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Saggi

Un manuale sulla comunicazione è chiamato a fornire una guida per orientarsi in una società che è sempre più dominata dalla tecnologia. Una società in cui la comunicazione ha, nelle sue molteplici incarnazioni, un ruolo centrale tanto nella sfera professionale quanto nella vita quotidiana. Conoscere il pianeta della comunicazione significa non solo dominare i codici della tecnologia per comunicare più efficacemente, ma anche rendersi conto che gli strumenti del comunicare sono da sempre il fulcro della vita degli uomini. Integrandosi con gli altri contributi del volume, il saggio di Orioles compie un excursus nella storia dei mezzi di comunicazione. Dall’avvento della stampa, che sancisce l’entrata in scena della modernità, al decollo delle telecomunicazioni e dei mass media, sino al più recente ingresso della telematica e dei cosiddetti new media, la ricostruzione consente di cogliere come le novità nella sfera della comunicazione siano andate di pari passo con l’evoluzione delle società umane. Evoluzione che propone oggi affascinanti opportunità ma anche veri e propri dilemmi etici.

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Estratto da: Marco Orioles, I vecchi e nuovi volti della comunicazione

Sta in: Tellia B. (a cura di), Comunicare, Udine, Forum 2005, pp. 161-185.

1. I nostri “superpoteri”

La «ciberdemocrazia» è forse ancora un miraggio lontano. Il cambiamento degli equilibri nel mondo della comunicazione che abbiamo appena discusso sembra però aver già inciso pesantemente sul vecchio detto secondo il quale informazione significa potere. A parere di Thomas Friedman [2001], questo assunto deve essere infatti quanto meno riformulato, visto che le nuove tecnologie offrono addirittura dei «superpoteri» a chi le sa sfruttare adeguatamente. Superpoteri che, per l’appunto, si basano su una serie di usi innovativi, spesso spregiudicati e soprattutto sempre più estesi di quella risorsa strategica che è l’informazione.

La premessa del ragionamento di Friedman è assolutamente semplice. Pensate ad internet, spiega Friedman. A differenza dei suoi predecessori, questo strumento è schiettamente democratico. L’accesso ad internet è cioè alla portata tanto dei governi e delle grandi imprese, quanto dei privati cittadini. Come i primi, anche i secondi possono quindi avvantaggiarsi delle potenzialità di internet, a partire dalla possibilità di «raggiungere in modo più rapido, economico ed efficace ogni angolo del mondo». Nella rete delle reti, in altre parole, gruppi ed individui di ogni provenienza ed estrazione hanno trovato un mezzo che permette loro di «pensare, agire, comunicare» su scala globale alla stregua di quanto può fare il ministero degli affari esteri di uno stato o una qualsiasi azienda multinazionale [ibidem: p. 11].

Questi dunque sono i presupposti dei «superpoteri» di internet. Che hanno trovato, negli ultimi anni, più di una dirompente applicazione. Gli esempi che potremmo fare sono invero assai numerosi. Noi qui ci limiteremo a fornirne un quantitativo modesto ma sufficiente, oltre che per dare sostanza alla metafora di Friedman, per illustrare le luci e le ombre di questo fondamentale aspetto della società dell’informazione. E come le luci, vedremo che anche le ombre sono assolutamente accecanti.

Il primo esempio che vogliamo fare ci riporta al grande clamore creato dai movimenti contro la globalizzazione. Molti di voi ricorderanno senz’altro la tumultuosa manifestazione di Genova del luglio 2001. I più assidui fruitori delle cronache giornalistiche sapranno anche che l’episodio di Genova rappresenta solo uno degli anelli di una catena di proteste che hanno costantemente accompagnato i grandi summit internazionali sin dai giorni della riunione della “World Trade Organization” tenutasi a Seattle, negli Stati Uniti, nel dicembre 1999. Ebbene, ciò che Seattle, Genova e gli altri raduni dei cosiddetti “no-global” hanno messo in evidenza è proprio uno dei superpoteri richiamati da Friedman. Ognuna di quelle manifestazioni è stata infatti il frutto ed il culmine di un intenso lavoro di preparazione condotto attraverso internet. Infinite discussioni e dibattiti on line hanno dapprima creato i punti d’incontro ed evidenziato le affinità tra gli aderenti ai vari soggetti ed organismi che oggi si riconoscono nel comune sentire no global. I medesimi strumenti della comunicazione di rete hanno quindi permesso di pianificare e coordinare di volta in volta le operazioni sul campo, garantendo ad esempio una comoda soluzione per organizzare l’afflusso e la concentrazione di migliaia di persone nel luogo prescelto.

