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Coronavirus: fatti, commenti e analisi. Il Punto di Orioles

Pubblicato il 02/02/2020 - Start Magazine

Il Punto di Marco Orioles su portata ed effetti del Coronavirus 

A meno di 72 ore dalla proclamazione da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) di un’emergenza sanitaria globale, c’è un nuovo sviluppo del Coronavirus che farà sudare freddo chi, in questi giorni di tempesta, sta tentando il tutto per tutto per contenere tanto il contagio quanto l’allarme che il nuovo virus sta procurando in giro per il globo.

All’alba di stamani i media mondiali hanno riferito del primo decesso avvenuto fuori dal territorio cinese e, segnatamente, nelle Filippine. Si tratta di un cittadino cinese di 44 anni che sembrerebbe essere stato infettato dalla compagna che, reduce da un viaggio nella metropoli focolaio di Wuhan, è rientrata in patria il 21 gennaio con un volo che ha fatto scalo a Hong Kong.

Non si invidia affatto, a questo punto, il rappresentante WHO a Manila, Rabindra Abeyasinghe, che ha subito esortato i filippini a mantenere la calma sostenendo che si è comunque di fronte ad un caso “non sviluppatosi localmente” in un paziente che è tra l’altro “arrivato dall’epicentro” dell’epidemia.

Per quanto autorevoli, simili rassicurazioni nulla possono – si teme – di fronte agli aggiornamenti continui di un’emergenza che nelle ultime 24 ore ha visto salire il bilancio delle vittime di altre 45 unità, facendo lievitare il totale complessivo a 304, e quello delle infezioni accertate di altre 2.590 unità, per un totale di 14.380 casi registrati ormai non più nella sola Cina ma in almeno 23 nazioni.

Numeri da brivido, dunque, ma destinati anche a una drastica impennata se hanno ragione i ricercatori dell’Università di Hong Kong che, in uno studio pubblicato venerdì sulla rivista Lancet, hanno previsto – ipotizzando che ogni persona che ha contratto il Coronavirus possa contagiarne mediamente altre 2,68 – che il numero di infezioni che si registreranno a Wuhan potrebbe superare quota 75 mila.

Non consolano affatto, da questo punto di vista, le conclusioni di un articolo pubblicato sul New England Journal of Medicine e subito rilanciato in Italia dal virologo Roberto Burioni: il Coronavirus si trasmette anche durante l’incubazione.

Questo è quanto ha suggerito alla comunità scientifica il caso di una donna cinese che, arrivata in Germania da Shangai il 19 gennaio “in perfetta salute” e “senza alcun segno di malattia”, si è sentita male mentre era sul volo di ritorno, esattamente quattro giorni dopo, e a cui è stato diagnosticato subito dopo il Coronavirus. Il quale però, nel frattempo, era stato contratto da quattro cittadini tedeschi con cui la signora era entrata in contatto – mentre era, ripetiamo, asintomatica – durante il suo breve soggiorno in Germania.

Rilanciando e commentando l’articolo, Burioni osserva che “questo chiude la questione: i pazienti, durante la parte finale della incubazione, quando ancora stanno bene, possono certamente trasmettere il virus. Se questo avviene spesso o raramente non lo sappiamo per ora, ma sappiamo con certezza che può avvenire. Questo – è l’amara conclusione del virologo più famoso d’Italia – rende più difficile la lotta contro questo virus e richiede misure molto più drastiche per contenere il contagio”.

Il quadro di questa emergenza si sta dunque complicando e aggravando, spingendo un numero crescente di Paesi a prendere i provvedimenti più drastici.

Questo è certamente il caso degli Usa, dove stanotte si è registrato l’ottavo caso di Coronavirus.

Già venerdì scorso il Segretario alla Salute Alex Azar aveva proclamato una “emergenza sanitaria pubblica” e annunciato una serie di misure cautelative anche sulla scorta del fatto, di cui si è fatto portavoce il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, Anthony S. Fauci, che ci sono ancora “troppe cose sconosciute” relative al virus e alle modalità della sua trasmissione.

Tra le decisioni prese dal governo Usa, spicca la quarantena imposta a 195 persone che sono state evacuate mercoledì da Wuhan e sono ora trattenute presso una base dell’aviazione in California. È un destino, l’isolamento, che sarà condiviso – sempre per volontà dell’amministrazione Trump – da tutti quei cittadini americani che si trovino da almeno 14 giorni nella provincia di Hubei e dovessero ora fare ritorno in patria. Ma potrebbero non sfuggire alla quarantena anche quegli americani che abbiano soggiornato recentemente anche nel resto del territorio cinese e per i quali è stata studiato una procedura speciale di “screening” in caso di rientro.

A mandare su tutte le furie Pechino è stato tuttavia altro, vale a dire da un lato il divieto d’ingresso nel territorio americano, a partire dalle cinque di oggi pomeriggio, per chiunque (con l’eccezione dei familiari dei cittadini e di chi ha un permesso di soggiorno permanente) sia stato in Cina nelle ultime due settimane, e soprattutto la decisione delle maggiori compagnie aeree a stelle e strisce – compresi i big Delta Air Lines, United Airlines and American Airlines – di sospendere tutti i collegamenti con la Cina.

Non hanno perso tempo, le autorità cinesi, per deplorare una disposizione che contravviene tra l’altro alle indicazioni date dalla stessa WHO, convinta che l’emergenza in corso non richieda simili restrizioni alla circolazione globale delle persone e delle merci.

Ma il problema per i furenti mandarini non sono i soli fiat degli Usa, considerato che sarebbero circa 10 mila i voli da e per la Cina che, secondo il calcolo della società Cirium, sono stati sospesi in tutto il mondo a causa dell’emergenza.

