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Tutte le ricadute energetiche del Coronavirus

Pubblicato il 10/02/2020 - Energia Oltre

Le implicazioni energetiche (e non solo) del Coronavirus. Il Taccuino estero a cura di Marco Orioles

TUTTE LE RICADUTE ENERGETICHE DEL CORONAVIRUS

Mentre nel mondo procede frenetica la conta dei nuovi contagi, dei decessi e – finalmente – anche delle guarigioni da Coronavirus, qualcuno si sta prendendo la briga di fare anche altre misurazioni: quelle relative al riverbero che il morbo cinese sta avendo, e continuerà ad avere per chissà quanto ancora, su una dimensione di enorme rilevanza economica qual è l’energia.

A mettere ordine su una sfilza di dati e previsioni stilate in queste settimane da varie istituzioni e osservatori indipendenti su ciò che sta accadendo a petrolio, gas e altre fonti di energia ci ha pensato ieri Axios. Che ai lettori della sua newsletter ha fornito un approfondimento dal titolo emblematico: “Il Coronavirus infetta tutto”.

Un titolo ad effetto, senz’altro, ma che i dati raccolti e illustrati dal sito di informazione fondato nel 2017 da Jim VandeHei, Mike Allen e Roy Schwartz rendono quanto mai veritiero.

Si prenda, ad esempio, il prezzo del petrolio, crollato ai livelli minimi da un anno a questa parte a causa sostanzialmente di due fattori: lo stop ai voli da, per e dentro la Cina da un lato e, dall’altro, la riduzione – che, in certi casi, è arrivata alla cessazione vera e propria – delle attività produttive in quella che siamo soliti chiamare la fabbrica del mondo.

Il Coronavirus, in altre parole, sta dimostrando cosa possa succedere all’energia quando entra in crisi un Paese che, oltre ad essere il principale importatore al mondo di gas e petrolio, detiene il più vasto parco macchine del pianeta e un numero colossale di travellers.

Le vicissitudini del prezzo del petrolio sono state ben colte da una recente nota di S&P Global Platts, dove si rimarca come il “Brent galleggerà probabilmente su quota 55 dollari al barile fino a quando persisterà l’incertezza sul coronavirus”.

Veleggiamo dunque verso una stagione, non sappiamo quanto lunga, di prezzi ribassati che, se farà contenti alcuni paesi energivori e privi di risorse proprie, sta già procurando dei mal di pancia in seno ai paesi produttori ed esportatori.

A tal proposito, Axios ricorda che questa è una gatta da pelare non solo per il famoso club esclusivo chiamato OPEC, ma anche per quella sua partenogenesi che, a seguito dell’alleanza con un altro produttore d’eccellenza come la Russia, ha assunto il nome di OPEC+.

OPEC+ che sta avendo non poche difficoltà a sviluppare un consenso sulle misure da prendere – leggi: tagli alla produzione – per arginare le conseguenze della nuova emergenza. Gli incontri che i membri del cartello hanno avuto questa settimana hanno infatti partorito, ricorda Axios, una mera intesa di principio che vede peraltro Mosca tutt’altro che convinta.

E non c’è solo l’oro nero di mezzo, visto che il travaglio da coronavirus sta interessando anche il mercato del gas naturale liquefatto. Un mercato che già pativa prezzi ridotto legati ad un eccesso di offerta e ora, come ha notato il Wall Street Journal, è ulteriormente minacciato da consumi cinesi scesi a picco a causa della chiusura di innumerevoli fabbriche del Dragone – che sono per l’appunto, viene sottolineato, quelle che consumano il grosso del LNG importato .

Che le prospettive per il mercato globale del LNG siano fosche – e che tutto ciò abbia molto a che fare con l’emergenza in corso nell’ex impero di mezzo – lo dimostra anche la decisione presa questa settimana dal colosso energetico cinese CNOOC di non onorare una serie di contratti di fornitura già firmati.

Le spiacevoli conseguenze del Coronavirus non sono peraltro finite qui. Nel conto Axios aggiunge altri due aspetti niente affatto marginali: la chiusura temporanea dello stabilimento cinese di Tesla, che – oltre ad aver causato un brusco ribasso (-17%) della quotazione in Borsa dell’azienda fondata da Elon Musk – comporterà notevoli ritardi nella consegna dei veicoli; e il blocco della produzione negli stabilimenti che realizzano impianti ad energia solare – decisione che assume particolare gravità visto che interessa il maggior produttore al mondo del settore.

Se questa breve rassegna sulle conseguenze del Coronavirus può lasciare l’amaro in bocca a più di qualcuno, c’è chi – invece – starà paradossalmente tirando un sospiro di sollievo. Greta Thunberg e i suoi numerosi seguaci possono infatti consolarsi con quello che scrive Bloomberg a proposito della silver lining di questa paurosa emergenza sanitaria globale: “il più grande inquinatore al mondo, per il momento, sta bruciando meno carbone”.