Senza un simile lavoro di «networking» [Castells, 2002], e senza internet, un fenomeno come questo non avrebbe certamente raggiunto simili proporzioni. E i “potenti della terra” presi a bersaglio dai no global non sarebbero probabilmente costretti ad incontrarsi, come fu per il G8 canadese successivo a quello di Genova, in luoghi dove è più probabile incontrare un orso che un dimostrante. I governanti, in ogni caso, sembrano preoccupati non tanto di questa applicazione del networking, quanto di quella che due esperti hanno definito «netwar». [Arquilla e Ronfeldt, 2002]. Si tratta di una inedita forma di conflitto a bassa intensità, ma passibile di fiammate improvvise e particolarmente letali, che si incardina grosso modo sugli stessi principi usati dai no global. Come questi ultimi, spiegano Arquilla e Ronfeldt, anche i protagonisti della netwar si avvalgono delle «forme organizzative» e delle relative «dottrine, strategie e tecnologie che si accordano con l’era dell’informazione». A cambiare drammaticamente sono però i fini e gli obiettivi, oltre che l’identità di chi li persegue. In cima alla lista dei guerrieri della netwar troviamo infatti la sigla di Hamas, l’organizzazione islamista che opera in Palestina, e soprattutto la celeberrima Al Qaeda, il cui exploit dell’11 settembre del 2001 ha offerto una delle più emblematiche dimostrazioni dei rischi della società dell’informazione.

 

L’idea di un parallelo tra il fenomeno no global e il terrorismo fondamentalista di Osama bin Laden è naturalmente quanto di più lontano una mente ragionevole possa elaborare. Ciò nonostante, ambedue possono essere annoverati se non altro nel campo definito dai superpoteri di cui ci parlava Friedman. I più interessati troveranno anzi assai stimolanti le letture dei vari saggi che ricostruiscono i sapienti usi di internet ed altre astuzie elettroniche fatti da Al Qaeda o da Hamas [Olimpio, 2002; Rapetto e Di Nunzio, 2001]. Le organizzazioni terroristiche comunque non esauriscono affatto l’elenco dei combattenti dell’era dell’informazione. Hacker, mercanti di droga, trafficanti di armi di distruzione di massa, movimenti etno-nazionalisti, milizie e bande di ogni genere formano un vasto ed eterogeneo esercito di movimenti e organizzazioni che allignano e operano nelle sterminate praterie di internet e danno lavoro ad un robusto contingente di agenzie statali, costrette ad inseguire i propri bersagli sullo stesso terreno immateriale (oltre che, naturalmente, nel più tradizionale mondo delle manette e delle “informazioni” di garanzia).

 

Grazie al cielo, queste inquietanti realtà si accompagnano a fenomeni di tutt’altro segno. Per chiudere con una nota di ottimismo, cediamo quindi volentieri di nuovo la parola a Friedman [2001: p. 28] per un ultimo esempio di superpoteri. Quelli che sono valsi a Jody Williams il prestigioso riconoscimento del premio Nobel per la pace, assegnatole nel 1997 per il ruolo da lei svolto nella campagna per la messa al bando delle mine antiuomo. Ma chi è Jody Williams? «Una donna qualunque», sottolinea compiaciuto Friedman, che ha guidato questa importante battaglia civile «senza il supporto di stati o governi e nonostante l’opposizione delle maggiori potenze mondiali». E qual è stata «l’arma segreta» che ha permesso alla Williams di superare un così formidabile fuoco di sbarramento e di coordinare «l’attività di più di mille organizzazioni pacifiste e per i diritti umani in sei continenti?». La posta elettronica. Con un semplice programma informatico che smista pacchetti di “bit”, una semplice cittadina americana ha potuto raggiungere un traguardo che interi plotoni di feluche non sarebbero forse mai riusciti ad avvicinare.

