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Ecco come la Cina reagisce alla guerra di Trump contro Huawei e Zte

Pubblicato il 24/01/2019 - Start Magazine

È entrata nel vivo la battaglia legale chiamata a decidere il destino di Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria di Huawei arrestata a Vancouver su mandato della giustizia americana che la accusa di frode e di violazione delle sanzioni Usa contro l’Iran.

Attraverso il suo portavoce, Marc Raimondi, il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha fatto sapere che presenterà al Canada richiesta formale di estradizione di Meng nei tempi stabiliti dal trattato bilaterale sulle estradizioni Usa-Canada, ossia entro sessanta giorni dall’arresto del sospettato. Nel caso di Meng, che è stata arrestata il 1 dicembre, la deadline è fissata al 30 gennaio. La Corte Suprema della British Columbia, che si occupa del caso Meng, ha già fissato al 6 febbraio l’udienza per esaminare, alla presenza dell’imputata, la richiesta di estradizione.

A quel punto, il tribunale avrà trenta giorni di tempo per valutare se le prove contro Meng siano sufficienti per decretarne la colpevolezza, e deliberare di conseguenza. La parola passerà quindi al ministro della Giustizia canadese, che dovrà decidere se consegnare o meno Meng alle autorità americane.

La battaglia si preannuncia lunga. Sia la decisione del tribunale che quella del ministro possono infatti essere appellate, e i legali di Meng hanno già fatto sapere di prepararsi ad un contenzioso che potrebbe trascinarsi per mesi o addirittura anni. Un periodo durante il quale potrebbero mettersi di mezzo considerazioni di ordine politico, che in questo caso hanno il loro peso.

Sia il Canada che gli Stati Uniti devono fare i conti con le forti pressioni di Pechino, che pretende la liberazione di Meng e ha già preso minacciose contromisure, tra cui l’arresto di due cittadini canadesi con la pretestuosa accusa di attentare alla sicurezza nazionale cinese e la condanna a morte di un terzo canadese per reati di droga. Sono, di fatto, tre ostaggi del durissimo braccio di ferro tra Canada, Stati Uniti e Cina.

Martedì la Cina ha reiterato con la consueta ruvidezza le proprie posizioni. Durante il consueto briefing con la stampa, il portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying , ha dichiarato che quello che coinvolge Meng non è “un caso giudiziario regolare” e che il Canada ha “fatto un serio errore sin dal principio”. “Ognuno”, ha tuonato Hua, “deve essere considerato responsabile per le proprie azioni. Sia gli Usa che il Canada dovrebbero essere consapevoli della serietà del caso e fare dei passi per rettificare l’errore”. La Cina, ha chiarito il portavoce, esige che gli Stati Uniti ritirino il mandato di arresto nei confronti di Meng e che “non facciano formale richiesta di estradizione alla parte canadese”. “La Cina”, ha concluso minacciosamente Hua, “agirà in risposta alle misure prese dagli Usa”.

La condotta di Pechino rispecchia la convinzione che Meng sia solo una pedina nel più ampio gioco che gli Usa stanno conducendo per danneggiare gli interessi di Huawei e, in senso lato, per ostacolare gli sforzi intrapresi dalla Cina per conquistare la leadership nei settori hi-tech. Significativo, a tal proposito, l’editoriale di ieri del quotidiano di regime China Daily, nel quale si sottolinea come il Canada, arrestando la CFO del colosso di Shenzhen, stia dando una mano all’America “contenendo” Huawei. “Se il Canada”, conclude l’articolo di fondo in un chiaro monito ad Ottawa, “continua a fare ciò che gli viene richiesto dagli Usa, certamente vedrà deteriorarsi ulteriormente le sue relazioni con la Cina, incluse le sue relazioni commerciali”. Riferimento, quest’ultimo, non solo al caso di Meng, ma anche al possibile bando di Ottawa – dietro precise pressioni americane – alla partecipazione di Huawei allo sviluppo dell’infrastruttura nazionale del 5G. Un passo che senz’altro farebbe precipitare i rapporti bilaterali, come ha fatto intuire in una rara intervista alla stampa l’ambasciatore cinese in Canada, che ha minacciato il Canada di “ripercussioni” qualora optasse per un bando ad Huawei.

Da Davos, intanto, sono giunte le parole dell’attuale direttore finanziario di Huawei, Liang Hua, che ha temporaneamente assunto l’incarico di Meng. “Stiamo seguendo da vicino” il caso, ha dichiarato Liang, “ma non abbiamo avuto contatti diretti con le autorità”. Huawei auspica, ha sottolineato il CFO, “una veloce conclusione” del procedimento che riguarda Meng “così che lei possa godere della libertà personale”.

Liang ha anche affrontato l’accusa che gli Usa muovono ad Huawei e sulla cui base stanno imponendo un boicottaggio della tecnologia prodotta dal colosso di Shenzhen: quella di essere un braccio del Partito Comunista Cinese, che indurrebbe l’azienda ad installare delle “backdoor” nelle proprie apparecchiature per consentire a Pechino di spiare gli utenti della rete. “Se credono che ci sia una backdoor, dovrebbero mostrare delle prove per dimostrarlo”, ha detto Liang. “Non vediamo alcuna prova per dire che Huawei non è sicuro”. “Noi”, ha poi spiegato, “operiamo globalmente il nostro business su scala globale e in ogni paese rispettiamo pienamente le leggi e i regolamenti locali”. “La Cibersecurity”, ha aggiunto, “è una sfida comune” e, insieme alla protezione della privacy, rappresenta per Huawei “la principale priorità”.

L’arroventarsi del caso Huawei arriva a pochi giorni dal nuovo round del negoziato commerciale tra Usa e Cina. Il 30 gennaio è atteso a Washington il capo negoziatore cinese, Liu He, che incontrerà il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin e il rappresentante al Commercio americano Robert Lighthizer. Sono in molti a pensare che la liberazione di Meng possa rientrare nel negoziato come oggetto di scambio. Lo aveva fatto intuire, a dicembre, lo stesso Donald Trump, dichiarando a Reuters che avrebbe bloccato l’estradizione di Meng se questo fosse servito a fluidificare il negoziato con la Cina.

La possibilità che l’amministrazione Trump usi questo caso giudiziario come merce di scambio per ottenere concessioni dalla Cina sul fronte cruciale dei commerci è stata adombrata martedì dall’ambasciatore canadese negli Stati Uniti, David MacNaughton, Che, parlando con la CNN, ha detto di “aver cercato chiarimenti” dalle autorità americane “che questa sia una questione legale e non un chip in una disputa commerciale”. Se fosse così, ha dichiarato l’ambasciatore, il Canada non ci sta, visto che a pagare pegno al momento sono tre cittadini canadesi privati della libertà in Cina.

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