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Petrolio e gas: fatti e scenari tra Usa, Russia e non solo

Pubblicato il 18/05/2020 - Energia Oltre

Le implicazioni geopolitiche delle partite energetiche nel Taccuino estero a cura di Marco Orioles

TUTTE LE CONSEGUENZE SUL PETROLIO DELL’ACCORDO OPEC PLUS PLUS: RAPPORTO CENTRO EUROPA RICERCHE

Siglato lo scorso 12 aprile ed entrato in vigore il successivo 1 maggio, l’accordo cosiddetto “OPEC plus plus” ha già dispiegato i suoi effetti in termini di tagli concordati alla produzione globale di petrolio, e una pubblicazione fresca di stampa – la seconda edizione del rapporto “Geopolitica dell’Energia” curato dal Centro Europa Ricerche – ci consente di cogliere linee di tendenza e problemi all’orizzonte.

In base ai termini dell’intesa, ricorda il rapporto, i membri del cartello OPEC plus hanno concordato di ridurre l’output sino al 30 giugno 2020 di circa il 9,7% rispetto ai livello pre crisi. L’obiettivo, nella fattispecie, era togliere dal mercato quasi dieci milioni di b/g rispetto ad una produzione globale che nel gennaio 2020 lievitava intorno ai 45 milioni di b/g.

Oltre ai colossi russo e saudita, che risultano aver già tagliato le rispettive produzioni di due milioni di b/g portandole a 8.750.000 b/g, all’accordo hanno aderito anche alcuni produttori esterni al cartello come Norvegia, Canada, Brasile e soprattutto USA, a cui è stato chiesto di effettuare un taglio di almeno 5 milioni di b/g.

Per volontà del presidente Donald Trump, che molto si è adoperato perché l’accordo si concretizzasse, gli Usa si sono fatti carico di una parte consistente di questo taglio pari a ben due milioni di b/g (anche se, ha precisato il capo della Casa Bianca, “in base ai prezzi”).

Ebbene, stando ai calcoli di S&P Global Platts Analytics, il taglio complessivo operato di paesi esterni alla cerchia dell’OPEC plus ha già raggiunto i 4.100.000 b/g. Di questi, la parte del leone spetta come previsto agli Usa, il cui output secondo l’Energy Information Administration, aveva toccato la settimana terminata l’8 maggio scorso 11.600.000 b/g, con un calo di ben 1.500.000 b/g rispetto ai livelli record di produzione (13.100.000 b/g) raggiunti il 13 marzo di quest’anno.

Le statistiche divulgate da Baker Hughes offrono un indicatore eloquente dell’attuale situazione del settore energetico in America: all’8 maggio 2020 risultavano essere attive in tutto il territorio Usa 374 trivelle, di cui 292 petrolifere, 80 gasiere e 2 miste, con un calo complessivo di ben 228 rispetto a quelle rilevate appena un mese prima. Come evidenzia il rapporto, da quando Baker Hughes fornisce statistiche sulle perforazioni, cioè dal 1940, che il numero di trivelle attive in America non è mai stato così basso.

Negli States, come conseguenza, dominano ansia ed incertezze. E a nulla è valsa la battaglia del commissario alle Ferrovie texane, Ryan Sitton, per superare i vincoli delle leggi antitrust e far aderire i produttori del Texas all’accordo OPEC plus plus al fine di limitare intenzionalmente la produzione. L’appoggio che Sitton ha ottenuto da numerosi operatori di piccole e medie dimensioni come Parsley Energy e Pioneer Natural Resources nulla ha potuto di fronte alla strenua opposizione del potente American Petroleum Institute (API), specialmente perché spalleggiata da majors quali ExxonMobil, ConocoPhillips e Chevron.

All’orizzonte, pertanto, Sitton vede accumularsi nubi nere e compatte.  “Quando la domanda tornerà a 90-95 milioni di barili al giorno”, ha dichiarato il commissario a Bloomberg,  “il paese con la maggior perdita di produzione di petrolio saranno assolutamente gli Stati Uniti”.

La cupa profezia di Sitton secondo cui gli Usa saranno i “grandi perdenti nel settore petrolifero globale” deve ora fare i conti con la contromossa trumpiana volta a consentire alle societò dell’Oil & Gas di accedere al pacchetto di aiuti varato dal Congresso la cui liquidità è gestita dalla Fed.

A parte tuttavia alcuni punti ancora oscuri – “non è ancora chiaro”, scrive a tal proposito il rapporto, “se un eventuale finanziamento della Fed comporti lo scambio di quote azionarie con diritto di voto al fine di bloccare la produzione” – non tutti negli Usa ritengono che l’intervento della Fed possa rivelarsi, se non utile, decisivo sulle sorti di un’industria già condannata da altri fattori in gioco.

