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Come si muove Trump su talebani, Afghanistan e 5G

Pubblicato il 28/01/2019 - Policy Maker

Progressi nel negoziato con i talebani ed ennesima battuta d’arresto per Huawei. Le mosse di Trump nel Tacchino estero di Marco Orioles

“SIGNIFICATIVI PROGRESSI” NEL NEGOZIATO USA-TALEBANI PER PORRE FINE ALLA GUERRA IN AFGHANISTAN

Dopo sei giorni di colloqui in Qatar, gli emissari di Donald Trump e i rappresentanti dei talebani guidati dal nuovo inviato a Doha Mullah Abdul Ghani Baradar avrebbero raggiunto – secondo fonti dei militanti islamisti – un’intesa sui termini generali di un accordo per concludere la guerra in Afghanistan che va avanti ormai da oltre diciassette anni ed è il più lungo conflitto nella storia degli Stati Uniti. Gli americani accettano di ritirare, non appena il patto sarà stato sottoscritto, i loro quattordicimila uomini schierati in Asia Centrale nell’ambito dell’operazione “Resolute Support”. I talebani, in cambio, proclameranno e rispetteranno un cessate il fuoco e promettono di non consentire alle formazioni jihadiste come al Qa’ida e lo Stato Islamico di usare il territorio afghano per pianificare e portare a compimento attacchi contro gli Usa e gli alleati occidentali. Rimangono da definire aspetti tutt’altro che secondari, e il diavolo, si sa, sta nei dettagli. I talebani accetteranno finalmente di parlare con il governo legittimo dell’Afghanistan, da essi considerato né più e né meno che un “fantoccio” nelle mani degli stranieri con il quale è inutile perdere tempo? Ci saranno candidati e liste del movimento alle elezioni presidenziali della prossima primavera? Chi farà rispettare il cessate il fuoco, e fino a quando durerà? E che ne sarà della Costituzione afghana, che per i talebani, ligi osservanti della Shari’a ,è poco più che fumo negli occhi? L’America saluta comunque questi sviluppi con una nota di ottimismo commista al sano realismo che si impone in circostanze così difficili. Il capo negoziatore Usa, Zalmay Khalilzad, si affida a Twitter per rendere noti i “significativi progressi su temi vitali” raggiunti nel negoziato e per far sapere che “riprenderemo i colloqui presto. Abbiamo un certo numero di temi da risolvere. Niente è concordato fino a quando tutto è concordato, e ‘tutto’ deve includere un dialogo intra-afghano e un cessate il fuoco complessivo”. Di “notizie incoraggianti” parla invece, sempre sul social dei 280 caratteri, il Segretario di Stato Mike Pompeo, per il quale gli Stati Uniti “sono seri sul ricercare la pace, impedire all’Afghanistan di continuare a essere uno spazio per il terrorismo internazionale & portare le truppe a casa”. Quest’ultimo pare essere la priorità per l’amministrazione Trump: a metà dicembre, il presidente annunciò il rientro in America di metà del contingente Usa dispiegato in Afghanistan. Non è un mistero che The Donald abbia una pessima idea dell’impegno militare americano in uno dei paesi più disastrati del pianeta e che sin dall’inizio della sua avventura alla Casa Bianca abbia meditato di porvi fine. Si tratta, d’altra parte, di un impegno quanto mai gravoso per gli Usa, che dal 2001 – anno in cui il governo di George W. Bush decise l’invasione dell’Afghanistan – hanno speso per questa guerra ben 932 miliardi di dollari, senza contare il denaro iniettato nelle casse delle agenzie internazionali per promuovere l’opera di “nation building”. Per non parlare del sacrificio dei soldati Usa (2.149 morti) e alleati (1.142). Tutte ragioni per archiviare questa stagione e porre le premesse di una svolta in Afghanistan che prelude, quasi sicuramente, al risorgere dell’Emirato Islamico, già distintosi tra il 1996 e i 2001 per essere stato il regime più oscurantista della terra.

