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L’ultima tappa diplomatica di Tillerson è stata l’Africa che resta però una priorità per gli Usa

Pubblicato il 13/03/2018 - Formiche

L’uscita di scena di Tillerson avviene in concomitanza con il ritorno dell’ex segretario di Stato dall’Africa. Il suo ultimo atto è dunque in puro stile Tillerson, per tredici mesi e mezzo Ceo di un’azienda – il Dipartimento di Stato – che aveva perso vertiginosamente quota, nell’impero trumpiano, dominato da altre voci e soprattutto dalla figura del suo capo, The Donald, la prima e l’ultima parola anche sulla politica estera della superpotenza.

Non ha svolto male il suo compito, Rex. Lo dimostra questo suo ultimo viaggio, dove ha potuto visitare cinque Paesi – Etiopia, Gibuti, Kenya, Ciad e Nigeria – e ribadire ovunque che la principale missione del mondo, quindi di tutti, è debellare il terrorismo insieme all’America. Una missione diplomatica americana classica, dunque, all’insegna di una delle parole d’ordine dell’agenda presidenziale, anzi no, di una della priorità che l’America si è assegnata senza discontinuità tra le amministrazioni.

Tillerson ha ringraziato Gibuti perché ospita una base americana strategica, indispensabile per controllare – e condurre di conseguenza la lotta al terrorismo transnazionale – la zona del corno d’Africa e la penisola araba. “La presenza militare degli Stati Uniti qui”, ha spiegato Tillerson, “facilita una velocissima risposta al terrorismo e all’estremismo violento che minaccia entrambi i paesi. E non di meno, minaccia la regione e la sua stabilità”. Tillerson ha avuto anche parole di apprezzamento per altri meriti di Gibuti, come il contributo alla missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) – altro Paese flagellato dal jihadismo – o il ruolo svolto nel salvaguardare flussi commerciali che interessano decine di Paesi e centinaia di milioni di persone. Elogio, dunque, per un alleato importante, attivo e affidabile.

La visita in Kenya è stata coronata da un passaggio al memoriale delle vittime dell’attentato all’ambasciata americana dell’agosto 1998, che segnò l’inizio della stagione del terrore binladenista. Un episodio che pesa, oltre che per i suoi oltre duecento morti, per aver inaugurato lo scontro diretto tra la galassia jihadista capitanata da Osama bin Laden da un lato e, dall’altro, dalla superpotenza americana insieme a tutto il mondo crociato e ai suoi alleati. Sullo sfondo di questa storia, Tillerson ha scelto parole semplici. “Come voi tutti sapete, nel 1998 i terroristi pensarono di poter demoralizzare e distruggere il popolo kenyota e americano attaccando l’ambasciata Usa qui a Nairobi. (…) Naturalmente avevano torto”. il Kenya però è tuttora piagato da sporadiche punzecchiature del terrorismo jihadista, che qui si materializza soprattutto attraverso frange degli Shabaaab, che infiltrandosi dalla vicina Somalia hanno compiuto anche attacchi in grande stile. Il sostegno degli Stati Uniti è quindi indispensabile e la presenza del Segretario di Stato ne doveva incarnare la garanzia.

Ma la stagione di Tillerson è stata, per certuni soprattutto, quella del disonorevole taglio ai fondi del Dipartimento, accettato a bocca chiusa dal suo Segretario. Uno spettro che ha perseguitato i suoi tredici mesi a Foggy Bottom e che si sono materializzati anche a Nairobi. Dove si è polemizzato per le conseguenze dei tagli sulla sicurezza dell’ambasciata. E per “ Pepfar”, un programma di lotta all’AIDS in Africa finanziato dagli Stati Uniti con 8 miliardi di dollari, di cui 1 destinato al Kenya, su cui l’amministrazione Trump intenderebbe infierire.

Lungi dall’esserne una mera periferia, l’Africa è uno dei cuori della lotta al terrorismo. Vi sono zone dove è in corso uno scontro militarizzato che coinvolge più paesi occidentali, alleati di vari paesi africani. Visitando il Ciad, Tillerson ne ha elogiato dunque la lotta nell’ambito dei cosiddetto G5 Sahel, impegnato contro i jihadisti che scorrazzano nella regione del Sahara. “Il Ciad”, ha detto il segretario di Stato, “è un partner importante” nella lotta al terrorismo, e lo dimostra collaborando attivamente con gli Stati Uniti. L’America ha una fondamentale base di droni all’aeroporto di N’Djamena, e addestra le truppe del Ciad fornendogli equipaggiamento militare. Anche qui, però, Tillerson è stato posto di fronte ad una delle contraddizioni di questa amministrazione, che l’anno scorso aveva inserito il Ciad nel famigerato travel ban trumpiano, la lista dei paesi a rischio terrorismo i cui cittadini non possono avere accesso al territorio americano. Conscio di questo problema, da brava Feluca numero 1 dell’America, Tillerson ha voluto “assicurarsi che il popolo del Ciad sappia che è benvenuto negli Stati Uniti”, precisando che l’aggiunta del paese nella lista “non ha mai messo a repentaglio in alcun modo la cooperazione tra i due paesi”.

Nella sua ultima tappa in Nigeria, Tillerson – con l’aereo pronto per riportarlo in patria – ha promesso il fattivo sostegno degli Stati Uniti, in termini di intelligence ed equipaggiamento, per un’emergenza. Si tratta di localizzare e salvare le 110 ragazze rapite a scuola il mese scorso da Boko Haram. Un remake del famoso sequestro delle 250 studentesse di Chibok avvenuto nel 2014, che causò una commozione e mobilitazione globale (con Michelle Obama che fece circolare la sua foto con il cartello #BringBackOurGirls). Conscio del precedente, il Segretario di Stato ha detto che l’episodio “gli spezza il cuore”, e ha precisato che “la Nigeria ha il pieno appoggio degli Stati Uniti”, aggiungendo che “stiamo attivamente lavorando con i nostri partner per fare il possibile per assistervi in questa lotta”. Siamo con voi, insomma.

L’unico Paese in cui il terrorismo non ha fatto capolino nei discorsi è stata l’Etiopia. Paese dove è in atto una profonda crisi politica e sociale, e dove recentemente è stato introdotto lo stato di emergenza. Senza battere ciglio, Tillerson ha sfornato parole in cui si può riconoscere il distillato del diplomatico americano: “Condividiamo e riconosciamo la preoccupazione sugli episodi di violenza”, ha detto, ma “crediamo fermamente che la risposta sia ancor più libertà. Mentre apprezziamo la responsabilità del governo nel mantenere il controllo (…) è importante che cessi lo stato di emergenza il prima possibile”.

Il viaggio di Tillerson nella vita pubblica americana termina, per ora, così. ​L’attenzione verso l’Africa ​continua.

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