Sono in molti infatti a pensarla come Mike Cantrell, Ceo di Oklahoma Energy Producers Alliance e Postwood Energy, per il quale “quest’anno la metà di quelle aziende sarebbe [comunque] fallita” anche senza l’intervento devastante del fattore Covid-19, dal momento che il loro vero problema è il modello di business.

È un problema che ha spinto Tom Sanzillo, direttore finanziario dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis, ad affermare che nemmeno se tutti i miliardi di dollari a disposizione della Fed fossero riversati nel comparto Oil & Gas si riuscirebbe a scioglierne il problema di solvibilità a lungo termine.

Chi è destinato a pagare il prezzo più alto sono i frackers, che non dispongono – per ragioni squisitamente geologiche – dell’opzione di chiudere i pozzi. È una strada impraticabile per il motivo illustrato da David Messler: una volta chiuso un pozzo, potrebbe risultare definitivamente compromessa la possibilità di rimetterlo in moto o, se non altro, di farlo tornare ai livelli produttivi precedenti.

Così, quando Messler stima che “(l)’effetto netto sarà probabilmente meno petrolio e gas rispetto a prima”, non fa altro che confermare le previsioni di Standard Chartered, secondo la quale entro la fine dell’anno il tight oil Usa crollerà di 2.740.000 b/g.

 


La Russia si accinge a scaricare Haftar?

La domanda che ci poniamo nel titolo di questo articolo non è un’illazione, ma la deduzione che al Monitor ha tratto analizzando due recenti sviluppi politici in Libia che vedono coinvolto, direttamente o indirettamente, il capo dell’Esercito Nazionale Libico.

L’analisi del quotidiano in lingua inglese fondato nel 2012 da Jamal Daniel e specializzato in analisi e commenti sula situazione dei Paesi del Grande Medio Oriente parte dalla sconcertante dichiarazione fatta da Haftar lo scorso 27 aprile nella quale, sostenendo che il suo esercito aveva appena “accettato la volontà del popolo e il suo mandato”, assumeva di fatto  il controllo politico oltre che militare della Cirenaica e, questo almeno era l’auspicio, dell’intero Paese.

Più che un atto proditorio da parte di un uomo noto per i metodi spicci, quello di Haftar pare tuttavia configurarsi, secondo la lettura fattane da al Monitor, come la furiosa reazione al tentativo del capo del parlamento di Tobruk Aguila Saleh Issa di togliere al Maresciallo il bastone del comando e rimetterlo nelle mani dell’assemblea e, in generale, della classe politica.

La manovra di Saleh avrebbe tuttavia fatto meno scalpore se non ci fossero state le impronte digitali di Mosca, i cui  consiglieri avrebbero partecipato alla stesura della bozza di accordo con il Governo di Accordo Nazionale che Saleh punta ora a discutere con la controparte tripolina.

L’esistenza di un piano russo, e soprattutto la regia che Mosca punta a svolgere sull’intera trattativa, è stata svelata dallo stesso Saleh durante un incontro con le tribù dell’est tenutosi lo stesso giorno della dichiarazione incendiaria di Haftar.

Meeting durante il quale Saleh avrebbe illustrato le ragioni che lo hanno convinto a sposare la linea (russa) della pace: ragioni riconducibili, secondo il punto di vista di Saleh ricostruito da al Monitor, all’insoddisfazione di Mosca per l’insuccesso dell’offensiva lanciata ormai un anno fa dal Maresciallo per espugnare Tripoli. Una manovra che la Russia, dopo aver abbondantemente assecondato e sostenuto, ha deciso di archiviare insieme al sogno di un fulmineo colpo di mano volto  a deporre Sarraj e tutti i suoi sostenitori.

Da nemico giurato, Sarraj dunque torna ad essere l’interlocutore di un negoziato in cui però Mosca non vorrebbe più Haftar tra i piedi. Se hanno ragione le fonti di al Monitor, al Cremlino hanno deciso di cambiare, oltre che la strategia, anche il cavallo.

I cavalli in questione, naturalmente, sarebbero lo stesso Saleh oppure, secondo l’altra ipotesi fatta da al Monitor, il capo del governo transitorio di Tobruk, Abdullah al-Thani.

Che il vento a Mosca sia cambiato lo hanno confermato le dichiarazioni che il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha rilasciato poche ore dopo l’annuncio golpista di Haftar. Un annuncio che ha spinto Lavrov a decidere di “rifiutar(si) di parlare (ancora) con Haftar”.

