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Le ultime mosse di Trump contro Cina e Iran

Pubblicato il 10/06/2019 - Policy Maker

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, la maxi-vendita di armi Usa – tra cui i tank Abrams e missili anti-carrro – a Taiwan. Nella sezione “Notizie dal mondo”, le mosse della portaerei USS Abraham Lincoln inviata dalla Casa Bianca a pattugliare il Golfo Persico, il primo attacco rivendicato dallo Stato Islamico in Mozambico, la cancellazione delle elezioni presidenziali in Algeria, le dichiarazioni del consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, sul piano di pace Usa tra Israele e palestinesi. Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

PRIMO PIANO: GLI USA SFIDANO PECHINO VENDENDO TANK E MISSILI A TAIWAN

È servito un pugno di giorni agli Stati Uniti per passare dalle parole ai fatti. Dopo che lo scorso 1 giugno il Segretario alla Difesa Patrick Shahanan, ospite dello Shangri-la Dialogue di Singapore, aveva illustrato la nuova strategia americana nel Pacifico sintetizzandola in una frase inequivocabile – “Non ignoreremo il comportamento cinese” – ecco che la superpotenza a stelle e strisce la traduce con un atto pratico: la vendita di più di due miliardi di dollari di armamenti a Taiwan.

La notizia che Taiwan ha fatto richiesta di rifornirsi di armi americane e che è stata avviata la relativa procedura la lancia per prima mercoledì l’agenzia Reuters, che cita quattro “persone che hanno familiarità con le trattative”. Seguono a ruota varie testate internazionali, che si preoccupano di diffondere l’informazione su Twitter.

Si mobilita anche la redazione del quotidiano più famoso del mondo, il New York Times, che sottolinea immediatamente un aspetto fondamentale: si tratta di “una delle più grandi (vendite di armi) degli Stati Uniti a Taiwan negli ultimi anni”.

Un particolare, quello evidenziato dal NYT, su cui si sofferma anche l’analista di “The Diplomat” Ankit Panda, che su Twitter rimarca come quella somma, due miliardi di dollari e passa, rappresenti “più di tutto il valore della vendita di armi (compresa la manutenzione) fatte dall’amministrazione Trump a Taiwan”.

È bene precisare subito che l’affare non è ancora stato finalizzato. Come spiega la rivista specializzata Jane’s, per ottenere armi dagli Usa Taiwan deve seguire una procedura formale molto rigida che prevede alcuni passaggi. Anzitutto, il Ministero della Difesa deve trasmettere al governo americano delle “letters of request” nelle quali manifesta la volontà di procurarsi gli armamenti made in Usa. La richiesta deve quindi essere vagliata da varie branche dell’esecutivo statunitense che, in caso di accoglimento dell’istanza, produce e invia a Taiwan delle “letters of offer and acceptance”.

Si tratta, dunque, di un procedimento lungo e articolato. Che però, nel caso di cui stiamo parlando, starebbe avanzando “normalmente”, ha fatto sapere il Ministero della Difesa di Taiwan. Aggiunge, il dicastero, che gli acquisti programmati sono necessari per migliorare “le capacità di Difesa delle nostre forze armate e per consolidare la partnership di sicurezza tra Taiwan e gli Stati Uniti nonché la stabilità nella regione”.

I DETTAGLI SULLA VENDITA A TAIWAN

Ma quali armamenti si accingono a essere trasferiti dagli Usa a Taiwan in base alla nuova intesa? La parte più consistente della transazione riguarda l’acquisto di 108 esemplari dei tank M1A2 Abrams prodotti dalla General Dynamics Corp, che dovranno rimpiazzare gli ormai desueti M60A3 MBT (anch’essi made in Usa) in dotazione alle forze armate di Taiwan e gli M48H CM11 MBT, che Taiwan produce localmente.

L’affare comprende poi un notevole quantitativo di munizioni anti-carro, inclusi 409 missili Javelin prodotti dalla Raytheon e dalla Lockheed Martin, per un controvalore di 129 milioni di dollari, 1.240 missili TOW (valore 299 milioni di dollari), e 250 esemplari di missili Stinger al prezzo di 223 milioni.

Come rileva Bloomberg, nel pacchetto non ci sono invece i 66 esemplari di F-16-V (la configurazione più avanzata del famoso caccia statunitense) che Taiwan avrebbe richiesto agli Usa lo scorso marzo, suscitando l’ira di Pechino.

L’assenza degli F-16 nulla toglie però al significato di questa transazione. Una volta consegnate, le nuove armi made in Usa – osserva Bonnie Glaser, esperto del Center for Strategic and International Studies – saranno di aiuto “ad impedire un’invasione” cinese dell’isola, “rendendo difficile ad una forza di invasione dell’Esercito di Liberazione Popolare di stabilire una testa di ponte nel nord di Taiwan”.

La CBS rileva in particolare che i sistemi Tow e Javelin metteranno Taiwan nelle condizioni di respingere un eventuale tentativo della Cina di sbarcare nelle coste dell’isola con i propri tank, mentre gli Stinger sarebbero di grande aiuto contro gli oltre mille caccia cinesi.

