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Ecco come Trump via Twitter fa un assist elettorale all’amico Netanyahu sul Golan

Pubblicato il 23/03/2019 - Start Magazine

di Marco Orioles

La zuffa la innesca, come al solito, un cinguettio di Donald Trump. Una sequenza di parole che atterranno nel Medio Oriente, e nel resto del mondo, come una bomba atomica. “Dopo 52 anni – ha scritto The Donald giovedì ai suoi 59 milioni di follower – è giunta l’ora per gli Stati Uniti di riconoscere pienamente la sovranità di Israele sulle Alture del Golan”.

Eccola qui, con un esempio fulgido, la politica internazionale a 280 caratteri cui ci ha ormai abituato il tycoon. Che recide con la tastiera del suo smartphone un nodo gordiano di insuperabile complessità, la sovranità su un territorio che Israele strappò alla Siria nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Un’area di qualche centinaio di chilometri quadrati dal profondo valore strategico rimasta da allora sotto il controllo dello Stato ebraico nonostante le disposizioni contrarie delle Nazioni Unite e a dispetto dell’ostilità generalizzata di una comunità internazionale tradizionalmente empatica nei riguardi della controparte araba.

Ed è forse proprio a questo consensus globale che Trump pensava, quando ha scritto il suo tweet. Per un leader impegnato a tempo pieno a cancellare ogni traccia del politicamente corretto nel discorso pubblico come nelle politiche, andare controcorrente ed attizzare così la sua base elettorale è fonte di estrema soddisfazione oltre che di benefici politici a breve e lungo termine.

Fare a Netanyahu, come osserva il Jerusalem Post, “il regalo elettorale che ha sempre sognato” – consegnargli le chiavi delle Alture del Golan alla vigilia delle elezioni che, il 9 aprile, testeranno il suo appeal presso gli israeliani – è una provocazione studiata ad arte per ingraziarsi quegli americani che, con il cuore a destra, considerano lo Stato ebraico il baluardo della democrazia in Medio Oriente. Ed è un gesto, al tempo stesso, capace come pochi di suscitare grida isteriche tra le fila dei tanti che, non solo negli States, patiscono per i torbidi del Medio Oriente e tendono ad addossarne le responsabilità sulle spalle del solo Israele.

L’assist di Trump a Bibi, che ad aprile si giocherà la carriera contro un avversario formidabile come l’ex capo dell’Esercito Benny Gantz, è una plateale invasione di campo che non può però sorprendere nessuno. E non solo perché quella di Trump e Netanyahu è un’amicizia sincera che nasce sull’altare di una partnership strategica di lunga data. Ma, soprattutto, perché oggi Israele e Stati Uniti sono allineati praticamente su tutto, dalla lotta al terrorismo jihadista, allo scontro di civiltà contro l’arrembante Islam sciita degli ayatollah, alla visione sui futuri equilibri della Terra Santa. E il mastice di questo allineamento è rappresentato proprio dai due leader, dalla sintonia che unisce due personalità molto diverse ma che si attraggono come magneti e convergono su una medesima linea politica.

Frutto maturo di questa convergenza di carisma e intenti, il tweet di Trump sancisce, in ogni caso, una rottura drastica rispetto alle storiche posizioni degli Usa. Che, da Reagan in poi, sulle Alture del Golan si erano attenuti al dettato delle risoluzioni del Palazzo di Vetro. La linea era chiara: la sorte di quel fazzoletto di terra sarebbe stata decisa da un negoziato tra le parti. Un negoziato nel quale l’America, com’è suo costume, si sarebbe ritagliata il ruolo di honest broker, sulla scia di quanto avrebbe fatto per l’altra disputa che coinvolge l’alleato israeliano: quella sulla West Bank e su Gaza.

Ma Donald Trump, com’è noto, è persona poco propensa alle sottigliezze e al lavorio sotto traccia della diplomazia. Proprio come in politica interna, sul piano internazionale l’attuale capo della Casa Bianca si muove come il proverbiale elefante nel negozio di cristalli. Lo abbiamo visto in occasione della decisione del dicembre 2017 di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di trasferirvi l’Ambasciata americana. Anche allora, la mossa del presidente scatenò un’ondata globale di polemiche. E fu interpretata, proprio come oggi, come un gran favore a Netanyahu. Come il ripudio della tradizionale terzietà Usa e, quindi, come un abbraccio completo dell’agenda del primo ministro israeliano.

