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I settant’anni della Repubblica Popolare Cinese

Pubblicato il 30/09/2019 - Policy Maker

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, i 70 anni della Repubblica Popolare Cinese che si festeggeranno domani a Pechino con una grande parata. Nella sezione “notizie dal mondo”, il diniego di Minsk a Mosca per la realizzazione di una base dell’aviazione russa, il nuovo campo d’addestramento dell’Isis nel Puntland, la visita del presidente venezuelano Maduro alla corte di Putin

 

PRIMO PIANO

Tutto è pronto, a Pechino, per la grande festa di domani, quando centomila persone circa, in una cornice attentamente coreografata e sottoposta alle più rigide misure di sicurezza, si riverseranno in piazza Tienanmen per assistere, sotto la sguardo attento del nuovo imperatore Xi Jinping, alle celebrazioni dei 70 anni di fondazione della Repubblica Popolare cinese.

Come osserva la BBC, questo non è un anniversario a cifra tonda qualunque, ma il primo della storia in cui il Dragone si presenta al proprio popolo e all’opinione pubblica globale come superpotenza in piena e irrefrenabile ascesa, assurta al trono di seconda economia mondiale dopo aver sorpassato pochi anni fa il Giappone, ma senza rivali se si considera invece il Pil in termini di parità di potere d’acquisto.

Tanta, ma proprio tanta acqua è passata sotto i ponti cinesi da quando, esattamente sette decadi fa, Mao si affacciò al balcone – era un martedì – per proclamare la fondazione della Repubblica Popolare cinese. I tweet dell’Associated Press e della BBC invitano a rivisitare le tappe di un’ascesa unica nel suo genere anche se tutt’altro che lineare e priva di violenza:

 

Quel 1 ottobre del 1949, Mao si incoronava capo di uno stato ancora semi-feudale e soprattutto devastato dalla guerra. La parata militare organizzata per l’occasione in piazza Tienanmen – di cui si può vedere qualche immagine nel video incorporato nel tweet di China News – ben sottolineava le condizioni quanto mai difficili in cui cominciava l’avventura di quello che più avanti sarebbe stato definito “socialismo con caratteristiche cinesi”: sopra le teste dei soldati in alta uniforme sfrecciarono appena 17 aerei militari, un numero talmente esiguo da spingere chi dirigeva la cerimonia a ordinare ai piloti di fare un secondo passaggio sopra la piazza.

Pur imponendosi subito come appuntamento fisso della neonata creatura politica, la parata del 1 ottobre conobbe alterni destini che ricalcarono una storia fitta di eventi drammatici se non proprio tragici.

Così, se fino al 1959 la tradizione fu rispettata, negli anni più bui del dominio maoista – segnati dalle calamità passate alla storia come Grande Carestia e Rivoluzione Culturale – fu messa in soffitta da una dirigenza occupata a pensare ad altro.

A ravvivarla ci pensò nel 1984 il successore del Timoniere, quel Deng Xiaoping cui si devono le aperture al capitalismo che nell’arco di tre decenni resero irriconoscibile un regno dominato da fame e stenti, proiettandolo nell’empireo dei giganti economici della terra.

Sotto Deng, la parata assunse toni consonanti con le priorità di un regime che aveva deciso di puntare tutto sull’arricchimento e sull’uscita del suo popolo dall’indigenza, ma senza rinunciare alla grammatica socialista. Alle celebrazioni del 1 ottobre, così, si potevano vedere striscioni con slogan come “il tempo è denaro” o riproduzioni dei beni di consumo finalmente accessibili alle masse come il frigorifero.

L’appuntamento del 40mo anniversario fu forse il più delicato di tutti. Pochi mesi prima, infatti, piazza Tienanmen era stata teatro del famoso massacro di studenti e militanti democratici su cui l’odierna storiografia cinese com’è noto tace. Lo stupore e l’indignazione del mondo fu tale che, alla parata del 1 ottobre, fu deciso di non far sfilare mezzi militari perché – come scrisse all’epoca il noto editorialista del New York Times, Nicholas D. Kristof – “evidentemente i residenti di Pechino ne hanno visti abbastanza negli ultimi mesi”.

