Estratto da: Le mille globalizzazioni: alla ricerca di una bussola, Roma, Il Calamo, 2007.

1. Prologo

«Uno spettro si aggira per l’Europa». Un testo che si apre così, si potrebbe pensare, sarà di sicuro un thriller. E in effetti, come ben sapete, lo è. Annunciato nella prima pagina del Manifesto del Partito Comunista (1848), quel fantasma provocò numerose notti insonni alle vecchie classi dirigenti d’Europa.

Sebbene l’incubo di Karl Marx e Friedrich Engels non si sia trasformato tout court in realtà, la vita diurna del nostro continente ne fu comunque profondamente segnata. L’affresco sociale, politico, economico e culturale europeo non si sarà tinto integralmente di rosso, con l’eccezione della Russia sovietica e dei suoi fortunati «satelliti», ma numerose sfumature intermedie vi presero posto. La socialdemocrazia fu assimilata nel nostro codice genetico, mentre principi e strutture oggi ritenute di cardinale importanza come giustizia sociale, welfare state, redistribuzione del reddito e via dicendo furono assimilatii dai sistemi politici dei vari paesi. Per parafrasare Churchill, mai metafora elaborata da così poche persone comportò così tanti cambiamenti nella vita di tanta gente.

Ma perché evocare proprio qui, nell’ambito di un corso di sociologia, questa parabola? Semplice. Durante uno dei momenti topici della vita intellettuale di questa disciplina, il congresso dell’Associazione Italiana di Sociologia tenutosi recentemente a Roma, è stato scandito un annuncio non meno grave di quello di Marx ed Engels. Che l’artefice sia anche in questo caso un pensatore tedesco, il sociologo Ulrich Beck, rende il paragone irresistibile. Nel suo intervento, tuttavia, Beck ha fatto più che denunciare la lugubre presenza che infesterebbe le contrade d’Europa. Ha esortato infatti tutti noi a «contrastare la globalizzazione americana». A ricacciare indietro cioè uno spettro made in USA che, come e più del comunismo mondiale, ha in animo di sovvertire tutti i nostri equilibri.

Che le catene della globalizzazione stiano rumoreggiando per i paesi europei è in effetti sin troppo evidente. Invero, le sortite del nuovo fantasma si spingono ben al di là dei circa dieci milioni di chilometri quadrati su cui si estende il nostro continente. Lo dice del resto la parola stessa: che globalizzazione sarebbe se non funestasse l’intera superficie terrestre? Per Beck e tanti altri compunti studiosi, questo è un motivo in più per trasformarsi in ghostbusters. Le ambizioni di queste pagine sono invece assai più modeste. Senza pretendere di ricacciare indietro il nostro spettro, ci limiteremo a tracciarne i principali movimenti. Chiedendogli magari, ove lo incrociassimo, di esibire il passaporto. Quali siano le ambizioni di ognuno, sapere se sui documenti dell’entità vi siano impresse un po’ di stelle e strisce può senz’altro essere di aiuto.

2. Favorisca i documenti

Seppur brevi e impressionistiche, le nostre prime note ci consentono già di individuare, se non i tratti essenziali della globalizzazione, almeno due assi portanti del relativo dibattito. Anzitutto, si sostiene e con più di qualche ragione, i processi che rientrano sotto quest’etichetta stanno dando vita ad un movimento di cambiamento consistente e di ampia scala. L’elevatissimo numero dei “discontents” della globalizzazione, per dirla con Saskia Sassen, ne è la più evidente testimonianza. Tante e profonde le trasformazioni, tante le persone del pianeta interessate, tanti e inevitabili i moti di resistenza, paura o semplice sdegno.

In secondo luogo, i cambiamenti apportati dalla globalizzazione tendono ad essere associati ad una precisa origine: gli Stati Uniti d’America. La globalizzazione, si ripete spesso, non è che l’americanizzazione del mondo con un altro nome. Non occorre essere nati in Germania per sposare questa posizione. Persino Zbignew Brzezinski, già membro di un’amministrazione presidenziale statunitense, ritiene che la globalizzazione sia «l’ideologia informale dell’élite politica e degli affari degli USA». Dietro ad un termine apparentemente neutro si celerebbe dunque un preciso disegno: modellare il mondo su immagine dell’attuale potenza egemone. La globalizzazione rappresenterebbe cioè, ci rivela Brzezinski, «una utile cornice di riferimento per definire tanto il mondo contemporaneo quanto la relazione dell’America con esso».

Traduciamo: in virtù della posizione speciale che gli Stati Uniti occupano nel mondo, le alte sfere americane sono in grado di dettare le regole a tutti gli altri paesi, spacciandole però come uno sviluppo spontaneo. «L’accesso libero all’economia mondiale» sarà presentato allora, continua Brzezinski, come «la naturale e imperativa conseguenza delle nuove tecnologie, con l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), la Banca mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (IMF) […] quali espressioni istituzionali di questo fatto. Il libero mercato» invece, asseriranno sorridenti i globalizzatori di Chicago o Atlanta, «dovrebbe estendersi su scala globale, e si lascino competere i coraggiosi e industriosi. I paesi» del mondo intero, infine, «dovrebbero essere valutati non solo sulla base del loro grado di democrazia interna ma anche per quanto globalizzati sono diventati».

