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Vi racconto che cosa (non) è successo al vertice di Hanoi fra Trump e Kim

Pubblicato il 02/03/2019 - Start Magazine

“Saranno gli storici a dirci se il vertice di Hanoi sia stato solo uno spettacolo globale senza finale pirotecnico o se, invece, sarà ricordato come una pietra miliare nel lungo cammino a ostacoli verso la denuclearizzazione della penisola coreana”. L’approfondimento di Marco Orioles

 

Sfuma, dinanzi alla caparbietà di Kim “l’atomico”, il sogno di fare di Hanoi la città della pace. Il secondo summit nucleare tra il leader della Corea del Nord e il suo “innamorato” Donald Trump si arena di fronte al tentativo dell’ultimo esponente della dinastia di semi-divinità al potere a Pyongyang dal secondo dopoguerra di ottenere dal suo interlocutore tutta la posta in palio – la fine delle sanzioni – senza cedere in cambio nulla più che lo smantellamento di una centrale nucleare.

Troppo poco, per The Donald. Che sceglie di abbandonare in anticipo l’hotel Metropole, cancellando la cena con Kim e la cerimonia conclusiva dedicata alla sigla di un accordo che slitta, a questo punto, a data da destinarsi. Le aspettative della vigilia di un passo decisivo in direzione della denuclearizzazione della penisola coreana – promessa solenne del vertice del giugno scorso a Singapore – e della definitiva archiviazione della guerra di Corea, tecnicamente ancora in atto perché Washington e Pyongayng mai hanno firmato un trattato di pace, sono consegnate, per il momento, alla storia di una relazione che The Donald e Kim hanno se non altro il merito di aver scongelato e rimesso sui binari di un dialogo possibile.

Si chiude così senza un risultato concreto, la due giorni di Hanoi, a dispetto del clima cordiale in cui è circonfuso il negoziato più complicato del pianeta. Nella capitale del Vietnam sono accorsi 2.600 giornalisti da tutto il mondo per seguire il secondo faccia a faccia tra l’uomo più potente del mondo e il capo di un regime che, nel 2017, sfidò l’allora neo-presidente Usa con una sequenza mozzafiato di test balistici e nucleari che mise in allarme il mondo e gettò nello sconforto Corea del Sud e Giappone, messi nel mirino dei missili a lungo raggio di Kim.

Da quell’incubo di una guerra imminente combattuta con la potenza devastante dell’atomo ci si risvegliò all’alba del 2018, quando il Maresciallo decise di tendere un ramoscello d’ulivo al presidente della Corea del Sud, Moon Jae-In, che da allora ha visto per ben tre volte, e fece capire a Washington di essere disponibile ad una trattativa. La moratoria unilaterale dei test missilistici e nucleari che ne seguì fu il segnale che l’amministrazione Trump si aspettava, il gancio per l’avvio di un negoziato che ebbe il suo momento clou nel summit del 12 giugno a Singapore. E fu subito storia: per la prima volta, un presidente americano in carica e il suo collega della Corea del Nord decidevano di incontrarsi e parlarsi, a tu per tu, col solo filtro degli interpreti. Nasceva, così, una storia d’amore, più volte decantata dall’istrionico The Donald che oggi mostra con orgoglio, agli ospiti ricevuti alla Casa Bianca, le lunghe lettere che il partner gli invia dal regno eremita.

Se il vertice di Singapore merita un posto negli annali di diplomazia, è perché ha dato la stura ad una special relationship tra i due leader capace di sostituirsi tutto ad un tratto all’inquietante scambio di minacce ed epiteti che dominò la scena per tutto il 2017. Passato era ormai il tempo del Trump “vecchio rimbambito”, di Kim “piccolo uomo razzo” e del “fuoco e furia” che avrebbe avvolto l’indomita Corea del Nord. Al posto di questo cupo dramma internazionale si accendeva la fiammella di un dialogo che condusse presto al vertice di Singapore, alle prime, calorose strette di mano tra i due ex nemici nonché alla sigla di una dichiarazione congiunta. Un breve testo firmato a favore di telecamere che promise di rivoluzionare le relazioni bilaterali e impegnava i due Paesi a lavorare congiuntamente verso la “denuclearizzazione della penisola coreana”.

Ma alle speranze introdotte da quei passi coraggiosi si sostituì presto l’amara realtà di un difficile e tortuoso processo negoziale incapace di materializzare i risultati attesi. L’armonia raggiunta dai due presidenti non ha trovato corrispondenza nel lavoro dei sottoposti chiamati a tradurre in pratica gli impegni presi a Singapore. La Corea del Nord confermava, al contrario, la sua reputazione di osso duro e di interlocutore recalcitrante. Incaricato di portare avanti la missione avviata dal suo boss, il Segretario di Stato Mike Pompeo si sentì dare del “gangster” per la sua richiesta insistente di vedere le carte e avere un elenco delle installazioni nucleari e missilistiche del Nord. L’impossibilità di far ingranare la marcia al negoziato si palesò clamorosamente l’autunno scorso, quando Trump cancellò all’improvviso la missione di Pompeo a Pyongyang. La spinta propulsiva di Singapore sembrava esaurita.