Nella stessa conferenza stampa, Lavrov ha poi chiarito su chi riponga adesso la propria fiducia il governo russo: su Saleh e la sua proposta di un dialogo nazionale che, ha spiegato il ministro, “mira alla formazione di organi di governo comune che rappresentino equamente e alla pari le tre regioni chiave della Libia”.

Al di là dell’insoddisfazione per il fallimento di Haftar e della frustrazione per averlo sostenuto invano – tra le critiche del mondo – per quasi un anno, la svolta di Mosca cela una ragione materiale che traspare dalle critiche rivolte ad Haftar da un rappresentante del settore energetico.

“Quali ripercussioni può avere il gesto disperato di Haftar sui mercati energetici? Che un milione di barili di petrolio libico non torneranno sul mercato in un tempo prevedibile – e che la joint venture con Gazprom non riprenderà le proprie attività nella parte orientale del paese. (…) Sfortunatamente – è la conclusione dell’intervistato – ora è Haftar che si frappone al lancio di un dialogo costruttivo e alla ripresa”.

Non è dunque per un calcolo impulsivo o per una improvvisa conversione al verbo della pace che Mosca ha deciso, se al Monitor ci ha visto giusto, di abbandonare Haftar al suo destino e puntare sulla ripresa del dialogo tra Tripolitania e Cirenaica. Fallita la strada delle armi, non resta che percorrere quella del negoziato pur di far funzionare di nuovo a pieno regime l’industria libica a cui Mosca (e non solo) tiene di più.


LUCE IN FONDO AL TUNNEL? COSA VEDONO GLI ANALISTI ALL’ORIZZONTE DELL’ATTUALE CRISI DELL’OIL & GAS

Dopo il tonfo del mese scorso, il prezzo del petrolio sta tornando a salire insieme ad una domanda che dà timidi segni di ripresa.

È quanto segnala Axios, ricordando che il prezzo del Brent si è stabilizzato sui 32 dollari (dopo essere precipitato il mese scorso a quota 20), mentre quello del WTI è raddoppiato in due settimane raggiungendo i 28,62 dollari.

In una nota stilata a commento di questi dati, Barclays osserva che “le forze del mercato hanno spinto i produttori di tutto il mondo ad allinearsi sui fondamentali”, con il risultato che la “domanda sta gradualmente crescendo”.

La tempesta, naturalmente, è tutto fuorché finita, rimarca Barclays sottolineando che “i prezzi rimarranno molto probabilmente sotto pressione nel breve periodo, specialmente alla luce delle significative incertezze che accompagneranno la ripresa dell’economia globale”.

Gli spiragli di ottimismo convivono insomma con la consapevolezza che il tempo dei prezzi record al negativo continueranno per un tempo indefinito, che il cammino della ripresa sarà lungo e faticoso, e che su quest’ultima inoltre grava un’incognita grossa come una casa: la possibilità niente affatto remota di un ritorno di fiamma del virus e di nuovi provvedimenti draconiani del governo volti ad arginarlo.

Così sintetizzava la situazione in una nota l’analista di Rystad Energy Bjørnar Tonhaugen: “Crediamo che gli stock si ridurranno gradualmente nei prossimi dodici mesi circa. Ma questa scommessa dipende dalla possibilità di evitare una seconda ondata del coronavirus”.

È un’analisi che trova concorde un altro analista come Vandana Hari di Vanda Insights, che a Bloomberg ha confidato la propria convinzione che “il sentiment del mercato dalla fine di aprile è diventato cautamente costruttivo, e mi aspetto che rimanga tale a meno che non ci siano (nuovi sviluppi negativi) nei tassi di infezione”.

Nel mentre gli operatori incrociano le dita e ripongono le proprie speranze in un rilancio economico che riporti ossigeno ad un settore praticamente in ginocchio, c’è chi negli Usa ha fatto il conto che l’economia Usa si troverà costretta a pagare a causa della crisi delle compagnie energetiche.

Sono stati gli economisti della Fed di Dallas a evidenziare, in un’analisi pubblicata qualche giorno fa, che se l’economia Usa tende a sperimentare un boom quando il comparto energetico va a gonfie vele – è andata esattamente così nello scorso decennio – è purtroppo vero anche il contrario.

“Il declino delle spese in conto capitale delle industrie dell’Oil & Gas rappresenterà un grosso freno per gli investimenti fissi negli Usa nel secondo quadrimestre del 2020”.

“Stimiamo” – è la conclusione dello studio – che il solo calo degli investimenti nel settore energetico porterà ad un calo di 6,1 punti percentuali negli investimenti fissi nel secondo quadrimestre”.

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