 

2. I media senza mediatori

L’immagine dei superpoteri fornitaci da Friedman appare dunque più che una forzatura. Senza internet, Osama bin Laden e i suoi fiancheggiatori avrebbero di sicuro fatto assai più fatica ad ordire la trama che li ha portati a cancellare le Torri Gemelle dalla faccia della terra. Allo stesso modo, la sollevazione popolare suscitata dalla recente guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq sarebbe stata probabilmente meno intensa e coordinata in assenza dei versatili dispositivi forniti dalla rete.

 

Benché calzanti, questi esempi ci allontanano però di molto dalla realtà ordinaria. Il mondo di internet infatti non è composto, per fortuna, solo da movimenti collettivi o da complotti e disegni eversivi. Dietro a questa punta si cela infatti un iceberg che condensa le innocue azioni quotidiane di milioni di utenti. Miriadi di persone che, in ogni momento ed in tutto il mondo, sfruttano in vario modo le potenzialità di ciò che un altro osservatore delle nuove tecnologie ha definito «media senza mediatori» [Mezza, 2003]. Il nostro piccolo vocabolario del mondo digitale si arricchisce dunque di una nuova voce, “media senza mediatori”. Un’espressione di cui approfittiamo subito per mettere a fuoco un’altra delle trasformazioni che stanno avvenendo sotto i nostri occhi: quella che sta investendo il settore dell’informazione giornalistica.

 

Anche in questo caso, un paragone con il passato ci potrà essere d’aiuto. Questa operazione non richiede tra l’altro un particolare sforzo d’immaginazione, visto che i termini del nostro confronto godono a tutt’oggi di ottima salute. Radio, giornali e televisione continuano infatti ad offrirci un costante approvvigionamento di “informazioni” sui fatti accaduti nel mondo. Un tempo, però, questa importante funzione era di fatto monopolizzata da questi tre strumenti. L’ascolto dei radiogiornali, la visione dei telegiornali e quella “confessione” mattutina che è la lettura di un quotidiano rappresentavano cioè per il cittadino le uniche occasioni di incontro con la cronaca. A dire il vero, qualcosa di analogo sin dai tempi dell’antichità aveva luogo nelle piazze e nei mercati. Ma gli scambi diretti e interattivi fatti con i propri compaesani, si sa, sono soggetti a forti limitazioni, non ultima la tipica distorsione delle “voci” o dei “pettegolezzi” che sono da sempre il vero pane comunicativo quotidiano di questi contesti informali [Kapferer, 1988]. Quanto piazza e mercato erano in grado di fornire, soprattutto, non poteva certo competere quella forma di conoscenza istituzionalizzata, elaborata da apposite organizzazioni e recapitata più o meno tempestivamente sino alle nostre abitazioni che è la notizia [Schudson, 1987 e 2003].

 

L’avvento del giornalismo, delle sue tipiche istituzioni (i mass media) e del suo corollario informativo, la notizia, ha messo a disposizione della società un modo straordinariamente efficace per appagare quel bisogno fondamentale che è il sapere quanto accade intorno a noi. Non a caso, la televisione fu salutata dai suoi primi beneficiari come una «finestra sul mondo» [Sartori, 1989]. Come già quella dei suoi predecessori, radio e giornali, la finestra televisiva ha però un limite invalicabile: essa si apre solo in tempi e su panorami prestabiliti. I palinsesti televisivi e radiofonici o le colonne dei giornali offrono cioè una dieta rigida e preconfezionata di informazioni. Preconfezionata, cioè, da quei “mediatori” che tengono saldamente in mano il controllo di questi mezzi e godono così del privilegio di decidere cosa, come, quando e quanto il cittadino debba sapere (o non debba sapere).

