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Carcere e web laboratori di terrorismo

Pubblicato il 07/01/2017 - Messaggero Veneto

Prigioni e web. Sono questi, secondo l’apposita commissione di studio voluta dal governo, i principali ambiti entro i quali si annida e propaga il morbo jihadista, nel nostro come in altri Paesi. Si tratta di osservazioni non nuove e suffragate ormai da un numero elevato di casi di jihadisti che hanno cominciato a radicalizzarsi in carcere o sono stati attratti dall’ideologia jihadista, e si sono successivamente mobilitati, grazie alla propaganda via web dello Stato islamico. Il rapporto degli studiosi sottolinea comunque la minore entità del problema per il nostro Paese, la cui scena presenta molte differenze rispetto alle altre nazioni europee. Si registra una sorta di “ritardo” nello sviluppo del fenomeno jihadista a causa della natura più recente del fenomeno migratorio e nella minore presenza delle seconde generazioni, che hanno dimostrato di essere un bacino di reclutamento decisivo per i gruppi jihadisti. Questo ritardo non deve, come ha sottolineato il primo ministro Gentiloni, condurci a sottovalutare il problema. Basti pensare alla questione delle carceri, dove si stima che ben il 5% degli 11 mila detenuti di fede islamica desti preoccupazione. Il caso Amri da questo punto di vista appare chiaro nel dimostrarci che le aggregazioni di estremisti nelle prigioni sono un nodo da sciogliere, come il governo ha già cominciato a fare separando tra loro i detenuti del carcere di Rossano Calabro, dove fino a poco tempo fa erano concentrati i principali elementi condannati per terrorismo, quelli che avevano esultato alla notizia delle recenti stragi islamiste. Quanto al web, appare la questione senz’altro più complessa. È noto come gli islamonauti alimentino copiosamente la propaganda jihadista on line e sui social network, che sono diventati gli strumenti di elezione per fare proselitismo e per addensare reti di simpatizzanti e combattenti. Per neutralizzare questa specifica minaccia, è la conclusione della commissione, ci vorrà una maggiore cooperazione inter-governativa e con le principali aziende del web, per arrestare tempestivamente il flusso del verbo jihadista e i contenuti che possono istigare alla violenza. La commissione di studio non si è poi limitata a monitorare il fenomeno, ma è stata prodiga di consigli su come affrontarlo in chiave preventiva. All’approccio repressivo, che ricorre agli strumenti tradizionali del law enforcement, gli analisti ascoltati da Palazzo Chigi hanno suggerito di affiancare azioni volte a promuovere la cosiddetta de-radicalizzazione. Si tratta, in breve, di usare un approccio sistemico volto a individuare precocemente soggetti a rischio in modo da allontanarli con la persuasione dal sentiero del jihad. Questo è un approccio ormai in voga in numerosi Paesi ed è noto con l’espressione “Countering Violent Extremism” (CVE): un insieme di conoscenze e pratiche atte a far sì che l’estremismo islamista sia preso di mira in tempo utile e affrontato, sia individualmente che collettivamente, con l’ausilio di operatori specializzati. La commissione auspica anche la costruzione di una contronarrativa che contrasti la seduzione dell’utopia califfale. Vengono invocate infine ulteriori azioni rivolte alla comunità islamica nella sua interezza, nel presupposto che l’integrazione faccia da antemurale alla radicalizzazione. Sconfiggere il terrorismo è insomma un compito multidimensionale che non può prescindere dal coinvolgimento della società nel suo insieme.

IsisjihadismoMessaggero Veneto
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