La Repubblica Popolare cinese che si appresta domani a festeggiare i suoi 70 anni sconta ancora quella macchia nella sua reputazione, che peraltro non è né l’unica né la più grave. Gli odierni detrattori del regime hanno buon gioco a ricordare l’antico e irrisolto nodo del Tibet e la più recente repressione, in nome della lotta al terrorismo, dei cinesi di fede islamica della regione dello Xinjiang. E le cronache di questi giorni ci mettono sotto gli occhi la situazione incandescente a Hong Kong, restia ad accettare il giogo comunista anche a 22 anni di distanza ormai dalla riunificazione con la madrepatria.

Organizzando la parata più spettacolare di tutti i tempi, Pechino tenterà naturalmente di far cadere nell’oblio questi aspetti e di mettere invece sotto gli occhi di tutti i segni della grandezza di un regime la cui potenza economica si accresce a ritmi da record, i cui avanzamenti tecnologici fanno presagire clamorosi sorpassi rispetto ai produttori rivali occidentali e asiatici, le cui forze armate incutono timore crescente nei paesi vicini e con la cui influenza politica e diplomatica tutto il mondo, a partire dalla superpotenza n. 1, devono fare i conti.

Nulla, a Pechino, è stato lasciato al caso: la capitale è stata pavesata a festa al punto da renderla irriconoscibile ai suoi stessi abitanti, una cui piccola rappresentanza – si parla di circa 60 mila persone – ha ricevuto il pass per accedere domani alla zona della parata.

Sui vantaggi di una massiccia partecipazione popolare hanno prevalso le più stringenti ragioni della sicurezza: si tratta di prevenire possibili incidenti, come un’isolata manifestazione di protesta, che possa far degenerare la situazione in una piazza come Tienanmen universalmente associata alla brutalità delle forze di sicurezza cinesi. A milioni di pechinesi non resterà dunque che godersi lo spettacolo dalla tv.

Chi non avesse il pass e tentasse di imbucarsi avrà vita dura: la zona circostante piazza Tienanmen sarà praticamente sigillata sulla base di un piano che è stato sperimentato più volte nelle ultime settimane; persino i residenti dovranno identificarsi per accedere alle loro abitazioni. Negozi e ristoranti del centro rimarranno chiusi, mentre gli ospiti degli hotel sono già stati avvisati di rimanere nelle loro stanze per tutta la durata della parata. Svariate le misure di sicurezza previste sui treni in arrivo a Pechino e nelle stazioni della metropolitana, alcune delle quali saranno chiuse, mentre il traffico veicolare sarà soggetto a numerose limitazioni.

Per assicurare il successo dell’iniziativa sono stati previsti interventi persino sulle variabili più ostiche come l’inquinamento e il meteo. Per scongiurare il cielo plumbeo assai familiare ai residenti e frequentatori della capitale, ai camion è stato impedito l’accesso a Pechino sin dallo scorso 20 agosto mentre dal 1 settembre è stato imposto l’alt a tutti i cantieri. A tutte le industrie situate in un raggio di 300 km da Pechino è stata chiesta una riduzione “volontaria” delle emissioni inquinanti se non di sospendere la produzione tout court. Sospese infine le attività in tutte le miniere.

Sul fronte del meteo, invece, si segnala la visita del vicepremier Hu Chunhua all’Amministrazione Metereologica Cinese dove ha chiesto “appoggio meteorologico per assicurare il successo delle attività” organizzate a Pechino. Obbedendo alla direttiva, l’Amministrazione dalla settimana scorsa ha avviato un monitoraggio intensificato che durerà fino a mercoledì. Sarebbero stati previsti, a detta dell’Independent, anche interventi straordinari – già sperimentati in occasione delle Olimpiadi del 2008 o in eventi come il G20 di Hangzhou e il Forum sulla Bri di Pechino –  come la  “semina delle nuvole” sparando sale o agenti chimici nelle nuvole per favorirne la condensa e accelerare le precipitazioni.