 

Anche il lettore che non ha alcuna familiarità con il lavoro condotto nelle redazioni giornalistiche comprenderà la natura particolarmente delicata delle operazioni che vi si svolgono. L’opera dei «signori che aprono e chiudono la porta dell’informazione» [Seghetti, 1998: p. 14] tende ad assomigliare ad un vero e proprio “dominio” sulla nostra visione e percezione del mondo. Per carità: dominio è una parola senz’altro forte. Come abbiamo già detto, il pubblico dei mass media non è mai completamente disarmato né impotente. Eppure è così, se non con formule ancora più pesanti, che molti critici hanno definito il privilegio goduto dai giornalisti. Anche chi non condivide il pensiero “apocalittico” di questi studiosi può comunque accoglierne alcuni spunti meno controversi. Ad esempio, il lettore o telespettatore italiano sa bene che l’immane responsabilità dei giornalisti verso il pubblico si è prestata spesso ad alcuni abusi. Che le varie pratiche di “distorsione” della notizia abbiano rappresentato un ingrediente caratteristico dell’informazione giornalistica è cosa nota. A fronte di questa situazione, però, il cittadino poteva fare ben poco: tipicamente, disdire un abbonamento, spegnere la televisione o, al più, inviare la tradizionale “lettera al direttore”. Tutte pratiche che possiamo definire risibili, e che certamente non potevano intaccare la realtà di fondo. Una realtà segnata, ripetiamo, dal predominio di poche fonti informative.

 

Questo, almeno, sino a ieri. Nell’odierna società dell’informazione, infatti, il potere di questi “signori” non è più assoluto come una volta. O per lo meno, essi devono ora fare i conti con la sfida posta da quel variegato fronte dei “media senza mediatori” che sta fieramente avanzando tra le pieghe di internet. L’espressione “media senza mediatori” può essere infatti usata per indicare quel vasto insieme di spazi informativi che fluttuano nel mare magno della rete e che si propongono come delle vere e proprie alternative ai mass media. Si tratta di un insieme di realtà estremamente eterogenee ma che hanno come trait d’union una caratteristica che radio, giornali e televisioni non potevano avere: la spiccata autonomia conferita ai loro utenti. Una autonomia che si è tradotta in qualche caso in vere e proprie dichiarazioni di indipendenza, ma che in linea generale ci rimanda più modestamente a quel concetto di interattività che abbiamo già incontrato più volte in questo lavoro.

 

L’idea di media senza mediatori è anzi in un certo senso un corollario dell’interattività. Tipicamente interattivi sono ad esempio i giornali on line. Molti lettori avranno certamente già una piena familiarità con questo universo che comprende tanto le testate nate nella rete quanto quelle che sono sbarcate su internet dopo una più o meno lunga tradizione cartaceaChi ha vissuto il salto dai mezzi tradizionali ad internet si troverà probabilmente in sintonia con l’immagine a tinte forti delineata da Valentini [2000: p. 14]. Per questo autore, i giornali on line rappresentano una vera e propria «rottura delle catene» o addirittura un «affrancamento dalla tirannia e dalla schiavitù». Lo strappo cui si riferisce Valentini, attenzione, è espresso dal punto di vista di un giornalista, ma fotografa comunque degli elementi sostanziali anche per il comune mortale. Elementi che Valentini fa cominciare dalla possibilità del giornalismo elettronico di superare i limiti inderogabili della gabbia di un articolo o della durata di un servizio televisivo. Questa opportunità offre certamente un vantaggio al redattore, non più costretto a comprimere così forzosamente il frutto del suo lavoro. Ma a beneficiarne è anche e soprattutto il lettore. Il suo bisogno di aggiornarsi su determinati eventi o temi è infatti ora meno vincolato dalle ferree convenzioni del giornalismo tradizionale. La sua curiosità inoltre può essere appagata con uno strumento che è tipicamente multimediale, e che gli offre quindi in un’unica piattaforma «l’impatto visivo della televisione, la capacità di approfondimento dei quotidiani, l’intimità della radio e gli interessi di nicchia delle riviste» [Marinelli, 2001: pp. 52-3].

