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Migranti, inutili polveroni che non aiutano a capire la realtà

Pubblicato il 11/08/2018 - GNN

È un’Italia senza requie, quella che si contorce per la nuova polemica sull’immigrazione. Che coinvolge, stavolta, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Intervenendo alla commemorazione dell’incidente del 1956 di Marcinelle, nel quale perirono 136 minatori italiani, il capo della Farnesina ha definito il triste episodio “una tragedia dell’immigrazione”. “Siamo stati una nazione di emigranti, siamo andati stranieri nel mondo cercando lavoro”, ha sottolineato Moavero, aggiungendo che dovremmo rammentarlo “quando vediamo arrivare in Europa i migranti della nostra travagliata epoca”. Le agenzie di stampa non hanno fatto in tempo a diffondere le parole del ministro che già si arroventava il dibattito. “Il richiamo di Moavero o è inutile o è fuorviante rispetto alla necessaria azione per impedire una invasione di clandestini che con gli emigranti italiani non c’entra nulla. Il ministro degli Esteri eviti paragoni impropri e offensivi”, ha affermato il capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida. “Paragonare gli italiani che sono emigrati nel mondo, a cui nessuno regalava niente né pagava pranzi e cene in albergo, ai clandestini che arrivano oggi in Italia è poco rispettoso della verità, della storia e del buon senso”, hanno tuonato i capigruppo del Carroccio alla Camera e al Senato, Molinari e Romeo. Non si è fatto attendere inoltre il commento tranchant del vicepremier Luigi Di Maio, secondo cui la vicenda di Marcinelle “fa riflettere sul fatto che non dobbiamo emigrare dall’Italia”. Eppure, le dichiarazioni di Moavero giungono a pochi giorni dagli incidenti stradali accaduti in Puglia, nel quale sono periti sedici braccianti extracomunitari. Anche queste sono, a tutti gli effetti, “tragedie dell’immigrazione”. Certo, il fenomeno migratorio nel 2018 è differente sotto diversi aspetti da quello degli anni del dopoguerra. A quel tempo, l’immigrazione era mossa dalle politiche di reclutamento attivate degli Stati, affamati di manodopera da impiegare nello sforzo della ricostruzione post-bellica. Oggi ci misuriamo invece con flussi generati da quelli che gli esperti definiscono fattori di “spinta” e “attrazione”: i migranti fuoriescono da Paesi sottosviluppati o in preda a conflitti e tensioni sociali e politiche e approdano nelle terre baciate dalla pace e dal benessere di cui hanno sentito parlare nelle piazze, sui teleschermi o nei social. Sessant’anni fa, inoltre, le migrazioni non avevano scala globale come oggi. Ad alimentare il mercato del lavoro europeo, allora, erano i cittadini delle nazioni meno prospere del Sud del Vecchio Continente: Italia, Portogallo, Grecia, Turchia. Nel terzo millennio, la demografia dei nostri Paesi è segnata dall’arrivo di soggetti di tutti i continenti, etnie e culture. Fatte salve queste differenze, la logica sottostante al fenomeno migratorio rimane immutata. Gli uomini si sono sempre spostati, da soli o collettivamente, in cerca di opportunità. Nella realtà in cui approdavano, gli stranieri hanno sempre svolto lavori richiesti ma non soddisfatti dalle comunità locali. Come i minatori di Marcinelle, gli odierni migranti occupano nicchie del mercato del lavoro non presidiate dalla forza lavoro autoctona. Sostenere, come fa Di Maio, che non si dovrebbe emigrare cozza con consolidati meccanismi economici, che spingono varie figure professionali a cercare impiego laddove hanno maggiori chance di essere valorizzate. Se solo il dibattito pubblico sull’immigrazione nel nostro Paese non fosse così degradato, potremmo commemorare i fatti di Marcinelle senza suscitare polveroni inutili. Che non aiutano a capire una realtà complessa, e insita nella natura dell’uomo, come le migrazioni.

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