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ANCHE VODAFONE RINUNCIA ALLE ATTREZZATURE HUAWEI PER LE PROPRIE RETI 5G

Ancora brutte notizie per Huawei, la compagnia su cui si sta abbattendo la furia degli Stati Uniti, decisisi a contrastare il dominio cinese nel 5G e a fronteggiare le minacce alla sicurezza poste da un’azienda dai legami troppo stretti con il regime autoritario di Pechino. Vodafone ha annunciato di aver “sospeso” – fino a quando i governi occidentali non si saranno chiariti le idee sui rischi posti dal colosso di Shenzhen – l’acquisizione di apparecchiature prodotte da Huawei e la loro installazione nella parte “core” delle proprie reti 5G. “Abbiamo deciso” questo passo, ha dichiarato il chief executive Vodafone, Nick Read, “mentre ci impegniamo con le varie agenzie, coi governi e con Huawei per finalizzare la situazione, sulla quale sento che Huawei è davvero aperta e alla quale sta lavorando duramente”. Read denuncia tuttavia un dibattito “troppo semplicistico” sulla tecnologia Huawei, compagnia che non si può boicottare alla leggera essendo uno dei grandi player che, insieme a Ericsson e Nokia, può dare un contributo decisivo alla costruzione delle infrastrutture della rete mobile di quinta generazione. Rispondendo all’annuncio di Vodafone, un portavoce di Huawei ha infatti dichiarato che l’azienda  “è focalizzata nel supportare l’avviamento della rete 5G di Vodafone, di cui la parte core”, quella oggetto dell’ultimo provvedimento di Vodafone, “occupa una piccola proporzione. Siamo grati a Vodafone per il suo supporto a Huawei e ci adopereremo per essere degni della fiducia che viene riposta in noi”.  Su tutt’altro fronte, Huawei è costretta a registrare altri pessimi segnali. Il Dipartimento Giustizia Usa ha fatto sapere che chiederà l’estradizione di Meng “Sabrina” Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei arrestata il 1 dicembre in Canada proprio su mandato della giustizia americana, che l’accusa di frode e di aver violato le sanzioni contro l’Iran. Un caso giudiziario, quello di Meng, destinato ad aggravare le tensioni tra Usa e Cina, già alle stelle a causa del negoziato commerciale in corso nel quale l’America è decisa a piegare Pechino, costringendola a rinunciare alle sue pratiche sleali che danneggiano l’America a colpi di furti di tecnologia, cyberintrusioni, sovvenzioni statali alle grandi aziende pubbliche e altri comportamenti non conformi alla condotta di un’economia di mercato aperta e trasparente. La crisi innescata dall’arresto di Meng ha travolto il Canada, reo secondo la Cina di tenere in ostaggio un illustre manager per obbedire all’alleato americano. In una chiara e minacciosa rappresaglia, Pechino ha fatto arrestare, con spurie accuse di attentare alla sicurezza nazionale, due cittadini canadesi e ne ha condannato a morte un terzo per reati di droga. Da questa “diplomazia degli ostaggi”, come la definisce Chimène Keitner su Foreign Affairs, se ne uscirà, forse, con un accordo tra Stati Uniti, Cina e Canada che porterà alla contestuale liberazione di Meng e dei tre canadesi detenuti. Ottawa, formalmente, nega però che questo scenario sia possibile, come dimostra il licenziamento in tronco del suo ambasciatore a Pechino, reo di aver ventilato ai media cinesi una simile soluzione. Per il premier canadese Justin Trudeau e il suo ministro degli Esteri Chrystia Freeland, il caso Meng dovrà essere risolto dai tribunali e solo sulla base del dettato della legge. La Cina, in ogni caso, pretende rabbiosamente un passo indietro da parte sia del Canada che degli Usa. Lo ha ribadito in un briefing con la stampa il portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying, per il quale quello che coinvolge Meng non è “un caso giudiziario regolare”. “Ognuno”, ha tuonato Hua, “deve essere considerato responsabile per le proprie azioni. Sia gli Usa che il Canada dovrebbero essere consapevoli della serietà del caso e fare dei passi per rettificare l’errore”. Pechino, ha chiarito il portavoce, esige che gli Stati Uniti ritirino il mandato di arresto nei confronti di Meng e che “non facciano formale richiesta di estradizione alla parte canadese”. “La Cina”, ha concluso Hua, “agirà in risposta alle misure prese dagli Usa”.

Approfondisci: 

Lo speciale di Start Magazine sul caso Huawei:

 

 

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