 

Se di rottura di catene si deve parlare, è impossibile non pensare anche alla fine di un antico rituale: il passaggio dall’edicolante. Anche se appare scontato, vale la pena ricordare che la nostra testata preferita la possiamo ora “sfogliare” comodamente a casa o in ufficio o, secondo una modalità che si va gradualmente affermando, attraverso vari sistemi portatili. Il vecchio “spiacente, l’ho terminata” udito chissà quante volte al nostro chiosco di fiducia parrebbe dunque destinato ad imminente sepoltura nel polveroso cassetto dell’era analogica. La disponibilità continua dell’informazione on line sta rendendo questa frase un ricordo davvero lontano. Di più, la fruizione digitale mette alla portata di tutti noi qualcosa che potevamo fino ad ora solo ammirare in certe trasmissioni televisive o radiofoniche: la rassegna stampa. Nazionale e, perché no, internazionale. Barriere linguistiche e politiche commerciali permettendo, l’accesso ai giornale di città e paesi lontani è infatti altrettanto semplice e immediato della consultazione di un comune quotidiano nazionale. Per seguire la corsa alla Casa Bianca, o i dibattiti politici di Hong Kong, non servono davvero più – ma di questo parleremo meglio più avanti – le mediazioni dei nostri affezionati corrispondenti dall’estero.

 

Il valore aggiunto del giornalismo digitale non si ferma però a questa prime e pur rilevanti dimensioni. L’aspetto forse cruciale risiede nel modo in cui le informazioni dei giornali on line sono organizzate e nel ruolo che tale organizzazione affida all’utente. O, per dirla in una parola, nell’interattività. I giornali on line ci forniscono infatti uno degli effetti più visibili dell’interattività, che consiste nell’eliminazione della gerarchia delle notizie cui ci avevano abituato i quotidiani ed ancor più i telegiornali. In un giornale on line, la classica sequenza fissa che dalla politica interna passava agli esteri, alla cultura, agli spettacoli fino allo sport non ha infatti praticamente più senso. Ora, come rimarca Valentini, la graduatoria la fa «non più chi produce le notizie bensì chi le richiede e le riceve» [2000p. 20]. La consultazione interattiva del giornale on line permette cioè ad ogni visitatore di crearsi una propria gerarchia “soggettiva”, modellata secondo i rispettivi interessi, esigenze e curiosità. E’ questa in sintesi la filosofia della cosiddetta “informazione on demand”: un modello che vede i giornali on line offrirci non «più un pranzo fisso da consumare, predisposto e servito dalla casa, ma piuttosto un menu di notizie da consultare per scegliere liberamente il piatto o i piatti preferiti» [ibidem: p. 21].

 

L’esempio dei giornali on line può forse non rendere piena giustizia all’immagine dei “media senza mediatori” da cui siamo partiti. I servizi che possiamo leggere in questi siti sono, in fin dei conti, realizzati come prima da professionisti dell’informazione. Più che di una assenza di mediatori, allora, sembra più opportuno parlare di una pariteticità tra i due attori chiave: giornalisti e lettori. Si tratta comunque di un notevole passo in avanti rispetto alla «tirannia» degli orari, dei luoghi e delle diete fisse e dell’asimmetria tra emittenti e destinatari. Ora non è più l’informazione a imporci i suoi appuntamenti, nelle edicole o in tv. Le notizie sono invece sempre disponibili, in rete, per una fruizione á la carte. Una tale tendenza alla personalizzazione del “consumo” di informazione è peraltro continuamente affinata da nuovi dispositivi. La versione on line del famoso quotidiano americano “The New York Times”, ad esempio, offre ai suoi lettori un servizio chiamato “news tracker“. Indicando ad un apposito programma filtro i soggetti e le parole chiave di suo interesse (ad esempio, “pensioni” o “Michael Jackson”), il lettore viene “avvertito” ogni volta che il giornale pubblicaun articolo che contiene uno di questi riferimenti. Altrettanto interessante è il servizio che il provider statunitense “America On Line” ha messo a disposizione dei suoi sottoscrittori durante la recente guerra in Iraq. Attraverso un sistema analogo a quello del “New York Times”, si potevano ricevere notizie ed aggiornamenti relativi a singole unità dell’esercito impegnate nei combattimenti. È facile immaginarsi a questo punto la scena di intere famiglie che hanno seguito, passo dopo passo, la marcia dei loro figli verso Baghdad.