Fu presto chiaro, insomma, come il fluidificante della relazione intima tra Trump e Kim fosse un ingrediente necessario di un auspicabile percorso di pacificazione. E come solo su questa intesa, e per mezzo di essa, fosse possibile edificare il castello della denuclearizzazione. Dinanzi all’inconcludenza di un negoziato che le seconde file non riuscivano a far decollare, si stagliava la sola alternativa possibile: un secondo summit in cui loro, e solo loro, Kim e Trump, avrebbero potuto fare passi in avanti. Nasce in questo contesto l’incontro di mercoledì e giovedì ad Hanoi.

I lavori, nella capitale del Vietnam, cominciano all’insegna dell’ottimismo e del buon umore. Iniziano con un “grande incontro” e una “grande cena” all’hotel Metropole, subito rilanciati dall’account Twitter del presidente Usa con un breve video celebrativo realizzato in tempo reale.

Prima di sedersi a tavola, Kim e Trump hanno un faccia a faccia di venti minuti prontamente reclamizzato via Twitter della Casa Bianca.

Ma il clou del summit è la mattina successiva, quando sono previsti, sempre al Metropole, un nuovo tête-à-tête tra i due leader ed un incontro allargato al resto delle due delegazioni. Oltre a Pompeo, per gli Usa ci sono il chief of staff Mick Mulvaney, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton e l’inviato speciale del presidente per la Corea del Nord, Steven Biegun.

Dopo il faccia a faccia, Kim e Trump  si concedono una passeggiata romantica nei pressi della piscina dell’hotel.  Un momento che possiamo rivivere grazie al tweet di David Nakamura, corrispondente dalla Casa Bianca del Washington Post, che ha seguito il presidente ad Hanoi e ha raccontato gli eventi e i retroscena del summit sul social dei 28o caratteri.

È in questo frangente che si consuma un piccolo miracolo, documentato da questi video:

Succede che Kim, mentre si trova al suo fianco il solo presidente Usa e, poi, quando è seduto a tavola con il resto delle delegazioni, risponde alle domande dei reporter. È la prima volta in assoluto, ed è una novità di grande rilievo da parte di un uomo che, fino all’anno scorso, non era nemmeno mai uscito dal suo Paese nella sua qualità di capo di Stato e che non è uso tenere conferenze stampa. Una svolta quanto mai significativa che matura alla presenza di un gongolante Trump.

Kim rompe il ghiaccio quando Nakamura – che poco dopo consegnerà a Twitter questo momento storico – gli chiede se intraveda un accordo all’orizzonte di questo summit.

Nakamura è il primo a sorprendersi della disponibilità del dittatore. Che gli risponde: “è troppo presto per dirlo, ma non direi di essere pessimista. Da ciò che sento in questo momento, ho la sensazione che ne usciranno buoni risultati”.

È l’inizio di un breve siparietto che conosce altri gustosissimi colpi di scena. Ringalluzziti, i reporter azzardano ulteriori domande, accontentati da Kim. Intende davvero denuclearizzare? “Se non lo volessi, non sarei qui in questo momento”. “Questa è la miglior risposta che avete mai sentito”, interviene, divertito, Donald Trump.  Intende fare passi concreti verso la denuclearizzazione? “È ciò di cui discuteremo proprio adesso”, risponde il Maresciallo.

Consci che uno dei temi in discussione sarà l’apertura di uffici di rappresentanza nei rispettivi paesi, i giornalisti ne chiedono conto a Kim. Il quale, inizialmente, rigetta la domanda, facendo capire che si tratta di argomento delicato. Trump però coglie la palla al balzo dicendo, “Mi piacerebbe sentire la risposta”. Kim a questo punto si espone, confidando che una simile mossa sarebbe “benvenuta”.

Con queste premesse, il summit sembra in discesa. La chimica tra i leader funziona, l’atmosfera è quanto mai promettente. Invitati i reporter a congedarsi, le due delegazioni cominciano il confronto a porte chiuse.

Quando sono passate più di due ore e l’orologio batte le 12:45, il tonfo. La portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders annuncia un “cambio di programma”: niente cena e, soprattutto, niente cerimonia conclusiva per siglare una dichiarazione che non ci sarà più. Sempre incollato su Twitter, Nakamura cinguetta la breaking news.

