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La triste storia di Giulio Regeni patrimonio di tutti

Pubblicato il 22/06/2019 - Il Piccolo, Messaggero Veneto

Così, dopo l’ukase di Massimiliano Fedriga, scopriamo che i famosi striscioni gialli che chiedono “Verità per Giulio Regeni” non saranno “mai più esposti nei palazzi regionali, né a Trieste né altrove”. Nel capoluogo regionale stanno già lasciando il posto ai poster dei campionati europei di calcio Under 21, augusta kermesse che si sta consumando in questi giorni sul nostro territorio. Una priorità è una priorità, e il vessillo che ricordava a caratteri cubitali una richiesta perentoria formulata a nome di un’intera comunità può ben essere ammainato. A Fedriga dobbiamo in ogni caso essere grati perché, come precisa lo stesso governatore: “Malgrado non condivida la politica degli striscioni e dei braccialetti, non ho fatto rimuovere lo striscione per più di un anno”. Ammirevole pazienza, quella del luogotenente di Matteo Salvini in FVG, capace di lavorare per dodici lunghi mesi all’ombra di uno slogan che gli appare evidentemente sorpassato o superfluo. Che la procura del Cairo continui a temporeggiare, lasciando che gli assassini di Regeni – di cui anche i sassi ormai conoscono nome, cognome e professione – si godano beatamente la vita, a Fedriga deve sembrare un dettaglio. Che nulla aggiunge ad un caso che mai lo ha fatto palpitare. Meglio dunque approfittare di una competizione sportiva per mettere in soffitta quei drappi. Che, al nostro presidente, avevano già causato qualche irritazione. Lo rivela lui stesso quando denuncia gli “sterili tormentoni” provocati da chi si spinse addirittura ad “imporre con atteggiamenti prevaricatori cosa deve o non deve fare la Regione”. Non è infatti la prima volta che gli striscioni di Amnesty International finiscono al centro delle polemiche. C’è il precedente del sindaco di Trieste Roberto Dipiazza, che ne ordinò la rimozione poco dopo il suo insediamento. E altrettanto fece l’attuale primo cittadino di Udine, Pietro Fontanini, costretto però a furor di popolo a ritornare sui propri passi. A muovere entrambi fu lo stesso sentimento di Fedriga: il fastidio per una prescrizione – l’obbligatorietà dell’esposizione – che mal si sposa con le loro intime convinzioni. Ai loro occhi, Giulio Regeni non appare in effetti come lo stesso simbolo attorno a cui si sono stretti tanti abitanti di questa regione. Non ravvisano, in quel caso conclamato di ingiustizia che ferisce la famiglia di Giulio e offende la dignità di un intero Paese, una battaglia sacrosanta da combattere ad oltranza. Tutto ciò che scorre nella mente e nei cuori di chi ancor oggi esibisce dal balcone quella scritta orgogliosa non trova corrispondenza in quel che si muove nelle stanze del potere. Dove quegli striscioni hanno perso, per ingiunzione presidenziale, il diritto di cittadinanza. Insieme a loro, esce di scena però anche l’illusione in cui ci siamo cullati per tre anni e mezzo: che la triste storia di Giulio fosse un patrimonio di tutti. Lo è, invece, solo di una parte. Che non è la stessa che sta al governo.

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