 

Quest’ultimo esempio ci permette di evidenziare un ulteriore elemento di spicco del giornalismo elettronico: la possibilità di ricevere un flusso di informazioni non solo personalizzate ma anche fresche e sempre aggiornate. I giornali on line ci stanno davvero abituando ad una tempistica completamente nuova, qualcosa che solo la pagina “ultim’ora” del televideo o le rare edizioni “straordinarie” dei telegiornali possono vagamente ricordare. Ma, per l’appunto, solo vagamente. Sotto l’egida di internet, il nostro rapporto con l’informazione assomiglia infatti sempre più ad una continua ricerca dell’aggiornamento all’ultimo minuto [Cornero, 2002]. Naturalmente, casi come quello dei familiari dei soldati americani rendono lecito concludere che questa tempestività si accompagni anche ad una notevole carica ansiogena. Tra le fila dell’esercito degli investitori on line, per fare un altro esempio, più di qualcuno ne sarà stato travolto. Ma quanti si sbarazzebbero volontariamente di questa singolare dipendenza dall’informazione in tempo reale?

 

L’utente dell’informazione in formato digitale gode in definitiva di una gamma di opzioni impensabili rispetto ad appena dieci anni fa. E tra queste opzioni figura anche, per tornare al punto da cui eravamo partiti, quella più estrema: la recisione del nodo gordiano della mediazione giornalistica. L’espressione “media senza mediatori” – o, per essere più precisi, senza mediatori professionisti – diventa infatti piena realtà nei casi che stiamo per analizzare. Esempi che ci mostrano come il mondo dell’informazione si vada aprendo ai profani fin nelle sue operazioni più sacre: la raccolta e la distribuzione delle notizie.

 

Il passaggio non potrebbe essere più simbolico. Raccolta e distribuzione erano infatti prerogativa assoluta della classe dei giornalisti. Questo monopolio valeva peraltro ancor di più per quel sottoinsieme particolare che sono le notizie dall’estero. Anche questo campo, tradizionalmente riservato ad un piccolo gruppo di organismi (le agenzie di stampa internazionali) e ad un nucleo di professionisti iper-specializzati (i corrispondenti dall’estero), sta però subendo come altri le pressioni operate dalle tecnologie dell’informazione. Abbassando sensibilmente le barriere economiche che avevano finora mantenuto nelle mani di pochi la raccolta e distribuzione dei servizi dall’estero, le nuove tecnologie ci stanno proponendo delle inedite forme di corrispondenza. Vere e proprie modalità alternative di “mediazione” che meritano certamente una succinta descrizione in chiusura di paragrafo.

 

Delle varie tipologie descritte da Hamilton e Jenner [2003], noi concentreremo la nostra attenzione su due in particolare. La nostra selezione non è affatto arbitraria. Abbiamo volutamente scelto due polarità estreme al fine di evidenziare come i cambiamenti tecnologici interessino tutti: ricchi e meno ricchi, potenti e meno potenti. Ricchezza e potere, per esempio, ben si attagliano ad organizzazioni come la Banca Mondiale o la Ford Motor Company. Questi due nomi figurano in cima alla lista degli organismi che hanno messo in piedi degli efficienti servizi interni di raccolta e distribuzione di informazioni (“organizational in-house information gathering”, o anche “in-house reporting”). Un lavoro che viene svolto da un apposito staff e che si impernia proprio sulle nuove tecnologie dell’informazione. Per delle istituzioni che operano globalmente e hanno quindi bisogno di una vasta gamma di dati precisi, su misura e possibilmente aggiornati, i nuovi media rappresentano davvero una manna dal cielo.