Verso le 13:30, i due leader abbandonano il Metropole. Annunciata alle 16:00, la conferenza stampa conclusiva di Trump al Marriot Hotel si terrà due ore prima del previsto. La notizia intanto fa il giro del mondo e provocherà un tonfo dell’indice Kospi della borsa di Seul (-1,8%, la perdita più vistosa dall’ottobre 2018). Nakamura twitta la foto della sala ristorante del Metropole vuota, la tavola imbandita senza gli illustri ospiti.

Sarah Sanders nel frattempo diffonde un comunicato, che rimbalza prontamente sull’account del corrispondente del Post:

Il mondo, a questo punto, conosce la verità: pur “buoni e costruttivi”, gli incontri di Hanoi non hanno prodotto risultati, “nessun accordo è stato raggiunto”, secondo la formula studiata da Sanders. Non resta che attendere, a questo punto, la conferenza stampa di Trump, chiamata a fornire i perché del fallimento.

Al Marriot, in 38 minuti, Trump e Pompeo illustrano ai giornalisti i motivi del passo falso. “Ci sono delle volte in cui devi alzarti e andartene”, è la frase con cui il presidente Usa riassume quel che è successo al Metropole. Nonostante, spiega, ci fosse un accordo “pronto per essere firmato”, ha ritenuto di fare un passo indietro. “Preferisco farlo bene che farlo veloce”, dichiara. “Avevamo”, aggiunge, “alcune opzioni. In questo momento abbiamo deciso di non seguirne nessuna”.

“È’ stato per le sanzioni”, rivela Trump. “Fondamentalmente, volevano che fossero cancellate nella loro interezza, e noi non potevamo farlo”. “Erano intenzionati”, precisa, “a denuclearizzare un’ampia porzione delle aree che desideravamo, ma non potevamo rinunciare a tutte le sanzioni per quello”.

Il presidente chiarisce che Kim si è offerto di smantellare la centrale nucleare di Yongbyon, dove il regime arricchisce l’uranio e il plutonio per fabbricare le bombe. “Lo farebbe, ma voleva (che togliessimo) le sanzioni per quello (…) Ho sentito che non era giusto. (…) Dovevamo avere più di questo”. “Abbiamo chiesto loro di fare di più”, aggiunge Pompeo, ma Kim “era impreparato a fare questo”.

A un certo punto, Trump svela un particolare importante: Corea del Nord e Stati Uniti non intendono la stessa cosa per “denuclearizzazione”. Kim “ha una certa visione”, spiega il capo della Casa Bianca. “Non è esattamente la nostra visione, ma è molto più vicina di quanto lo fosse un anno fa”.

Questa, dunque, la versione degli Usa. Che attribuiscono all’intransigenza nordcoreana, all’astuzia di un regime che fa solo finta di trattare, la responsabilità del fallimento del summit. Ma i media mondiali non fanno in tempo a vergare i loro resoconti che le spiegazioni americane vengono sfidate frontalmente dalla controparte. Quando Trump è ormai in volo verso Washington e ad Hanoi l’orologio segna la mezzanotte, il ministro degli Esteri Ri Yong Ho apre una conferenza stampa – di cui ci rende conto, sempre via Twitter, il corrispondente del Wall Street Journal Jonathan Cheng – in cui contraddirà le parole del capo della Casa Bianca.

Non è vero, dichiara Ri, che abbiamo chiesto la rimozione di tutte le sanzioni, ma solo di una parte – ossia di cinque degli undici pacchetti varati in successivi round dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. “Se gli Usa”, spiega, “rimuovono parzialmente le sanzioni, gli articoli delle sanzioni che ostacolano l’economia e la sussistenza del nostro popolo, noi smantelleremo permanentemente e completamente tutto il materiale nella (centrale di) Yongbyon, incluso il plutonio e l’uranio”.

Rinunciare a Yongbyon, spiega il ministro, rappresenta per il Nord “la misura di denuclearizzazione più grande che possiamo prendere allo stadio attuale in relazione al presente livello di fiducia” tra le parti. Un gesto generoso, che si è scontrato però con la perentoria richiesta americana di maggiori concessioni. A quel punto, conclude Ri, “è diventato cristallino che gli Usa non erano pronti ad accettare la nostra proposta”.

Sono gli Usa insomma, secondo questa versione, ad aver alzato troppo l’asticella. È alle loro pretese irrealistiche, secondo Ri, che deve essere attribuito il finale negativo di questo summit. Che si chiude, insomma, all’insegna della discordia. La scommessa di Kim e Trump di trasformare la loro “love story” nel primo capitolo di una nuova relazione bilaterale e nel viatico per la risoluzione di un’annosa controversia finisce con un clamoroso flop. Saranno gli storici a dirci se il vertice di Hanoi sia stato solo uno spettacolo globale senza finale pirotecnico o se, invece, sarà ricordato come una pietra miliare nel lungo cammino a ostacoli verso la denuclearizzazione della penisola coreana.

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