Se di cambiamento si tratta, la globalizzazione avrebbe dunque una guida ed un motore. I suoi ingranaggi sarebbero situati grosso modo tra i palazzi del potere di Washington, i centri finanziari di New York e gli istituti tecnologici della California. È dentro questo triangolo che nasce del resto l’infrastruttura degli scambi di idee, merci e capitali che muove la globalizzazione: internet. È qui che, per usare le parole di un altro illustre pensatore tedesco come Habermas, il pensiero economico «neoliberista» ha trovato i suoi campioni e codificatori: quelle coorti di finanzieri e policymaker che, incarnando la «pressione egemonica degli Stati Uniti», si affannano a promuovere la completa «liberalizzazione del mercato mondiale» e il definitivo «smantellamento delle barriere commerciali». È ancora da queste parti che operano coloro che, nascosti dietro lo scintillante simulacro di marchi globali come Coca Cola, McDonald’s e Disney, si avvantaggiano maggiormente della globalizzazione dei mercati. Ed è senz’altro da qui che partono le punizioni per chi osa opporsi al nuovo ordine mondiale. Il deposto dittatore dell’Iraq Saddam Hussein, a quanto pare, era uno degli ultimi a non avere capito l’antifona.

Se queste osservazioni sono corrette, impiegare la parola globalizzazione rischia di farci finire fuori strada. Meglio ascoltare il consiglio dello storico Niall Ferguson. Giacché la globalizzazione parla la lingua inglese con la caratteristica inflessione americana, potremmo usare il suo felice termine «anglobalizzazione». Chi ritenesse inadeguata tale alternativa dispone eventualmente di un’altra soluzione: «impero». La proposta, che conta numerose adesioni, richiederebbe solo modeste puntualizzazioni. Basterà ad esempio precisare che l’inflessione americana è in realtà texana e, a beneficio dei più disattenti, che il trono tende oggi ad essere ereditario.

3. Lamento imperiale

 

Abbiamo scherzato? Niente affatto. A giudicare dalla sovrabbondante letteratura disponibile nelle migliori librerie, gli argomenti che abbiamo intavolato pendono più in direzione del serio che del faceto. Non manca invero qualche voce dissonante. Per il giornalista americano Charles Krauthammer ad esempio usare la parola impero è semplicemente «ridicolo. È assurdo applicare questa parola ad un popolo il cui primo istinto nello sbarcare sul suolo di chiunque è di domandare una strategia di uscita». Con una punturina di spillo agli amici europei, Krauthammer aggiunge:

per cinque secoli, gli europei sono stati affamati di deserti e giungle e oceani e nuovi continenti. Gli americani non lo sono. A noi piacciono i nostri McDonald’s. Ci piace il nostro football. Ci piace il nostro rock-and-roll. Abbiamo il Grand Canyon e Graceland. Abbiamo la nostra Silicon Valley e South Beach. Ci piace tutto. E se questo non è abbastanza, abbiamo Las Vegas – che è un facsimile di tutto. Di cos’altro potremmo avere bisogno altrove? Non ci piacciono i climi esotici. Non ci piacciono le lingue esotiche – un sacco di modi e declinazioni. Non sappiamo nemmeno cosa sia un modo. Ci piace il grano dell’Iowa e gli hot dog di New York, e se vogliamo mangiare cinese o indiano o italiano, andiamo ai fast food. Non mandiamo i Marines per i cibi d’asporto. Questo è perché non siamo una potenza imperiale. Siamo una repubblica commerciale. Non prendiamo il cibo: lo commerciamo.

Bene, potrebbe rispondere qualcuno degli «scontenti»: gli Stati Uniti d’America non saranno un impero stricto sensu. Nessuna traccia di Colonial Offices di vittoriana memoria, per intendersi, né di scrittori che parlino di «fardello dell’uomo bianco». Le ultime parole di Krauthammer mettono tuttavia a nudo il vero problema. Gli americani amano commerciare, afferma il giornalista statunitense. Bene, benissimo: il commercio è un’ottima cosa. Ma se il commercio internazionale avviene entro un sistema, chi ne scrive le regole? E soprattutto, tale sistema garantisce l’equa partecipazione di tutti o c’è invece qualcuno che fa il furbo?

Tra le numerose risposte disponibili per domande così spinose, una ce la suggerisce Ventrone. L’autore punta il dito sulle due grandi istituzioni internazionali deputate a governare l’economia mondiale nonché ad assistere la crescita economica dei paesi in via di sviluppo: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Le direttive di questi organismi, rileva Ventrone, sono elaborate tra la 15ma e la 19ma strada di Washington. A pochi passi cioè dalla sede del Dipartimento del tesoro del governo americano. Una curiosa coincidenza, vero? Non ci si può stupire se la strategia economica caldeggiata dalle due agenzie ai propri clienti sia stata maliziosamente definita «Washington Consensus». Né dovremmo meravigliarci se tale ricetta, solennemente presentata come rispondente al «bene per il mondo», si incardini su tre pilastri: stabilità macroeconomica, liberalizzazione e privatizzazioni.

