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Gioie e dolori per Trump

Pubblicato il 28/10/2019 - Policy Maker

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, il raid della Delta Force che ha determinato la morte del terrorista più ricercato al mondo, l’ex califfo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi, in un momento indubbiamente topico della presidenza Trump.

PRIMO PIANO

Alla fine, hanno davvero ragione i reporter di Politico quando, per descrivere quel che è successo tra la sera di sabato e la mattina successiva a cavallo tra gli Usa e il Medio Oriente, con l’intero mondo come spettatore, ne parlano come della “quintessenza” del trumpismo o, ancor meglio, come uno spettacolo che ha visto al centro della scena “il vero Trump dall’inizio alla fine”.

Uno show in cui l’audace raid notturno al confine con la Turchia della Delta Force che ha determinato l’eliminazione del nemico n. 1 degli Usa – il n. 1 dell’Isis e ormai ex califfo Abu Bakr al-Bagdhadi – è rimasto sullo sfondo di una comunicazione sapientemente gestita dallo staff di The Donald dal primo all’ultimo atto. Da quando, cioè, un tweet partito dall’account del tyccon alle nove della sera, ora di Washington distratta in quel momento dalla concomitante partita di baseball della World Series, ha rivelato al mondo unicamente che “Qualcosa di molto grosso è appena successo”, fino a quando, convocati esattamente dodici ore dopo i reporter nella cornice della Diplomatic Room della Casa Bianca per un major statement, il presidente ha spezzato la suspence che aveva attanagliato l’’opinione pubblica globale, confermando in diretta televisiva e social tutti i dettagli del blitz circolati vorticosamente nelle ore precedenti, a partire dal più atteso: Abu Bakr al-Baghadi is dead.

Questi aspetti scenici non entreranno forse nella storia come accadrà invece per l’unica cosa che conta, vale a dire la professionalità di chi ha preso parte all’operazione del Pentagono denominata, in onore di un ostaggio americano poi trucidato dai jihadisti, “Kayala Mueller”: una catena che parte dal personale di intelligence (americano, curdo e iracheno) che ha localizzato mesi fa, dopo una caccia durata cinque anni, il compound in cui si era rifugiato l’uomo più ricercato del mondo, fino ai cento uomini della Delta che, imbeccati da quelle informazioni, dopo aver sorvolato per 70 minuti a bordo di otto elicotteri Chinhook il territorio ostile che separa la capitale del Kurdistan iracheno Erbil a quel minuscolo villaggio della provincia siriana di Idlib al confine con la Turchia, hanno stanato la primula rossa del jihad, spingendolo ad far detonare il giubbotto esplosivo che aveva indosso e che ha procurato la morte a lui e a tre dei suoi figli.

Ciò detto, c’è un punto politico di questo show che mescola action e horror che non può sfuggire ai tanti che hanno seguito la parabola del presidente più anticonformista della storia americana. Cronisti o analisti come noi che, da quando è partita mesi fa la campagna elettorale per le presidenziali 2020, sono alla ricerca di indizi su un eventuale bis di The Donald all’orizzonte.

MOMENTO TOPICO DELLA PRESIDENZA TRUMP

Il punto che non possiamo ignorare è che la gloria che ricade sui valorosi militari che con sprezzo del pericolo hanno decapitato il vertice dell’Isis finisce inesorabilmente per riverberarsi sull’uomo cui l’attenta regia dei suoi collaboratori ha riservato il momento clou dell’annuncio urbi et orbi e della conferma del rumor rimbalzato da un angolo all’altro della terra nelle dodici ore precedenti. Puro spettacolo, insomma, che prelude al riconoscente scroscio di applausi per la mission accomplished e ad un torrente di schede elettorali riversate nelle urne con impresso quel cognome tedesco che è sinonimo in tutto il mondo dell’attuale fase convulsa ma elettrizzante della politica a stelle e strisce.

Ed è uno spettacolo in cui l’ex protagonista del reality The Apprentice può sfoggiare il talento del consumato attore e scandire le parole sguaiate che nessuno dei suoi predecessori, nelle medesime circostanze, si sarebbe sognato di pronunciare. Parole che, per quanto rudi e taglienti,  riflettono egregiamente gli umori dell’America profonda e spiegano bene quindi la radice del successo della presidenza Trump. Quel “killer brutale” – ha spiegato infatti un uomo in perfetta forma davanti al suo oggetto preferito, le telecamere – che ha sfidato l’America, incoronandosi imperatore di tutti i musulmani del pianeta e accomodandosi su un trono grondante sangue, è “morto come un cane” e un “codardo”.

