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Green new deal e non solo. Tutti i dossier di Trump

Pubblicato il 11/05/2020 - Energia Oltre

Dal Green new deal all’Artico, passando per le misure economiche anti Covid-19. I dossier che agitano l’America nel Taccuino estero di Marco Orioles

LE LUCI E LE OMBRE DEL GREEN NEW DEAL NEL DIBATTITO AMERICANO POST-CORONAVIRUS

Se ci sono due cose certe e strettamente collegate dell’emergenza Coronavirus, sono da un lato che è stata un disastro per l’industria dell’energia come per l’economia in senso lato e, dall’altro, che i cieli in tutto il mondo sono limpidi come mai prima d’ora grazie ad emissioni inquinanti ridotte al lumicino.

Tutto questo, negli States, ha creato le condizioni per un nuovo scontro frontale tra Democratici e Repubblicani. Mentre i primi  sono infatti tentati di salutare l’attuale situazione come la prefigurazione di un mondo libero dai combustibili fossili in cui le energie rinnovabili saranno il motore della rinascita, i secondi non nascondono la propria inquietudine per una crisi del settore energetico di cui non si intravede la fine e, soprattutto, per i piani verdi coltivati dagli avversari liberal dietro cui essi intravedono solo sciagure per l’economia.

Un segnale premonitore che ha molto allarmato i Repubblicani è stata la lettera che la senatrice democratica Elizabeth Warren– una leader da seguire con attenzione nei prossimi mesi viste le altre probabilità di far parte del ticket del candidato Joe Biden –  ha trasmesso la settimana scorsa al Segretario al Tesoro Steven Mnunchin per manifestare il proprio dissenso dalla decisione di includere le aziende Usa dell’Oil & Gas tra le beneficiarie dei bailout governativi.

Non potevano rimanere indifferenti, i seguaci dell’Elefantino, ad una missiva che motivava il proprio no ai sussidi col fatto che tali aziende –oltre a risultare, dal punto di vista di Warren, meno meritevoli di aiuti dei semplici lavoratori in bolletta –  “hanno contribuito con le loro emissioni al deterioramento dell’ambiente” e, con la loro incessante azione di lobbying, “hanno minato gli sforzi di identificare e affrontare i rischi della crisi climatica”.

Al di là del palesare sensibilità che tutto sono fuorché sconosciute, la lettera di Warren ha un valore specifico in quanto – a detta di Axios che l’ha messa debitamente in evidenza – prefigura la tentazione, che risulterà irresistibile per molti democratici di primo e secondo rango, di approfittare della crisi da Covid-19 per fare della lotta al cambiamento climatico la priorità n. 1 della ricostruzione.

I segnali premonitori di questa svolta ci sarebbero tutti secondo Axios. C’è, ad esempio, l’entusiasmo con cui sono state accolte le affermazione di un leader ormai fuori dai giochi ma che gode ancora di grande prestigio e influenza nel partito e segnatamente tra gli obamiani, l’ex Segretario di Stato e candidato alla Casa Bianca John Kerry, per il quale l’emergenza Coronavirus ha “aperto la porta, la finestra, anzi, l’intera casa alla possibilità di intavolare adesso una vera conversazione (sui cambiamenti climatici), perché la gente ha finalmente capito cosa succede quando non si presta ascolto agli scienziati”.

Ma la prova regina di un’accelerazione da parte dei Dem, e dell’imminente showdown con i rivali repubblicani, sono le parole del direttore delle politiche di Joe Biden, Stef Feldman.

In una dichiarazione stilata per c0ntestare le posizioni di Trump sul cambiamento climatico, Feldman ha ammesso che il candidato dell’Asinello alla Casa Bianca, nel definire i piani della sua futuribile presidenza, si adopererà per “delineare un chiaro percorso (…) per creare una economia Usa competitiva che ricostruisca le nostre infrastrutture, ci renda il primo esportatore mondiale di tecnologia verde e fermi i peggiori impatti del cambiamento climatico”.