Che questi tre elementi coincidano con gli assiomi della dottrina neoliberista è, come recitano i titoli di coda dei film, un puro caso. Un accidente del destino sarebbero però anche le conseguenze della loro applicazione. Quali? Come sottolineano Held e McGrew, non pochi sono del parere che la globalizzazione economica sponsorizzata dal FMI e dalla Banca Mondiale stia andando a tutto «vantaggio delle economie dei paesi industrializzati, mentre ha escluso una gran parte del resto del mondo, portando di fatto ad una marginalizzazione della maggioranza delle economie del Terzo mondo». La globalizzazione, per dirla in poche parole, creerebbe «un mondo più ricco per alcuni a spese di una crescente povertà per gli altri».

I «perdenti» della globalizzazione, si faccia attenzione, non vivono però solo nelle scalcinate bidonville dell’Africa o nelle pericolosissime favelas sudamericane. Se la globalizzazione è una «gara che produce guadagni inverecondi, drastiche disuguaglianze di reddito, crescente disoccupazione, marginalizzazione sociale di un esercito di poveri», secondo l’elenco stilato per noi da Habermas, a pagarne il fio sono anche non pochi tra gli stessi residenti dei paesi ricchi. Le istantanee scattate nel testo di Luciano Gallino sono al riguardo assai eloquenti. Il «mondo sempre più competitivo» promosso dalla globalizzazione, commenta il sociologo italiano, avrà anche «consentito a una frazione minoritaria» dei membri delle classi medie europee «di accrescere sostanzialmente il proprio reddito» e di ascendere lungo i gradini della scala sociale. Il prezzo lo stiamo pagando però a suon di stridenti disuguaglianze e inediti fenomeni di esclusione. Disoccupazione di lunga durata, nuove povertà e – per i fortunati che ancora lo trovano – precarizzazione del lavoro diventano così altrettanti indicatori di una globalizzazione tutt’altro che desiderabile.

Se il volto della globalizzazione fosse questo, non ci resterebbe che accogliere con un sorriso di scherno il Sì global dato alle stampe da Alessandro Cecchi Paone. Il popolare conduttore televisivo vi afferma addirittura – vale la pena riportarne lunghi brani – che la globalizzazione non sarebbe affatto:

una minaccia da sventare. Si tratta semmai di una splendida occasione per incrementare la produzione di ricchezza, la diffusione del benessere e la libertà, soprattutto nell’interesse di chi vive nei paesi poveri […] nonostante le perduranti disuguaglianze che vanno progressivamente corrette, l’integrazione dei mercati, delle tecnologie e delle informazioni arricchisc[e] tutti, anche se, come sempre, prima e di più i ricchi rispetto ai poveri. Che però, in presenza di economie aperte, e grazie alle applicazioni dell’innovazione tecnologica […] diventano rapidamente sempre meno poveri: nell’ultimo quarto di secolo appena terminato i paesi in via di sviluppo hanno visto aumentare l’aspettativa di vita delle popolazioni […] e quasi raddoppiare il reddito pro capite a parità di potere d’acquisto […] Nessun rapporto consente […] di affermare che la povertà nel mondo sia aumentata in seguito al diffondersi dell’economia globale; anzi a rimanere più poveri fra i poveri sono proprio i paesi rimasti fin’ora esclusi dal processo di globalizzazione. Tra il 1960 e il 1995 i paesi poveri a economia aperta hanno avuto una crescita in termini percentuali lievemente superiore di quelli ricchi e addirittura doppia rispetto a quelli poveri a economia chiusa.

Trattandosi di un personaggio simpatico, possiamo perdonare al nostro Cecchi Paone tanto l’enfasi quanto l’uso talvolta disinvolto delle fonti. Fonti che però, occorre rimarcare, sono tutt’altro che inattendibili. La bibliografia di Sì global è anzi di tutto rispetto. Vi trovano posto i nomi di autori e di istituti di ricerca autorevoli se non seriosissimi. Non di rado, inoltre, questi riferimenti combaciano con quelli usati dagli autori più scettici nei confronti della globalizzazione. Chi ha ragione allora?

Dirimere questa contesa non è impresa facile. La diatriba tra pro e no global è d’altronde troppo fresca per chiamare un vincitore. Un fatto però ci sembra chiaro, e le parole di Held e Mc Grew possono aiutarci a porlo in primo piano. Molti detrattori della globalizzazione, osservano questi due autori, tendono a ravvisare in essa «una costruzione ideologica». La globalizzazione, per dirla tutta, non sarebbe altro che «un mito molto utile per giustificare e legittimare il progetto neoliberista globale». Il già citato Brzezinski, come abbiamo visto, è d’accordo. Se di ideologia si tratta, però, siamo sicuri che non lo sia anche la controargomentazione?

Anno di Pubblicazione

2008

Editore

Il Calamo

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