Puro Trump, insomma, che con gran scorno degli innumerevoli detrattori del suo stile bombastico e politicamente scorrettissimo si ritrova al tempo stesso al centro della scena e dei cuori di milioni di americani riconoscenti nei confronti di un leader che, a differenza di tanti altri, sa mantenere le promesse. E la “morte violenta” del califfo che Trump ha descritto durante il lungo annuncio di ieri con dovizia di particolari e sprezzo del bon ton è qualcosa che lui aveva assicurato agli elettori fin dal principio della sua avventura politica. Un successo bello e buonop, insomma, che il twittatore compulsivo e brutale che c’è in lui potrà incassare come un assegno coperto e rotondissimo quando verrà, tra dodici mesi esatti, l’election day.

Attendiamoci perciò, in vista di quel giorno fatale, che gli zelanti collaboratori del presidente risfoderino e sfruttino alacremente la foto simbolo di questo grande trionfo che il social media manager di Trump, Dan Scavino Jr, ha rilanciato prontamente su Twitter (e dove se no?).

È uno scatto studiato ad arte che inquadra il commander in chief reduce, dice la sua schedule, da una partita di golf – seduto al tavolo della Situation Room affiancato dagli uomini che con lui sono rimasti incollati per due ore agli schermi collegati alla telecamera del drone che sorvolava la zona del raid. Tutti lì, attorno al capo, in silente contemplazione di quello che lo stesso Trump descriverà più tardi come qualcosa di “simile a un film”. Un war movie che culminerà con le brevi parole scandite dalla lontana Siria dal comandante dell’operazione della Delta: ‘100% confidence, jackpot.”

Oltre al protagonista assoluto, nel quadretto che ha sullo sfondo il sigillo presidenziale finiscono così il vicepresidente, Mike Pence, il capo del Pentagono Mark Esper, il neo-insediato Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien, e gli immancabili uomini in divisa e con le stellette sulle spalline nelle persone del capo degli Stati Maggiori Riuniti Mark A. Milley e del vice-direttore delle Operazioni Speciali e del Controterrorismo Marcus Evans.

Ieri, nel web e non solo si sprecavano i paragoni con l’analoga istantanea del 2 maggio del 2011 in cui il predecessore Barack Obama, attorniato dai suoi collaboratori tra cui una Hillary Clinton particolarmente provata, attendeva fremente e scuro in volto l’annuncio che sarebbe infine arrivato dal quartier generale della CIA per bocca del suo capo di allora, Leon Panetta: “Geronimo EKIA”, espressione in codice che conteneva il formidabile messaggio della morte del nemico n. 1 di allora, Osama Bin Laden, ad opera dei Navy Seals.

La similitudine tra quel momento topico di otto anni e mezzo fa e quello consumatosi l’altra notte a Washington rappresenterà forse, per il vincitore di ieri, l’unica nota stonata di un concerto impeccabile che ha affidato a lui il ruolo di primo violino.

Trump come Obama, insomma, ma fino a un certo punto.  E non solo perché oggi, a differenza del 2011, al centro dell’obiettivo delle telecamere c’è un Repubblicano (benché sui generis) e non un liberal. Il paragone finisce qui soprattutto perché due primi violini non interpretano mai allo stesso modo il medesimo spartito. E Trump, checché se ne dica, è un solista senza pari e per giunta baciato dalla fortuna.

La fortuna che ha voluto donargli il trofeo più ambito – il primo, indiscutibile successo in politica estera – negli stessi giorni in cui i suoi militari schierati in Siria, per suo espresso ordine e contro la volontà di mezzo mondo, stanno abbandonando frettolosamente il terreno da cui il califfo pochi anni fa impartiva ordini alle sue armate e presiedeva a massacri inenarrabili.

E anche questo, come dice Politico, è puro stile Trump, “dall’inizio alla fine”.

 


NOTIZIE DAL MONDO

Rosneft e Novatek passano all’euro

Il n. 1 di Rosneft Igor Sechin ha annunciato giovedì che la principale compagnia petrolifera russa d’ora in poi denominerà in euro i propri contratti, in una mossa che risponde a due priorità intrecciate: scudarsi anzitutto dalle sanzioni Usa e procedere quindi ad una contestuale “de-dollarizzazione” che – oltre a rappresentare un atto di emancipazione dal potere globale del dollaro e, quindi, una dichiarazione d’indipendenza dall’impero Usa – è il metodo migliore, dal punto di vista di Mosca, per mettersi al riparo dalle ritorsioni economiche extraterritoriali del governo americano.

