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Ecco i dossier sul commercio che dividono Stati Uniti e Cina

Pubblicato il 31/01/2019 - Start Magazine

Tutti i temi al centro del nuovo round del negoziato commerciale tra Stati Uniti e Cina. Il Punto di Marco Orioles

 

Si è aperto ieri a Washington, e si protrarrà fino a stasera, il nuovo round del negoziato commerciale tra Stati Uniti e Cina, il secondo appuntamento – dopo quello all’inizio dell’anno a Pechino – da quando Donald Trump e il suo collega cinese Xi Jinping hanno concordato una tregua a quella guerra dei dazi scatenatasi l’anno scorso che ha messo in subbuglio i mercati finanziari e spinto al ribasso le previsioni di crescita dell’economia globale compilate dalle maggiori istituzioni internazionali.

Non sono trapelate per ora indiscrezioni dall’Eisenhower Executive Office Building dove, a pochi passi dalla Casa Bianca, si stanno confrontando le due delegazioni. A guidare quella degli Stati Uniti ci sono i pezzi grossi dell’amministrazione Trump: il rappresentante al commercio Robert Lighthizer, il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, il Segretario al Commercio Wilbur Ross, il direttore del Consiglio Economico Nazionale Larry Kudlow e il consigliere al commercio Peter Navarro. La Cina schiera invece il vicepremier e plenipotenziario di Xi sul commercio, Liu He, accompagnato dal vice ministro al commercio Wang Shouwen e dal governatore della Banca del Popolo della Cina, Yi Gang.

Secondo il comunicato diffuso lunedì dalla Casa Bianca, la due giorni nella capitale Usa è chiamata a fare un passo in avanti in direzione degli obiettivi prefissati dal governo: “ottenere”, anzitutto, “i necessari cambiamenti strutturali in Cina che influenzano il commercio tra” le due superpotenze, e far rispettare l’impegno preso da Pechino al G20 di Buenos Aires di “acquistare un sostanzioso ammontare di beni e servizi dagli Stati Uniti”.

Alla vigilia dell’incontro, parlando dalla Casa Bianca, Munchin ha detto che le due parti affronteranno “temi complicati” come la tutela della proprietà intellettuale, troppo spesso oggetto di appropriazione indebita da parte delle aziende cinesi, le regole che governano le joint ventures delle compagnie del Dragone con quelle Usa, e, soprattutto, il disegno di un meccanismo di enforcement che garantisca che la Cina, in caso di violazioni dei nuovi accordi, ne paghi le conseguenze. Questo è un punto dirimente, come ha sottolineato lo stesso Mnuchin: “Vogliamo essere sicuri che quando otteniamo un accordo, quell’accordo sia fatto rispettare”.

Le questioni sul tavolo sono però di difficile risoluzione, al punto che molti osservatori dubitano che Cina e Stati Uniti giungano ad un’intesa complessiva entro la deadline fissata da Trump al prossimo 2 marzo. In caso di fallimento, scatterebbe il minacciato aumento dei dazi su 200 miliardi di esportazioni cinesi, e non è escluso che l’America estenda le tariffe punitive a tutto il resto dell’export del Dragone. Un’eventualità che la Cina deve assolutamente evitare, dato che i dati economici più recenti segnalano un significativo indebolimento della crescita dovuto ai dazi Usa e al clima di incertezza in cui si consuma lo scontro sino-americano.

Anche l’America deve fare però i conti con le conseguenze negative sull’economia a stelle e strisce. Non c’è solo la performance negativa di Apple, che ha visto abbattersi le vendite del melafonino in Cina. Sono numerose le aziende americane che stanno pagando il prezzo delle tensioni tra le due rive del Pacifico. Tra queste, c’è Nvidia, produttore di chip, che a causa di “condizioni macroeconomiche deteriorate, particolarmente in Cina”, è stata costretta a abbassare drasticamente le stime del fatturato nel quarto quadrimestre. E Caterpillar, che a causa “della più bassa domanda in Cina” ha mancato anch’essa il target delle vendite dell’ultimo quadrimestre.