LA REAZIONE CINESE

Difficile, dunque, non cogliere il senso dell’operazione. La protesta della Cina, infatti, arriva puntuale. “Siamo seriamente preoccupati”, ha affermato nel consueto briefing alla stampa il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, che ha esortato gli Usa a “cessare la vendita di armi a Taiwan e recidere i legami militari” con l’isola nonché a “gestire con prudenza e appropriatamente i temi legati a Taiwan per evitare di danneggiare seriamente le relazioni Cina-Usa e la pace e la stabilità dello Stretto di Taiwan”.

Ma, come dimostra la nuova vendita di armi a Taiwan, l’amministrazione Trump non sembra affatto intenzionata ad obbedire alle ingiunzioni del Dragone. Al contrario, il governo guidato dal tycoon vuole rispettare una tradizione consolidata che vede gli Usa essere, oltre che il principale fornitore di armamenti dell’isola, il garante esterno della sua Difesa e – soprattutto – il più formidabile ostacolo dinanzi alla minaccia di Pechino, ribadita domenica scorsa dal ministro della Difesa cinese Wei, di annettere manu militari Taiwan.

Oltre a quello in itinere, sono già due gli accordi America-Taiwan per la vendita di materiale militare made in Usa siglati sotto la presidenza Trump: uno, più consistente, del 2017, del valore di 1,4 miliardi di dollari, e uno dell’anno scorso di 330 milioni di dollari.

È arcinoto che il tycoon abbia un debole per l’industria nazionale della Difesa e vada in visibilio quando alleati e partner aprono i cordoni della borsa per rifornirsi dall’America. In più, la Casa Bianca ha in parte riscritto le regole della politica dell’export di materiale militare per rendere ancora più agevole le vendite. Uno degli ispiratori di questo nuovo corso, il consigliere al commercio e falco anti-cinese Peter Navarro, ha anche – ricorda Reuters – vergato di proprio pugno a marzo un editoriale per il New York Times nel quale caldeggiava, guarda caso, la vendita di tank a Taiwan.

SOSTEGNO APERTO DEGLI USA A TAIWAN

Che l’amministrazione Trump voglia distinguersi per una linea di sostegno aperto a Taiwan (e di intransigente contrasto delle mire cinesi sull’isola) lo dimostra, tra le altre cose, anche la legge del marzo scorso – il Taiwan Travel Act – che incoraggia i contatti al più alto livello tra membri dei rispettivi governi: un atto pensato per rompere la consuetudine, imposta dalla precedente legislazione nota come Taiwan Relations Act e dal rispetto del principio di “una sola Cina”, di mantenere le relazioni diplomatiche al livello più basso.

È proprio questo atteggiamento di prudenza che la Casa Bianca vuole archiviare nella maniera più plateale possibile. L’atto più eloquente, in tal senso, è stato l’incontro a maggio tra il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton con la sua controparte taiwanese, il generale David Lee.

Mai come in questo caso, per citare Marshall McLuhan, “il mezzo è il messaggio”. Bolton infatti in passato ha ripetutamente sostenuto la necessità per Washington di stabilire relazioni diplomatiche formali con Taiwan e ha addirittura invocato il ridislocamento dei militari Usa dalle basi di Okinawa a Taiwan.

E ci sono sicuramente le impronte di Bolton nelle operazioni di “libertà di navigazione” che la marina Usa sta intraprendendo con crescente vigore nello Stretto di Taiwan, l’ultima delle quali – come ha riferito anche Policy Maker – è avvenuta appena due settimane fa.

La nuova vendita di armi a Taiwan fa dunque capire che il duello Cina-Usa nel Pacifico continua e sarà sempre più serrato.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

 

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed si è recato venerdì a Khartoum per discutere con il capo del Consiglio Militare, generale Abdel Fattah al-Burhan, che sta amministrando la difficile transizione politica seguita al colpo di Stato che ha deposto il presidente Omar al-Bashir e tentando di gestire il braccio di ferro con la piazza che non da tregua da mesi al regime.

 


NOTIZIE DAL MONDO

La portaerei USS Abraham Lincoln nel Mare Arabo. Lo Strike Group Usa guidato dalla portaerei Abraham Lincoln che il mese scorso è stato inviato dalla Casa Bianca a pattugliare il Golfo Persico come deterrente nei confronti dell’Iran sta incrociando al momento nel Mare Arabo – martedì era localizzato a 320 chilometri al largo della costa orientale dell’Oman – onde evitare possibili scontri con i Guardiani della Rivoluzione e non ostacolare le trattative tra Washington e Teheran cui sembra puntare ora l’amministrazione Trump. Domenica scorsa tuttavia la Lincoln, insieme ad alcuni bombardieri B-52, è stata impegnata in un’esercitazione che ha messo in scena “operazioni simulate di attacco”. Ai giornalisti che gli hanno chiesto perché la portaerei non si trovasse nel Golfo Persico, il comandante della nave, ammiraglio John F.G. Wade, ha risposto che le sue forze “conducono la mia missione quando e dove ve ne è bisogno”. Si è rifiutato, Wade, di precisare gli obiettivi della missione, spiegando tuttavia che l’Iran “presenta una minaccia alle nostre operazioni, ma anche alla sicurezza del commercio e degli scambi che passano attraverso lo Stretto di Hormuz, e questo è il motivo per cui siamo qui”. Approfondisci su Associated Press.