“Per ora”, ha ammesso Sechin parlando ad un forum economico tenutosi a Verona, “questa è una misura forzata che ha lo scopo di limitare l’impatto sulla compagnia delle sanzioni Usa. (…) Tutti i nostri contratti di esportazione”, ha aggiunto il capo di Rosneft, “vengono già implementati in euro, e il potenziale per lavorare con la valuta europea è molto alto”.

Poche ore dopo la diffusione delle dichiarazioni di Sechin, anche Novatek, principale produttore russo di gas naturale liquefatto, ha annunciato di aver compiuto un passo analogo, e con le medesime finalità, scegliendo l’euro per la maggior parte dei propri contratti.

È stato Putin in persona a invocare la de-dollarizzazione, misura ritenuta indispensabile di fronte alle sanzioni elevate dagli Usa contro la Russia per le sue interferenze nella crisi ucraina e nelle elezioni presidenziali americane del 2016, nonché per rispondere alle reiterate minacce dell’amministrazione Trump di sanzionare Rosneft per le sue operazioni in Venezuela.

Ancor prima dell’acuirsi della crisi venezuelana all’inizio di quest’anno, e del conseguente braccio di ferro tra Mosca e Washington intorno al destino del regime di Maduro (appoggiato dalla Russia) sfidato dall’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaido (sostenuto dagli Usa), la Banca Centrale Russa aveva ridotto l’ammontare di buoni del tesoro americano detenuto nelle sue riserve.

Passare all’euro, tuttavia, potrebbe rivelarsi un pessimo affare per Mosca alla luce delle attuali politiche monetarie dell’Ue e, in particolare, dei tassi di interesse negativi che gravano sulle istituzioni finanziarie che detengono in deposito la valuta comunitaria. “Non ha alcun senso”, ha commentato a tal proposito Alexander Losev, capo di Sputnik Asset Management, “detenere in deposito una valuta con tassi di interesse negativi”

Nel 2018, Rosneft ha esportato petrolio e prodotti derivati per un totale di 5,7 trilioni di rubli, pari a 89 miliardi di euro.

 

Europa sudorientale in pieno declino demografico

Il declino demografico in atto in alcuni paesi dell’Europa sud-orientale piagati da un mix devastante di denatalità, invecchiamento e elevato tasso migratorio allarma le Nazioni Unite, le cui ultime proiezioni prefigurano una crisi prossima ventura dei sistemi di welfare di queste nazioni.

Illustrate lunedì a Reuters da Allana Armitage, direttore dell’ U.N. Population Fund for Eastern Europe and Central Asia, le nuove proiezioni del Palazzo di Vetro delineano un quadro inquietante, ben fotografato dalla presenza, in questa specifica regione, di nove dei dieci Paesi nel mondo in cui si registrano i più significativi decrementi di popolazione.

Spicca, in un quadro in cui la popolazione di tutti questi paesi diminuirà in modo consistente di qui al 2050, il dato della Bulgaria, i cui abitanti in quella data saranno ben un quarto di meno rispetto ad oggi.

Un altro dato allarmante fornito dalle proiezioni Onu riguarda la fascia di popolazione senior (con più di 65 anni), che nei paesi dell’Europa sudorientale è destinata a raddoppiare la sua consistenza di qui al 2035 e, in certi casi, addirittura a triplicare.

I problemi che ne deriveranno per i mercati del lavoro di questi Paesi, toccati da un preoccupante deficit di manodopera che aumenterà sempre di più, sono aggravati secondo l’Onu dal fatto che si tratta di nazioni che non compensano questi trend demografici negativi ricorrendo ai flussi migratori in entrata.

“Meno bambini e un’elevata emigrazione”, ha osservato Armitage, “implicano che le popolazioni dei paesi dell’Europa sud-orientale stanno diventando più piccole e anziane, e a differenza dell’Europa Occidentale, qui non si ricorre all’immigrazione per colmare il gap”.

Ma una via d’uscita c’è, secondo Armitage, ed è – oltre che aprire i confini – “identificare strategie che portino al rafforzamento del capitale umano così da far sì che le attuali sfide siano trasformate in opportunità”.

Oltre che sulla formazione di qualità e la creazione di posti di lavoro che retribuiscano meglio le competenze dei lavoratori, inducendoli a rimanere in patria anziché prendere la via dell’estero, la ricetta Onu si fonda su politiche per la natalità, congedi parentali, flessibilità negli orari di lavoro, e tutte quelle misure che possano migliorare il burden-sharing familiare tra uomini e donne in favore delle seconde.

 


Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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