Da un regime che ha fatto della censura e del controllo dell’informazione un’arte ci si dovevano aspettare, naturalmente, anche provvedimenti in tal senso. Così nella popolare piattaforma social Weibo si sta procedendo alacremente alla rimozione di ogni contenuto che “distorca” o “insulti” la storia cinese.

Anche i giornalisti non avranno vita facile, se questa espressione ha un senso in un paese dove questo mestiere prevede la cieca obbedienza alle direttive del partito e un ampio ricorso alle veline. I reporter hanno dovuto affrontare un test per dimostrare la loro conoscenza degli insegnamenti del presidente Xi che due anni fa sono stati iscritti nella Costituzione. Inutile dire che chi non ha passato l’esame non ha ricevuto l’accredito.

Sarà dunque sullo sfondo di un’organizzazione scientifica se non maniacale che domani il presidente Xi, alla presenza di 188 attaché militari di 97 paesi, darà il via alla parata, di cui potete avere qualche assaggio in questi tweet:

https://twitter.com/PDChina/status/1177792547042680832

 

Sarà lui, che è anche il presidente della Commissione Militare Centrale, a ispezionare i circa 15 mila soldati provenienti da 59 unità che saranno schierati in piazza Tienanmen. Lungi dall’essere stata affidata al caso, la scelta degli uomini chiamati a marciare in sincrono ha seguito criteri rigorosissimi in termini sia di standard fisici  che di lealtà politica, come ha ammesso il vice direttore esecutivo della parata, generale Tan Min.

Per la prima volta, inoltre, saranno presenti due generalesse, che sfileranno al ritmo dei più di 50 brani patriottici musicati da una banda militare composta da migliaia di musicisti.

Gli occhi degli analisti militari di tutto il mondo saranno puntati invece sui sistemi d’arma esibiti durante la parata. Come hanno evidenziato martedì scorso durante una conferenza stampa lo stesso Tan Min e il generale Cai  Zhijun, a sfilare saranno esattamente 580 sistemi tutti made in China. Particolarmente interessante lo spettacolo dal cielo, dove volteggeranno 160 velivoli, dal primo caccia stealth cinese, il J-20, ai bombardieri J-16, i caccia J-10 e J-11B, i bombardieri strategici Xian H-6, gli aerei da trasporto Y-20 fino agli elicotteri da combattimento Z-20 e Z-15. Tra le evoluzioni che sono state loro assegnate, il disegno di un enorme numero 70.

A detta di un “insider dell’esercito” sentito dal South China Morning Post, faranno bella mostra di sé alla parata anche i diversi sistemi missilistici della forza nucleare strategica: dai vettori DF-41, DF-31AG, DF-26, DF-17 fino al gioiellino dell’arsenale cinese, il missile balistico intercontinentale DF-41 che la fonte definisce “il sistema d’arma più potente della parata”, capace di trasportare testate atomiche ad oltre 9 mila miglia di distanza.

Tutto questo sfoggio di potenza vuole naturalmente veicolare un messaggio, che il quotidiano in lingua inglese del partito, il Global Times, ha volutamente messo in chiaro. “Qualsiasi paese che tentasse di provocare la Cina e ne minacciasse la sovranità territoriale e l’integrità farebbe bene a pensarci due volte”.

Sarà dunque su un sfondo che abbina festa e minacce che Xi Jinping pronuncerà il suo discorso, che giornalisti, politici, e analisti di tutto il mondo ascolteranno con estrame cura onde cogliervi tutti i segnali sulla direzione di marcia che la superpotenza cinese giunta ormai ad età matura intende intraprendere sotto la guida del suo capo eterno. Di un uomo cioè che, come sottolinea il New York Times, “ha cercato di concentrare nelle sue mani un potere più grande di qualsiasi leader dai tempi del presidente Mao e che, per lo scorno di alcuni suoi critici, pretende di posizionarsi al fianco di Mao nel pantheon dei leader della Cina comunista”.