 

Lo Stato Islamico rivendica il primo attacco in Mozambico. “Grazie a Dio, i soldati del califfato hanno respinto un attacco dell’Esercito Crociato Mozambicano a Mitopy, nella regione di Mocimboa”, recita la dichiarazione diffusa martedì dalla “Provincia Centro-Africana” dell’Is, che tuttavia – rileva il Long War Journal, che monitora le attività delle formazioni jihadiste in tutto il mondo – non trova riscontro nella stampa locale. L’IS sostiene comunque di aver ucciso o ferito “numerosi” soldati e di aver catturato svariate armi, compresi alcuni Rpg, che sono state esibite in alcune foto diffuse insieme alla rivendicazione. Nel distretto di Mocimboa ci sono stati negli ultimi anni vari attacchi jihadisti, e sono andate in scena anche alcune decapitazioni. Non è però chiaro, osserva ancora il LWJ, se il movimento jihadista presente in Mozambico sia composto da cellule indipendenti fedeli al califfo Abu Bakr al-Baghdadi o da gruppi che si riconoscono in Ansar al Sunnah, colloquialmente noto come al Shabaab, che è ben radicato nella vicina Tanzania ed ha accelerato le proprie attività in questa zona del continente africano. Approfondisci su The Long War Journal.

 

Annullate le presidenziali algerine. Causa mancanza di candidati validi, il Consiglio Costituzionale ha cancellato le elezioni programmate per il 4 luglio, estendendo così la transizione politica iniziata due mesi fa con le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika e, con tutta probabilità, anche il mandato del presidente ad interim Abdelkader Bensalah. In una dichiarazione affidata alla tv di Stato, il Consiglio ha spiegato di aver ricevuto solo due candidature, che però è stato costretto a invalidare, e di aver incaricato Bensalah di organizzare nel prossimo futuro un nuovo turno elettorale. Nel frattempo, il capo dell’esercito e vero detentore delle chiavi del potere in Algeria, generale Ahmed Gaid Salah, ha esortato i partiti politici ad accordarsi con i leader dei manifestanti che da mesi sono in piazza a chiedere un cambio di passo. Approfondisci su France 24.

 

Per Kushner, i palestinesi dovrebbero avere “l’autodeterminazione” ma… Nell’intervista concessa domenica scorsa alla trasmissione “Axios on HBO”, il consigliere e genero di Donald Trump, Jared Kushner, non ha voluto chiarire se il piano di pace tra Israele e palestinesi a cui sta lavorando da due anni e che è ormai in dirittura d’arrivo (la sua parte economica sarà discussa in una conferenza in Bahrein in programma alla fine del mese) contempla uno Stato palestinese. “Penso che dovrebbero avere l’autodeterminazione”, ha dichiarato Kushner, che ha preferito astenersi dal fornire “i dettagli fino a quando non usciamo con il piano”. Al giornalista che gli ha chiesto se pensi che i palestinesi siano in grado di autogovernarsi, Kushner ha risposto: “Questa è davvero una buona domanda. (…) La speranza è che, nel tempo, diventino capaci di governarsi”. Affinché la Palestina possa attrarre investimenti, ha aggiunto Kushner, i palestinesi però “hanno bisogno di avere un sistema giudiziario giusto (…) la libertà di stampa, la libertà di espressione, la tolleranza per tutte le religioni”. Quando gli è stato chiesto se fosse consapevole che i palestinesi non si fidano di lui, Kushner ha replicato: “non sono qui perché ci si fidi di me”, aggiungendo che i palestinesi dovranno giudicare il suo piano pensando se “questo li porterà o no ad avere una vita migliore”. Approfondisci su Reuters.

 


SEGNALAZIONI

“La Moldova ha a sorpresa un nuovo governo”: l’articolo di Matei Rosca su Politico.

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“La nuova rivoluzione negli affari militari. Il futuro della guerra Sci-Fi”: il saggio di Christian Brose nell’ultimo numero di Foreign Affairs.

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“Il Kurdistan iracheno sceglie un nuovo presidente, ma le divisioni si aggravano”: l’intervento di Bilal Wahab sul sito del Washington Institute

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“L’inviato Usa in Siria dice che ‘non c’è ruolo’ per l’Europa nella proposta di safe-zone”: l’articolo di Jack Detsch su Al-Monitor

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“La Russia assume un ruolo preminente nei colloqui di pace afghani”: il briefing del Soufan Group

 


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