Ed è proprio questa santa alleanza che adesso torna in primo piano, prepotentemente. Con il dono del Golan in tasca, Netanyahu lunedì sarà a Washington, dove beneficerà di un’accoglienza solenne. Mercoledì la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha annunciato che l’illustre ospite sarà ricevuto per ben due volte da Trump: la prima, per un incontro di lavoro nella residenza presidenziale, e la seconda a cena. Un doppio onore che non viene riconosciuto a nessun primo ministro di un paese straniero e che vale come testimonianza eloquente di un legame indissolubile, finché morte (politica) non li separi.

Bibi, come si può immaginare, ha il cuore colmo di gioia. Quando gli è giunta la notizia del cinguettio del suo socio, ha immediatamente esultato sullo stesso canale. “In un momento – ha scritto su Twitter – in cui l’Iran cerca di usare la Siria come una piattaforma per distruggere Israele, il presidente Trump riconosce arditamente la sovranità di Israele sulle Alture del Golan. Grazie Presidente Trump!”.

Più tardi, gli uffici del primo ministro faranno sapere che i due si sono anche sentiti per telefono, e che durante la conversazione Netanyahu ha detto al suo benefattore: “Lei ha fatto la Storia”.

L’entusiasmo, in Israele, non è però prerogativa di Bibi. Il capo della coalizione “Blu e bianca” che sfida il Likud di Netanyahu, Yair Lapid, ha parlato di “un sogno che diventa realtà”, quello di un “Golan che è parte inseparabile di Israele”. È un coro pressoché unanime, fatta salva qualche voce isolata di dissenso, quello che si propaga nel mondo politico israeliano, che per una volta trascende le sue profonde divisioni per compattarsi nella riconoscente approvazione del motu proprio di Trump.

Ovviamente, nel resto del mondo quello che Netanyahu ha definito “miracolo di Purim” viene letto in tutt’altro modo. Ci pensa l’inviato speciale Onu sulla Siria, Geir Pedersen, a ribadire il pensiero unico della comunità internazionale che si riconosce negli editti dell’Onu. “Il Consiglio di Sicurezza”, ha spiegato Pedersen ricordando i contenuti della risoluzione n. 2254, “dice chiaramente che il Golan è territorio siriano”.

Il diretto interessato, Damasco, non può che ribadire il concetto a chiare lettere: l’”irresponsabile” tweet di Trump, dichiara una fonte del ministero degli Esteri, non cambia “la realtà che il Golan era e rimarrà siriano, arabo”. A ruota, arriva anche la posizione della Lega Araba, che nei prossimi giorni è chiamata a decidere se riammettere o meno la Siria nel consesso. “La Lega Araba”, sottolinea il segretario generale Ahmed Aboul Gheit, “sta pienamente dalla parte del diritto della Siria nei riguardi della sua terra occupata”.

Giustamente terrorizzato dalla prospettiva che il prossimo cinguettio di Trump cancelli settant’anni di indipendentismo palestinese, si fa sentire anche il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat. Che affida la sua inquietudine ad un quesito inoltrato via Twitter: “che altro ci porterà il domani?”.

In questo brusio astioso, non poteva mancare la voce adirata dell’alleato storico della Siria e nemico giurato di Israele, la Repubblica Islamica. “Questo riconoscimento illegale e inaccettabile – tuona alla Tv di Stato il portavoce del ministero degli Esteri, Bahram Qasemi – non cambia il fatto che (il Golan) appartiene alla Siria”.

Si fa sentire, frattanto, anche il Sultano di Ankara. “Non possiamo permettere la legittimazione dell’occupazione delle Alture del Golan”, denuncia Recep Tayyip Erdogan durante il discorso tenuto al meeting di Istanbul dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica.

Queste posizioni, naturalmente, hanno un peso relativo rispetto a quella di un peso massimo come la Russia. Che, attraverso la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, sceglie di unirsi alla condanna per quelle che, ai suoi occhi, si configurano come “violazioni dirette delle decisioni dell’Onu”.

Reazioni comprensibili. Che tradiscono tutta l’irritazione per l’irruente diplomazia via social di Donald Trump. E per la sua scelta, al culmine di una turbolenta campagna elettorale, di fare un clamoroso assist ad un leader, Netanyahu, che il 9 aprile si gioca tutto, contro tutti. Tutti tranne lui, The Donald.

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