Quella di Xi sarà sicuramente un’orazione carica di richiami ai grandi successi ottenuti dal partito (unico) in questi settant’anni, e un inno all’orgoglio di un Paese che con una corsa frenetica durata tre generazioni ha smesso di guardare alle altre potenze del mondo dal basso verso l’alto.

Un paese che però oggi deve fare i conti con una sfida insidiosa che ne ha già compromesso gli un tempo invidiabili ritmi di crescita: lo scontro frontale con gli Stati Uniti di Donald Trump, dell’uomo cioè che solo pochi giorni fa ha definito la Cina “una minaccia al mondo”.

 


 

TWEET DELLA SETTIMANA

Le forze del Comando Centrale Usa hanno compiuto martedì il secondo strike aereo in una settimana in Libia contro miliziani dell’Isis nei pressi di Murzuq, non lontano dal luogo dove gli aerei americani erano entrati in azione la settimana precedente.

 


NOTIZIE DAL MONDO

Nemmeno la Bielorussia si fida di Mosca: niente base per gli Su-27

Il governo di Minsk rinnova il suo niet alla richiesta russa, avanzata per la prima volta dal presidente Vladimir Putin nel 2015, di realizzare nel paese una base in cui alloggiare i caccia di Mosca Su-27.

Il diniego – sottolinea Reuters – era stato ripetuto dall’esecutivo bielorusso anche l’anno scorso, con la motivazione alcun bisogno di non solo che non ci fosse una base russa, ma che la mossa avrebbe rischiato di esacerbare le tensioni regionali e di distogliere l’attenzione dalle crisi in corso in Ucraina e Siria.

All’ennesimo no arrivato in questi giorni, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov è sbottato e, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano Kommersant, ha parlato di un “episodio spiacevole”.  “Il contenuto, non la forma, è ciò che conta di più”, ha affermato Lavrov. “E dal punto di vista del contenuto, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha detto molte volte che la Russia è un alleato al 100%”.

L’ira di Lavrov è comprensibile: Russia e Bielorussia fanno parte della medesima Unione – che ha tuttavia più valenza simbolica che altro – e stanno studiando come approfondire la loro integrazione. E Mosca sostiene generosamente l’economia bielorussa con prestiti ed energia a prezzi scontati. Ciononostante, a Minsk si diffida dell’abbraccio russo, e non manca chi, in un’eventuale più profonda integrazione con l’ingombrante vicino, intravede lo spettro di una larvata annessione.

Chi meglio di altri ha colto questa tensione è stato l’ormai ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa John Bolton, che il mese scorso è diventato il funzionario del governo Usa più alto in grado a visitare la Bielorussia dopo anni di assenza. Un passaggio con il quale, osserva Reuters, Bolton ha voluto “avvertire Lukashenko della minaccia alla sicurezza posta dalla Russia” al suo Paese.

Un campo d’addestramento IS nel Puntland

 Il gruppo jihadista, che nel paese del Corno d’Africa è attivo sotto il nome di “Stato Islamico della Somalia” (ISS), ha diffuso la settimana scorsa nel web le immagini di un proprio nuovo campo di addestramento allestito in un punto imprecisato nella zona montuosa a sud di Bosaso, considerata la roccaforte locale della formazione jihadista e oggetto in quanto tale di numerose operazioni militari delle forze di sicurezza del Puntland oltre che di svariati strike aerei Usa (uno dei quali ha ucciso, all’inizio dell’anno, il vice emiro del gruppo).

Non è la prima volta che l’IS mostra un proprio campo d’addestramento in questa zona: un video di tre anni fa celebrava ad esempio il campo di addestramento “Comandante Sheikh Abu Numan”. La struttura mostrata nelle nuove foto è stata intitolata invece a “Dawoud al Somali”, un addestratore dell’IS ucciso l’anno scorso.

Le immagini mostrano numerosi militanti intenti a fare esercizi fisici e ad addestrarsi all’uso delle armi. L’ISS sostiene che si tratta di nuove reclute, cosa che confermerebbe – come rileva The Long War Journal – gli sforzi fatti recentemente dall’organizzazione per rafforzarsi in questo quadrante. Un altro segnale di fervente attività da parte del gruppo nella zona è dato dai numerosi arresti di affiliati etiopi effettuati dalle forze di sicurezza di Addis Abeba.