Che lo sfidante di Trump prometta questo rende già chiaro il crinale che si delineerà, sulle questioni dell’energia (e ovviamente non solo su queste) nell’imminente sfida per la Casa Bianca e la visibilità che ne otterrà il tema dei cambiamenti climatici.

Ma il segnale più eloquente di come in casa Dem sia stata letta la crisi innescata dal virus e interpretato i passi necessari per la fase 2 lo si rinviene nel titolo di un giornale non certo ostile nei confronti del partito di Biden e Pelosi, il Washington Examiner: “Se vi è piaciuto il Lockdown da pandemia, vi innamorerete del Green New Deal”.

Eccola dunque qui, l’espressione che per i Repubblicani è come il fumo negli occhi e per i rivali Dem la tentazione del secolo. Per quanto l’ambizioso piano caro all’ala radicale del partito e alle sue voci appassionate come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez e l’ex candidato alla nomination Bernie Sanders sia tutt’altro che condiviso dall’ala pro-mercato del partito (e dallo stesso Biden), la sua aura e le sue sfumature palingenetiche non hanno smesso di affascinare la base.

È per questo che la contro-strategia repubblicana si prepara a sfruttare l’opportunità offerta dalla popolarità tra i Dem di un piano che i repubblicani si prodigheranno per qualificare come la ricetta per un sicuro olocausto economico.

L’offensiva, segnala ancora Axios, è cominciata con la bordata sparata dallo Heartland Institute, istituzione vicina al presidente Trump da sempre in prima linea quando si tratta di negare i cambiamenti climatici, che in una recente conferenza dal titolo emblematico –  “Il Lockdown da Coronavirus è ciò che gli ambientalisti del futuro vorranno?” – ha dato la parola ad un attivista, Marc Morano,  consentendogli di scagliarsi contro i piani da sogno dei Dem: “Cos’è il Green New Deal se proprio ci pensate? Niente altro che una gigantesca recessione nazionale”.

Che il leitmotiv repubblicano contro i piani green sarà questo lo confermano le affermazioni che Elizabeth Harrington, portavoce del Comitato Nazionale del partito, ha scritto nella cornice di un commento pubblicati da The Hill per esprimere la propria convinzione che i democratici “pensano alla pandemia come alla perfetta opportunità per distruggere milioni di posti di lavoro” con i loro piani ambientalisti radicali”.

E che il bersaglio n. 1 di questa campagna sarà paradossalmente un uomo che ha preso le distanze dal Green New Deal come Biden lo confermano le parole di una consigliera della campagna per la rielezione di Trump, Mercedes Schlapp, lieta di spiegare ai microf0ni di Fox News che il candidato democratico alla Casa Bianca sotto sotto crede a “unicorni come il Green New Deal”.

 


MOSSE E CONTROMOSSE DI USA E RUSSIA NELL’ARTICO

Quella che si è chiusa sabato è stata una settimana ad alta tensione nell’Artico dopo la decisione della Marina Usa di far entrare tre cacciatorpedinieri Aegis della classe Arleigh Burke nel mare di Barents – che dell’Artico costituisce la porta – in una prima assoluta dai tempi della guerra fredda.

Come ha spiegato il comando delle forze navali Usa in Europa, la missione affidata alla USS Donald Cook, USS Porter and USS Roosevelt – che sono state affiancate dalla fregata britannica HMS Kent – era di riaffermare “la libertà di navigazione” e di “dimostrare le capacità di integrazione tra gli alleati”.

Pur essendo stata informata tre giorni prima dalla stessa U.S. Navy (“per evitare errori di percezione, ridurre i rischi e prevenire un’escalation involontaria”), Mosca – come ha reso noto l’agenzia Interfax – ha prontamente tracciato le rotte delle imbarcazioni, che secondo il centro gestionale della Difesa hanno fatto il loro ingresso nel mare di Barents intorno alle 7 della mattina di lunedì, e affidato alla Flotta del Nord stazionata nella base di Murmansk il compito di seguirne i movimenti.

