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Così la campagna turca ad Afrin mette a repentaglio la lotta allo Stato islamico

Pubblicato il 02/03/2018 - Formiche

Un effetto la campagna del presidente turco Recep Tayyip Erdogan per espugnare Afrin e purgarla dalla presenza dei curdi dell’Ypg l’ha già avuto: l’esodo di migliaia di combattenti e comandanti curdi delle Sdf che, dai fronti più a nordest in cui si annidano i rimasugli dello Stato islamico, si spostano verso Afrin per andare a difendere i cugini sotto attacco.

È uno spostamento che preoccupa molto gli americani, che attraverso il capo dell’United States Central Command, generale Joseph. L. Votel, hanno lanciato l’allarme: testimoniando alla commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti, Votel ha sottolineato che le Sdf rappresentano “le forze più efficaci in Siria contro l’Isis. E abbiamo bisogno di loro per finire questo combattimento”.

Le Sdf sono state le “truppe di terra” dell’offensiva della coalizione a guida americana. Composte prevalentemente da curdi dell’Ypg, ma anche di arabi e di persone di altre etnie, sono loro che hanno svolto i combattimenti sul campo contro le bandiere nere. E gli Stati Uniti sono stati la loro aviazione. Senza il connubio tra il sudore e i nervi dei curdi e l’air power a stelle e strisce, Raqqa e le province circostanti non sarebbero state tolte così velocemente ed efficacemente dalle grinfie dello Stato islamico.

E il loro lavoro non è finito. Alle Sdf, in coordinamento con i comandi americani, spetta ora il compito di combattere le forze residue del califfato in rovina che si sono disperse nelle zone della valle dell’Eufrate verso il confine con l’Iraq e tentano ancora di esercitare resistenza. In più, le Sdf sono un presidio indispensabile per evitare il deflusso, da questo teatro, di centinaia di foreign fighters che, in assenza di controlli, possono prendere la via della Siria centrale, della Turchia o della Giordania per proseguire il loro jihad altrove o per andare a compiere attentati in Occidente.

La mossa di Erdogan ora mette a repentaglio questi sforzi. Con la partenza di migliaia di miliziani dell’Ypg, a pattugliare la zona di Deir ez-Zor e la valle dell’Eufrate sono rimasti praticamente solo combattenti arabi, che gli americani giudicano valorosi ma non competenti militarmente quanto i curdi. In assenza di questi, gli statunitensi sono costretti a occupare posizioni strettamente difensive, lasciando alla sola aviazione il compito di perlustrare il territorio alla ricerca di gruppi di jihadisti.

È difficile fare delle stime sull’emorragia di combattenti da Deir ez Zor e dalla valle dell’Eufrate ad Afrin. Ma secondo ufficiali curdi sentiti dal New York Times, se al suo picco le Sdf potevano contare su cinquantamila uomini, più di ventimila si sono ora spostati. Un movimento più che comprensibile, considerato che ora questi uomini, che per anni hanno combattuto per territori non di loro stretta competenza, ora vanno a lottare per difendere terre e famiglie curde. Non esercita certo la stessa forza d’attrazione nei loro confronti la guerra americana contro lo Stato islamico.

“L’invasione turca per occupare Afrin ha terribilmente influenzato il nostro combattimento contro l’Isis”, dice Shahoaz Hasan, co-presidente del partito dell’Unione Democratica Siriana. “Dopo che siamo riusciti a strangolare l’Isis”, ora i turchi “stanno attaccando delle nostre forze nella nostra regione”.

“La campagna per sconfiggere lo Stato islamico è a rischio”, sottolinea Jennifer Caffarella, intelligence planner dell’Institute for the Study of War di Washington. “È improbabile che le SDF rimangano a fare pulizia delle aree nei pressi dell’Eufrate già detenute dall’Isis e potrebbero persino cominciare a registrare delle perdite a causa dello spostamento massiccio di truppe” verso Afrin.

Consapevoli dei problemi che tutto ciò può comportare, esponenti di primo piano del governo americano come il Segretario di Stato Rex Tillerson e il consigliere per la Sicurezza Nazionale Herbert R. McMaster hanno recentemente effettuato incontri ad alto livello con membri del governo turco, tra cui lo stesso Erdogan, per tentare di far cambiare idea alla Turchia. Sforzi vani, ben testimoniati dalla mesta dichiarazione della portavoce del Dipartimento di Stato Heather Nauert che la settimana scorsa ha riconosciuto che “non possiamo più combattere l’ISIS nel modo in cui vorremmo fosse possibile”.

Le possibilità che la Turchia cambi passo sono remote. Erdogan ha ricevuto luce verde direttamente dal presidente russo Putin. Inoltre ad Ankara predomina la retorica nazionalista, e i media profondono parecchie energie per concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla campagna di Afrin, creando un clima di euforia e di grande attesa intorno ai successi militari a venire.

C’è malumore tra i curdi nei confronti degli americani, giudicati incapaci di far cambiare idea ad un loro alleato. “Non ci aspettavamo che la coalizione permettesse ai turchi di attaccare Afrin”, dice Maher al Ony, che comanda una brigata a Manbij. “Gli americani sul terreno fanno un ottimo lavoro e noi abbiamo imparato molto da loro, la condivisione di dati, le tecniche GPS, ma politicamente non siamo più così sicuri di loro”, aggiunge.

Muhammed Abu Adelk, comandante del consiglio di Manbij, fa parte di coloro che sono dispiaciuti di dover lasciare un lavoro a metà ma sa di non avere alternative. “Abbiamo sacrificato migliaia di vite dei nostri soldati, ne abbiamo sacrificati così tanti per combattere questo terribile gruppo terroristico, e ora improvvisamente arriva questo stato membro della NATO a combatterti”.

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