Non si contano infatti più i Paesi e le compagnie aeree che hanno emulato gli Usa cancellando i collegamenti con la Cina. Tanto per limitarsi ad un paio di annunci effettuati via Twitter, si va dalla compagnia di bandiera polacca a quelle di Ruanda, Marocco e Kenya, ma nel computo bisogna mettere anche nazioni come Vietnam, Russia, Singapore, Filippine e via dicendo.

È assai facile a questo punto intravedere i risvolti economici di tutto ciò. Basti pensare a quello che è successo negli Usa venerdì quando United, Delta e American hanno annunciato il blocco dei voli per la Cina: nell’arco di breve tempo, il Dow Jones ha perso 450 punti, mentre lo S&P e il Nasdaq hanno ceduto rispettivamente l’1,3% e l’1,2%.

A soffrire sono state soprattutto le aziende hi tech e in particolare quelle del settore dei semiconduttori, ossia le produzioni che più di altri hanno sviluppato una supply chain basata in larga parte in Cina.

E siccome le leggi del mercato sono inesorabili, è arrivato puntuale anche il calo del prezzo del petrolio, sceso sotto la soglia dei 52 dollari al barile. Piangono in particolare Exxon Mobil e Chevron, le cui azioni hanno perso valore per ben il 4%.

Ma non si può dimenticare anche la decisione di Apple di chiudere tutti i suoi store cinesi fino al 9 febbraio, quella del colosso delle attrezzature per l’agricoltura Deere & Co di mantenere abbassate le saracinesche dei propri impianti cinesi, e quella del gigante Usa del retail Walmart Inc di limitare “i viaggi d’affari non necessari” nella Repubblica Popolare.

Anche se i conti si si faranno solo quando si sarà usciti da questo tunnel, è fuori discussione che il Coronavirus, oltre che un problema sanitario globale, contiene i semi di una calamità economica che danneggerà tanto la Cina quanto il resto del mondo.

È una consapevolezza che è ormai propria anche di chi, come le autorità di Wuhan, si trova in questo momento sul banco degli imputati.

Un banco da cui si è levata l’altro ieri la voce del potente segretario locale del Partito Comunista, Ma Guoqiang, che in un’intervista al network CCTV ha fatto un drammatico mea culpa. “Mi sento responsabile e pieno di rimorsi, e mi rimprovero”, ha dichiarato Ma, ammettendo che “se avessi deciso prima di far prendere quel tipo di controlli stretti che sono in atto adesso, il risultato (nel contenimento dell’epidemia) sarebbe stato decisamente migliore”.

Sono parole, quelle del n. 1 del Partito a Wuhan, che torneranno in mente a tutti coloro che oggi, leggendo il New York Times, si imbatteranno nell’articolo di Chris Buckley e Steven Lee Myers.

Dopo aver ricostruito – intervistando medici, autorità pubbliche e residenti di Wuhan e analizzando i vari comunicati ufficiali emanati in questo periodo nonché la copertura dell’emergenza da parte dei media cinesi – quel che è successo nella metropoli focolaio nelle sette settimane passate da quando, alla fine di dicembre, sono apparsi i primi sintomi a quando il governo ha deciso di sigillare ermeticamente la città. i due reporter del Times hanno scoperto quello molti sospettavano: vale a dire, che “le decisioni” che le autorità di Wuhan hanno preso nel momento dell’insorgere dell’emergenza e nelle fasi successive hanno “ritardato” i necessari interventi di sanità pubblica.

Le autorità, scrivono Buckley e Lee Myers, hanno addirittura prima “silenziato i dottori e tutti coloro che avevano tentato di alzare la bandiera rossa”, e poi “minimizzato i pericoli di fronte al pubblico”, con risultato di “lascia(re) una città di 11 milioni di abitanti completamente all’oscuro su come ci si dovesse proteggere”. I zelanti funzionari comunisti hanno persino, aggiungono i giornalisti, “chiuso il mercato della carne dove si sospetta che sia scaturito (il virus), dicendo però all’opinione pubblica che era per una ristrutturazione”.

Per un regime che già diciassette anni fa in occasione della SARS non diede grande prova di trasparenza, sarà difficile scrollarsi di dosso simili responsabilità senza patire gravi conseguenze alla propria reputazione.

Reputazione che il presidente Xi Jinping e il Partito stanno ora cercando di tutelare con una colossale mobilitazione che ha guadagnato loro anche il plauso del WHO.

Tuttavia, mentre le misure di emergenza sul Coronavirus si stanno dispiegando a ritmi intensissimi su ormai tutto il territorio cinese – persino la municipalità di Pechino ha ordinato alle aziende di far lavorare a casa i propri dipendenti per evitare eventuali contagi – il South China Morning Post informava ieri di un problema non da poco per chi è chiamato a contenere l’epidemia: il numero di mascherine e indumenti protettivi disponibili è drammaticamente insufficiente.

La situazione del Coronavirus è particolarmente grave proprio nella provincia di Hubei dove le circa quaranta aziende cinesi che producono mascherine e indumenti protettivi possono riversare meno di un terzo dei circa centomila pezzi richiesti ogni giorno. A tappare il buco, per ora, ci stanno pensando paesi come Giappone e Corea del Sud, che questa settimana hanno spedito in Cina con voli charter rispettivamente 1 e 2 milioni di mascherine.

E se le mascherine sono un formidabile salvavita, stanno procurando più di un grattacapo – come riferisce ancora il SCMP – ad una popolazione come quella cinese dove non si contano più gli smartphone dotati di software per il riconoscimento facciale.

Ma non poter sbloccare con un comodo sguardo il proprio iPhone non è certamente, in questo momento, il principale cruccio degli sfortunati sudditi della Repubblica Popolare.

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