In linea di principio, questo tipo di servizio non rappresenta una assoluta novità. Già parecchi secoli fa le principali compagnie navali o finanziarie europee assolvevano compiti analoghi, sotto la tipica forma di bollettini manoscritti distribuiti da corrieri privati o magari attraverso i piccioni viaggiatori. Per gli storici anzi tali forme pionieristiche hanno funto da battistrada per la formazione di quel “mercato della notizia” da cui sarebbe nata successivamente la moderna “fabbrica del presente” rappresentata dal giornale [Cavallari, 1990; Gozzini, 2000]. Queste radici antiche, tuttavia, stanno oggi generando prodotti decisamente inediti dal punto di vista sia della capillarità che della tempestività con cui si muove l’informazione (oltre che, naturalmente, delle varie opzioni multimediali offerte dal mondo digitale).

Del tutto nuova invece può essere considerata la nostra seconda tipologia, che si può sinteticamente definire come “giornalismo fai da te” (“Do-it-yourself reporting and editing”). Qui ci affacciamo però in un campo di natura tendenzialmente spontaneistica ed assai variegato. Un terreno che da realtà come i siti internet a carattere amatoriale spazia fino all’emergente fenomeno dei “blog”. Quale ne sia la forma e l’aspetto, il giornalismo fai da te ha segnato l’irruzione nel panorama informativo di un esercito di commentatori o corrispondenti per passione o diletto. Attori che sono giunti a diventare punti di riferimento per un rilevante bacino di fedeli lettori e, in casi tutt’altro che rari, addirittura per i professionisti della notizia. Da questo punto di vista, il caso senz’altro più celebre ci viene ancora una volta dagli Stati Uniti. È quello di Matt Drudge, meglio noto per aver diffuso in anteprima mondiale attraverso il suo sito le rivelazioni sullo scandalo che piagò la presidenza di Bill Clinton e che la storia ricorda come “Monicagate”.

L’elenco potrebbe naturalmente proseguire a lungo. Noi però abbiamo spazio solo per un ultimo caso che riteniamo assai rappresentativo delle nuove dinamiche dell’informazione. Qualcuno di voi ricorderà probabilmente il clamoroso sequestro di un teatro moscovita condotto alla fine del 2002 da un commando di terroristi ceceni. Ebbene, tra le 750 persone tenute in ostaggio c’era un tale che, attraverso il suo telefono cellulare, riuscì a mantenersi in contatto con un’amica. In barba alla censura indetta dal governo russo, queste due persone poterono offrire ai lettori del blog “LiveJournal.com” una vivida descrizione dell”odissea passata dagli ostaggi che, per non pochi di loro, sarebbe com’è noto finita tragicamente

Sotto il sole di internet, insomma, qualcosa di nuovo sembrerebbe splendere. Questa selva di corrispondenti improvvisati, di bollettini telematici e di siti più o meno autorevoli e popolari richiede certamente qualcosa in più della saggezza degli antichi per essere analizzata o quanto meno afferrata in tutta la sua complessità. O forse le cose non stanno così. Chi ha paragonato l’eterogeneità delle voci e lo spiccato pluralismo informativo di internet ad una sorta di «Casbah» postmoderna sembra dirci che, tutto sommato, dietro a questo sfavillio digitale si cela l’ombra di una vecchia verità. Che magari, per dirla con un’ultima metafora non meno gettonata delle altre, potrebbe chiamarsi Babele. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

Anno di Pubblicazione

2005

Editore

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