L’ultima mossa degli Usa rientra perfettamente nel quadro di una strategia artica il cui caposaldo è presidiare “un Artico stabile e sicuro in cui gli interessi Usa siano salvaguardati” e non si sviluppino conflitti derivanti dalla compresenza, e dalle mire incrociate, di due potenze rivali come Russia e Cina, di cui la strategia Usa cita esplicitamente “il desiderio (…) di sfidare gli Usa e l’Occidente” (Pechino, per inciso, da qualche tempo ha preso a definirsi uno “Stato quasi-artico”) .

Ma è una lotta destinata ad inasprirsi, quella tra le tre grandi potenze che si accingono a sfruttare senza badare troppo al sottile le opportunità create dallo scioglimento dei ghiacci artici in termini sia di apertura di nuove rotte marittime, che di presidio a fini militari di una zona strategica del mondo, che soprattutto di sfruttamento dei giacimenti energetici che si stima siano depositati in gran quantità sotto quelle coltri di ghiaccio.

Chi però sembra intenzionato a non mollare la presa, e a rispondere agli americani colpo su colpo è proprio la Russia, che come notava un rapporto stilato l’anno scorso dal Pentagono “ha gradualmente rafforzato la sua presenza creando nuove unità artiche, ristrutturando vecchie piste da decollo e altre infrastrutture, e costruendo nuove basi militari lungo le coste artiche”.

I risultati si possono vedere sotto la forma dei ripetuti incidenti registratisi in questa zona. Non sono passati che pochi giorni da quando due bombardieri russi Tu-22 accompagnati da un velivolo attrezzato per la guerra elettronica sono stati intercettati da jet Nato sopra le coste della Norvegia.

Episodio ripetutosi appena 24 ore dopo quando due F-16 norvegesi ed alcuni F-35 alleati, cui si sono uniti successivamente alcuni caccia Typhoon dell’aviazione britannica, hanno intercettato due aerei russi per il pattugliamento marittimo “nello spazio aereo Nato vicino alla Norvegia”.

Che il Mar Artico sia ormai un luogo affollato di sagome militari, e sia destinato a diventarlo sempre di più, lo dimostrano anche le ripetute esercitazioni compiute nelle sue acque.

L’ultima risale a due settimane fa, si è tenuta nel cuore del mar di Norvegia sopra il circolo Artico e ha coinvolto due cacciatorpedinieri Usa, un sottomarino a stelle e strisce, due aerei Poseidon della U.S Navy e una fregata della Royal Navy.


IN AMERICA I SOLDI DEL PACCHETTO DI STIMOLO ANTI-COVID-19 SONO QUASI FINITI, MA MANCA L’ACCORDO PER UN BIS

Come dimostrano gli ultimi dati sulla disoccupazione salita al 14,7%, con più di 20 milioni di posti di lavoro persi nel mese di aprile, l’economia Usa continua a boccheggiare a causa del Covid-19.

E i soldi – tantissimi soldi – erogati alla fine di marzo per soccorrere i cittadini e la corporate America in difficoltà dal maxi pacchetto di stimolo del Congresso chiamato CARES sono ormai agli sgoccioli.

È stato niente meno che lo stesso Segretario al Tesoro Steven Mnuchin ad ammettere ai microfoni di CBS che le provvidenze di CARES sono state studiate per portare sollievo agli americani per non più di dieci settimane. Questo significa che molto presto, ossia il 5 giugno, i cittadini Usa rimarranno senza alcuna ciambella di salvataggio.

Per i più sfortunati, peraltro, il risveglio potrebbe palesarsi prima: il programma Paycheck Protection Program (PPP) che eroga prestiti alle aziende affinché onorino le buste paga dei lavoratori ha una durata di otto settimane. A questo ritmo, dunque, i fondi saranno esauriti alla fine di maggio.

E per quanto, in un successivo intervento, il programma sia stato rifinanziato, le nuove regole escludono dai beneficiari la gran parte delle imprese piccole e piccolissime.