Ma le operazioni dell’ISS in quest’area, nota ancora il LWJ, si sono drasticamente ridotte negli ultimi mesi – anche se la settimana scorsa il gruppo ha messo a segno un attentato a Mogadiscio – a causa sia dell’attività di contrasto delle forze armate del Puntland che delle pressioni esercitate dalla formazione jihadista rivale degli Shabaab, leale ad al Qa’ida.

Maduro va Mosca, mentre Trump rafforza le sanzioni

 Ricevendo mercoledì al Cremlino il presidente venezuelano, Vladimir Putin ha affermato di “appoggiare il dialogo che lei, sig, presidente e il suo governo, sta conducendo con le forze di opposizione”.

Si riferiva, il presidente russo, ai negoziati tra il governo di Caracas e i gruppi di opposizione che sono stati lanciati la settimana scorsa e accettati da alcuni partiti venezuelani ma rigettati dalla maggior parte degli oppositori alla dittatura, incluso l’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaido: rifiuto che Putin ha definito “irrazionale e dannoso per il paese e una minaccia per il benessere della popolazione”.

Dopo il faccia a faccia, Putin e Maduro hanno pranzato insieme ad alcuni funzionari dei rispettivi governi per discutere della cooperazione bilaterale. Se tuttavia Maduro ha dichiarato che in agenda vi erano incontri con “importanti aziende”, il portavoce del Cremlino ha sostenuto che non vi fossero accordi importanti da siglare e che i colloqui avrebbero riguardato solo “l’implementazione di progetti congiunti”.

Tutto questo avveniva mentre, il giorno prima, Donald Trump inveiva contro Maduro e il suo socialismo “distruttore di società” dalla tribuna delle Nazioni Unite, dichiarando di aspettare fremente il giorno in cui “il Venezuela sarà libero e (..) la libertà avrà prevalso in tutto questo emisfero”.

La Casa Bianca ha inoltre appena triplicato gli aiuti per i militanti democratici venezuelani, stanziando per la prima volta fondi diretti per Guaidó. I nuovi aiuti, per un totale di 52 milioni di dollari, sono stati annunciati martedì da Mark Green, amministratore dell’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale (USAID), a seguito di un incontro a New York con l’inviato di  Guaidó, Carlos Vecchio.

In una dichiarazione, USAID ha fatto sapere che i nuovi fondi saranno distribuiti ai media indipendenti, alla società civile, alla Sanità e all’Assemblea nazionale, che è controllata dalle opposizioni che riconoscono la leadership di Guaidó.

Gli Usa, inoltre, hanno introdotto nuove sanzioni che, oltre al Venezuela, vanno a colpire il suo maggior alleato nell’emisfero, Cuba.

“I benefattori cubani di Maduro”, ha dichiarato il Segretario al Tesoro Usa, Steven Mnuchin, “forniscono una linea vitale al regime e (al) suo apparato repressivo”.

Le sanzioni colpiscono in particolare quattro aziende ree di trasportare petrolio dal Venezuela a Cuba. Tre di esse sono registrate a Panama (Trocana World Inc., Tovase Development Corp e Bluelane Overseas SA) e una a Cipro (Caroil Transport Marine Ltd). I loro asset basati negli Usa sono stati congelati e sarà loro impedito d’ora in poi di fare affari in America nonché di usare il sistema finanziario Usa, venendo di fatto tagliate fuori dal sistema finanziario globale.

Il Tesoro ha inoltre rafforzate le sanzioni contro PDVSA, la compagnia petrolifera pubblica da cui lo Stato venezuelano attinge gran parte delle proprie risorse.

“Il petrolio del Venezuela” – ha sottolineato Mnuchin – “appartiene al popolo venezuelano e non dovrebbe essere usato (…) per sostenere i dittatori e prolungare l’usurpazione della democrazia venezuelana”.

 


Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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