Queste considerazioni avranno il loro peso sul negoziato. Ma nessuno si illude che gli Stati Uniti, decisisi a prendere il toro cinese per le corna, si accontentino di concessioni minori e di portata solo simbolica. Non è questo l’orientamento dei falchi dell’amministrazione Trump come Peter Navarro, strenuo fautore dei dazi che il mese scorso ha fatto tremare le borse per il semplice fatto di aver detto che “la Cina sta cercando di rubare il nostro futuro”.

Nel governo Usa, si misurano due posizioni agli antipodi. C’è la linea di Navarro e di Lighthizer, i quali – al fine di ottenere cambiamenti radicali nelle pratiche commerciali cinesi e nello stesso sistema economico del Dragone – sono disposti a proseguire ad oltranza questa sfida. E c’è poi il pensiero di chi, come Mnuchin, sa bene che la guerra ai dazi non può protrarsi ulteriormente e che è necessario riaprire quanto prima i rubinetti del commercio globale ed evitare ulteriori turbolenze nei mercati finanziari.

Per mostrare la sua buona volontà, la Cina si è già impegnata ad irrobustire le importazioni di beni Usa come soia, carne di pollo, energia. Lo ha fatto sapendo bene quanto pesi, nei pensieri di The Donald, la questione dello squilibrio commerciale e del deficit monstre americano. Ma non è questa la priorità degli Usa che, come dimostrano le parole di Mnuchin, dall’impero di mezzo pretendono molto altro. Lo ha dimostrato lunedì – con una tempistica in cui molti hanno intravisto in filigrana un avvertimento alla Cina – il Dipartimento di Giustizia Usa presentando 23 capi di imputazione contro Huawei, accusata – tra le altre cose – di aver rubato segreti commerciali all’americana T-Mobile.

Rinunciare per sempre alle pratiche sleali, tutelare la proprietà intellettuale, competere alla pari e senza sussidiare le aziende statali, aprire il proprio mercato alla partecipazione senza condizionalità delle compagnie americane, riformare insomma in profondità il proprio sistema economico: le richieste americane sono tante, precise e ultimative, e richiedono da parte della Cina uno sforzo che molti dubitano sia nelle capacità, e nelle intenzioni, della sua dirigenza.

Così, se è alto il rischio che il 2 marzo arrivi senza che ci sia alcun accordo, e che torni ad infuriare la guerra dei dazi, non è nemmeno escluso che – visti i costi per entrambi i paesi dello scontro frontale – si raggiunga un’intesa ad interim. Qualcosa che consenta a Trump di dichiarare vittoria su Twitter, blocchi il meccanismo dei dazi e apra le porte ad un prolungamento del negoziato oltre la scadenza prefissata.

Ma è proprio a questo che gli scettici negli Usa guardano con sospetto. Si teme infatti che i cinesi, pur di ottenere un disgelo, dicano qualunque cosa pur di incassare il risultato per loro indispensabile, ossia il rientro della minaccia di aumentare i dazi e il ritiro di quelli già in vigore. Dopo di che utilizzerebbero il tempo extra mettendo in campo tattiche dilatorie, e senza fare concessioni significative, aspettando semplicemente che il mandato dell’amministrazione Trump vada in scadenza nel 2020 e sperando a quel punto che gli elettori americani incoronino un altro presidente più accondiscendente.

L’incontro che si è aperto ieri e si chiude oggi a Washington è in ogni caso un passaggio intermedio, che non partorirà risultati definitivi. Ci sono ancora trenta giorni di tempo per raggiungere un’intesa, che potrebbe anche sbloccarsi all’ultimo minuto: a fine febbraio si terrà il nuovo summit tra Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un, e molti sperano che il capo della Casa Bianca ne approfitti per fare una visita a Xi e strappargli uno di quei “deal” che tanto gli piacciono.

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