Non va meglio ai privati cittadini cui era stato destinato un assegno una tantum da 1.200 dollari. Anche questo programma era stato studiato per permettere ai cittadini di sopravvivere ai lockdown al massimo per un mese, tempo che è stato abbondantemente superato in alcuni Stati già entrati nel secondo mese di restrizioni.

Gli unici a non piangere sono i disoccupati, per i quali gli ammortizzatori sociali allestiti nel pacchetto CARES non dovrebbero scadere prima del 31 luglio.

Di fronte a questa situazione, si moltiplicano gli appelli per un nuovo massiccio intervento pubblico. Il problema è che a Washington la politica, ben lungi dal compattarsi come nelle settimane precedenti per affrontare all’unisono questa nuova fase dell’emergenza, è fatalmente divisa per linee partisan sulla questione.

A detta di Axiosche ha riepilogato le posizioni in merito dei partiti, la leadership repubblicana è fermamente contraria ad erogare nuovi aiuti a pioggia anche solo per colmare le lacune delle norme precedenti. Nel quartier generale dell’Elefantino si tende a ritenere più opportuno attendere il totale esaurimento dei fondi di CARES e valutarne gli effetti prodotti.

La posizione repubblicana è dunque che solo dopo aver maturato un’idea chiara dell’impatto del precedente pacchetto si potrà lavorare sul prossimo. Inoltre, se e quando quest’ultimo entrerà in pista, dovrà concentrarsi sulla ripresa a lungo termine più che sul soccorso estemporaneo di cittadini e imprese in difficoltà.

In casa Dem, al contrario, prevale ancora l’inquietudine per lo stato di sofferenza delle famiglie private di un reddito, degli Stati e delle autorità locali senza più prelievo fiscale per sorreggere le proprie attività, e dell’industria sanitaria ancora sotto pressione per una pandemia che non ha smesso di mordere.

È per questo motivo che il partito ha stilato in completa solitudine – senza consultarsi dunque né con l’establishment repubblicano a Capitol Hill né con la Casa Bianca – la bozza di un nuovo pacchetto di aiuti dotato di un fondo superiore a 1,2 trilioni di dollari.

La bozza, che secondo Axios subirà ancora numerosi rimaneggiamenti, dovrebbe allocare nuovi soldi pubblici a favore di più soggetti, vale a dire:

  1. Stati e governi locali, cui dovrebbe andare il grosso della torta (circa 1 trilione);
  2. ospedali e strutture sanitarie, con il vincolo di destinare parte dei fondi ad un programma massiccio di test sul Covid-19;
  3. il Servizio Postale (25 miliardi);
  4.  i cittadini americani, destinatari di ulteriori pagamenti diretti;
  5. lavoratori precari e working poors, con l’obiettivo di rimpolparne i programmi per l’assistenza medica, la disoccupazione e i buoni pasto.

Vista la composizione dei provvedimenti democratici, le possibilità che la controparte li prenda in considerazione sono quanto mai scarse. I Repubblicani, d’altra parte, hanno già segnalato che non voteranno alcuna norma che non includa una qualche forma di sollievo per le imprese dai debiti accumulati in questo periodo. E la Casa Bianca, dal canto suo, è pronta a dare il suo ok solo se la legge conterrà un sostanzioso taglio delle tasse che gode del massimo favore da parte del presidente Trump.

Ma si tratta di condizioni alle quali il partito di Pelosi e Biden ha già detto di essere indisponibile.

Tutto lascia credere, dunque, che la settimana che si apre oggi si consumerà tra conciliaboli, mail e telefonate al fine di avvicinare posizioni al momento molto distante. Altra cosa è scommettere che alla fine si raggiungerà la quadra, se anche Axios scrive che la sola cosa che renderebbe possibile un simile scenario è la volontà dei parlamentari – e della scalpitante Nancy Pelosi in particolare – di dimostrare che sotto la cupola del Campidoglio si continua a lavorare.

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