E se Bloomberg non si sbilancia sulla riduzione delle emissioni di CO2 che deriverà dalla sommatoria di questo sviluppo e di tutti gli altri, c’è chi – come S&P Global Platts – si è già fatta due conti.

Se alla fine della fiera, scrivono gli analisti, ci troveremo probabilmente a registrare in Cina “un calo dell’1% delle emissioni annuali di CO2 derivanti da consumo di energia (fossile)”, ciò significherebbe che al nostro pianeta malaticcio sarebbe risparmiato qualcosa come “l’equivalente delle emissioni annuali di CO2 della Francia”.

 

CORONAVIRUS: E SE L’AI CI METTESSE UNA PEZZA?

E se ci pensasse l’AI, e le tecniche di machine-learning applicate ai social media in particolare, a spiegarci dove e come si stia effettivamente propagando il Coronavirus?

Non si tratta di fantascienza, ma del lavoro che un team internazionale di ricercatori specializzati  sta conducendo sin dai primi giorni dell’allarme con l’obiettivo di filtrare, dal mare magno delle informazioni che fluttuano nella rete delle reti e nella galassia social in particolare, quelle utili a tracciare e geo-localizzare l’evoluzione dell’epidemia.

La singolare quanto incoraggiante notizia ce la fornisce la rivista Wired, che ha intervistato uno degli esperti impegnati nel progetto.

In qualità di chief innovation officer della Harvard Medical School, John Brownstein è specializzato nell’analisi dei big data, e con i suoi colleghi sta ora mettendo a frutto il proprio expertise su un test-case delicatissimo quale la diffusione del Coronavirus.

Il software di cui l’equipe dispone sta scandagliando il web e i social cinesi alla ricerca delle menzioni di specifici sintomi – quali, ad esempio, febbre e problemi respiratori – da parte del personale sanitario o di utenti che vivono nelle aree geografiche interessate dall’emergenza.

Elaboratissimi algoritmi che riproducono il linguaggio naturale sono impiegati, in particolare, per distinguere tra i post in cui si discute semplicemente delle notizie sull’epidemia e quelli in cui sono le persone effettivamente contagiate a parlare delle proprie condizioni di salute.

Questo approccio appare assai promettente anche perché, sottolineano i ricercatori, un’azienda chiamata BlueDotused lo scorso dicembre ha messo in campo strumenti del tutto analoghi riuscendo nell’impresa di scoprire i primi focolai dell’epidemia ancor prima che le autorità cinesi ne ammettessero pubblicamente l’esistenza.

Gli analisti di BlueDotused furono in grado, in particolare, di individuare il 30 dicembre scorso nell’immenso pagliaio social cinese l’ago di un cluster di notizie su una misteriosa epidemia influenzale. Chi fece la scoperta si preoccupò poi di informare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che però – evidentemente incapace di tirare le conclusioni da quelle scoperte – fece passare altro tempo prima di decidersi a far scattare la macchina dell’emergenza.

Per quanto possa apparire una sfida monumentale che sono gli stessi ricercatori a non nascondere  – i nostri modelli, sottolinea Brownstein, “devono essere riaddestrati ogni volta” perché siano in grado di vagliare gli specifici termini usati dagli utenti social – il ricorso a queste tecniche sembra effettivamente fornire agli epidemiologi un formidabile strumento per – come spiega ancora Brownstein – “determinare dove il virus appare in superficie” e, quindi, “allocare con precisione le risorse (necessarie per) bloccarne la diffusione”.

È a ciò che si verifIcherà negli Usa con riguardo ai contagi da coronavirus – e al modo di impedirne il dilagare – che i ricercatori ora guardano come ambito di applicazione.

Interrogato a tal riguardo, Alessandro Vespignani, docente alla Northeastern University specializzato nella realizzazione di modelli di contagio in ampie popolazioni, non nasconde i propri dubbi circa la possibilità che anche gli strumenti AI più avanzati siano in grado di identificare nuovi casi di Coronavirus in America semplicemente scandagliando i social – vale a dire, un territorio virtuale dove le menzioni di sintomi di cui si è alla ricerca sono disseminate nel mezzo di un chiacchiericcio oceanico sul coronavirus in cui c’è di tutto e di più, fake news incluse.

Ciononostante, il docente ammette che, se l’epidemia dovesse effettivamente prendere piede anche negli States, l’AI potrebbe recare gran giovamento a chi è chiamato a monitorarla, a patto però che i nuovi strumenti siano impiegati in abbinamento con le vecchie e consolidate tecniche della scienza medica. Per dirla ancora con Vespignani, la combinazione tra i due approcci “potrebbe rivelarsi portentoso”.

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