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L’Intelligenza artificiale al lavoro contro il Coronavirus

Pubblicato il 10/02/2020 - Start Magazine

E se ci pensasse l’Intelligenza artificiale, e le tecniche di machine-learning applicate ai social media in particolare, a spiegarci dove e come si stia effettivamente propagando il Coronavirus? Le ricerche in corso

E se ci pensasse l’AI, e le tecniche di machine-learning applicate ai social media in particolare, a spiegarci dove e come si stia effettivamente propagando il Coronavirus?

Non si tratta di fantascienza, ma del lavoro che un team internazionale di ricercatori specializzati sta conducendo sin dai primi giorni dell’allarme con l’obiettivo di filtrare, dal mare magno delle informazioni che fluttuano nella rete delle reti e nella galassia social in particolare, quelle utili a tracciare e geo-localizzare l’evoluzione dell’epidemia.

La singolare quanto incoraggiante notizia la fornisce la rivista Wired, che ha intervistato uno degli esperti impegnati nel progetto.

In qualità di chief innovation officer della Harvard Medical School, John Brownstein è specializzato nell’analisi dei big data, e con i suoi colleghi sta ora mettendo a frutto il proprio expertise su un test-case delicatissimo quale la diffusione del Coronavirus.

Il software di cui l’equipe dispone sta scandagliando il web e i social cinesi alla ricerca delle menzioni di specifici sintomi – quali, ad esempio, febbre e problemi respiratori – da parte del personale sanitario o di utenti che vivono nelle aree geografiche interessate dall’emergenza.

Elaboratissimi algoritmi che riproducono il linguaggio naturale sono impiegati, in particolare, per distinguere tra i post in cui si discute semplicemente delle notizie sull’epidemia e quelli in cui sono le persone effettivamente contagiate a parlare delle proprie condizioni di salute.

Questo approccio appare assai promettente anche perché, sottolineano i ricercatori, un’azienda chiamata BlueDotused lo scorso dicembre ha messo in campo strumenti del tutto analoghi riuscendo nell’impresa di scoprire i primi focolai dell’epidemia ancor prima che le autorità cinesi ne ammettessero pubblicamente l’esistenza.

Gli analisti di BlueDotused furono in grado, in particolare, di individuare il 30 dicembre scorso nell’immenso pagliaio social cinese l’ago di un cluster di notizie su una misteriosa epidemia influenzale. Chi fece la scoperta si preoccupò poi di informare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che però – evidentemente incapace di tirare le conclusioni da quelle scoperte – fece passare altro tempo prima di decidersi a far scattare la macchina dell’emergenza.

Per quanto possa apparire una sfida monumentale che sono gli stessi ricercatori a non nascondere  – i nostri modelli, sottolinea Brownstein, “devono essere riaddestrati ogni volta” perché siano in grado di vagliare gli specifici termini usati dagli utenti social – il ricorso a queste tecniche sembra effettivamente fornire agli epidemiologi un formidabile strumento per – come spiega ancora Brownstein – “determinare dove il virus appare in superficie” e, quindi, “allocare con precisione le risorse (necessarie per) bloccarne la diffusione”.

È a ciò che si verifIcherà negli Usa con riguardo ai contagi da coronavirus – e al modo di impedirne il dilagare – che i ricercatori ora guardano come ambito di applicazione.

Interrogato a tal riguardo, Alessandro Vespignani, docente alla Northeastern University specializzato nella realizzazione di modelli di contagio in ampie popolazioni, non nasconde i propri dubbi circa la possibilità che anche gli strumenti AI più avanzati siano in grado di identificare nuovi casi di Coronavirus in America semplicemente scandagliando i social – vale a dire, un territorio virtuale dove le menzioni di sintomi di cui si è alla ricerca sono disseminate nel mezzo di un chiacchiericcio oceanico sul Coronavirus in cui c’è di tutto e di più, fake news incluse.

Ciononostante, il docente ammette che, se l’epidemia dovesse effettivamente prendere piede anche negli States, l’AI potrebbe recare gran giovamento a chi è chiamato a monitorarla, a patto però che i nuovi strumenti siano impiegati in abbinamento con le vecchie e consolidate tecniche della scienza medica. Per dirla ancora con Vespignani, la combinazione tra i due approcci “potrebbe rivelarsi portentoso”.

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