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I 70 anni dell’Alleanza atlantica tra celebrazioni e tensioni

Pubblicato il 08/04/2019 - Policy Maker

I 70 anni della Nato, le stilettate di Trump alla Germania e i negoziati commerciali Usa-Cina. Il “Taccuino Estero” è l’appuntamento settimanale di Policy Maker con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina

Lo scorso mercoledì, alla vigilia del settantesimo compleanno dell’Alleanza Atlantica, il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg ha tenuto nell’aula del Campidoglio di Washington un discorso a camere riunite, che potete riascoltare grazie alla registrazione diffusa dallo stesso Stoltenberg sul suo profilo Twitter:

Stoltenberg era stato invitato dalla Speaker della Camera, la Dem Nancy Pelosi, e dal capo della maggioranza repubblicana al Senato, Micht McConnell, principalmente per due motivi: celebrare l’anniversario di quell’Alleanza che per settant’anni ha tenuto insieme l’Occidente, e mandare un messaggio bipartisan e tutt’altro che velato all’uomo che più di altri ha messo in dubbio, autorevolmente, la Nato: Donald Trump.

Quello di Stoltenberg è stato il primo discorso al Parlamento Usa di un Segretario Generale Nato: un onore che rimarca la volontà di senatori e deputati di ribadire l’importanza e la centralità dell’Alleanza a fronte dei reiterati assalti da parte del capo della Casa Bianca.

“Oggi” – ha detto Stoltenberg, elencando le frizioni transatlantiche –“ci sono disaccordi” in seno alla Nato “su temi come il commercio, l’energia, il cambiamento climatico e l’accordo nucleare con l’Iran”. Non vi è però, è il suo ragionamento, motivo per essere preoccupati: “Questa è la democrazia, discussioni aperte e punti di vista differenti non sono segni di debolezza, ma di forza”.

“La Nato” – ha affermato il Segretario – “è stata buona anche per gli Stati Uniti. Attraverso la Nato, gli Stati Uniti hanno più amici di qualsiasi altra potenza. Ciò ha reso gli Stati Uniti più forti, più sicuri e più tranquilli”. Gli alleati Nato “forniscono importanti capacità, incluso un personale di decine di migliaia di funzionari d’intelligence ed esperti in area cyber, offrendo agli Stati Uniti occhi e orecchie migliori laddove ce n’è bisogno”. “(È) buono avere amici”, ha concluso.

La Russia resta la minaccia numero 1 per la comunità euroatlantica per una lunga serie di motivi puntualmente elencati nel discorso di Stoltenberg: si va dal “massiccio buildup militare dall’Artico al Mediterraneo e dal Mar Nero al Baltico, all’uso dell’agente nervino di grado militare in Gran Bretagna, all’appoggio del regime siriano, ai costanti attacchi cyber agli alleati Nato e ad altri Paesi (…) alle sofisticate campagne di disinformazione, ai tentativi di interferire nella democrazia stessa”.

Dinanzi a queste azioni spregiudicate, la Nato non è rimasta inerte. Al contrario, ha sottolineato Stoltenberg, l’Alleanza ha reagito “con il più grande rafforzamento della nostra difesa collettiva da decenni”. Per la prima volta, “abbiamo truppe pronte a combattere dislocate sul fianco Est della nostra Alleanza”. “Abbiamo”, poi, “incrementato la prontezza delle nostre forze, triplicato la dimensione della forza di reazione Nato, modernizzato la nostra struttura di comando, irrobustito le nostre difese cyber, e potenziato il nostro sostegno ai nostri stretti partner Ucraina e Georgia”.

Le ultime tensioni Nato-Russia hanno riguardato il Trattato Inf sui missili nucleari a corto e medio raggio, da cui Washington ha deciso di ritirarsi con una mossa immediatamente replicata da Mosca. “La posizione della Nato” su questo tema, ha sottolineato Stoltenberg, “è unita e chiara: la Russia è in violazione del Trattato Inf. In ogni caso, gli Usa non hanno intenzione di dislocare sul territorio europeo gli ordigni già proibiti dal Trattato: “non ci saranno nuovi missili americani in Europa”, ha detto Stoltenberg. “Noi non vogliamo una nuova corsa alle armi. Noi non vogliamo una nuova Guerra Fredda, ma non dobbiamo essere ingenui. Un accordo che è rispettato solo da una parte non ci terrà al sicuro”.

Nell’intervento del Segretario c’è stato spazio anche per l’argomento polemico trumpiano per eccellenza: il burden-sharing. Le insistite richieste del presidente Usa agli alleati di spendere di più, onorando la promessa fatta al summit del Galles di investire almeno il 2% di Pil nel comparto militare, “sta avendo un impatto reale”, a detta di Stoltenberg: “tutti gli alleati hanno cessato di fare tagli”. La spesa degli alleati è aumentata di 41 miliardi di dollari a partire dal 2016, “e quella cifra crescerà a 100 miliardi” alla fine dell’anno prossimo.

La questione era emersa anche durante l’incontro molto cordiale che Stoltenberg ha avuto nel corso della stessa giornata alla Casa Bianca con il suo inquilino. “Abbiamo lavorato insieme”, ha detto The Donald ai reporter che hanno assistito al meeting, “per far sì che gli alleati pagassero la loro giusta parte”. “Ad un certo punto”, ha precisato il presidente, “dovrà salire ancora di più”.

Cedendo ai suoi impulsi, Trump non ha potuto fare a meno di prendere di mira il suo target preferito: la Germania, rea di aver programmato di spendere per la Difesa appena l’1,5% del Pil. “Parleremo di Germania, parlo sempre della Germania”, ha detto il presidente alla stampa prima di cominciare il colloquio privato con Stoltenberg. “Ad essere onesti, la Germania non sta pagando la sua giusta parte”.

Sostenendo, falsamente, che suo padre fosse nato nella terra di Angela Merkel, Trump ha detto di avere “grandi sentimenti verso la Germania, ma non stanno pagando ciò che dovrebbero pagare. Stiamo pagando per una grossa proporzione della Nato, che sta sostanzialmente proteggendo l’Europa”.

A fare eco alle affermazioni di Trump ci ha pensato il suo vice Mike Pence. Intervenendo ad un forum organizzato da alcuni think tank a Washington in occasione del settantennale Nato, Pence ha ribadito il Trump-pensiero: “La Germania continua a rifiutarsi di fare l’investimento necessario del 2% (del Pil) per la nostra difesa comune (…). La Germania deve fare di più”. “Inoltre – ha aggiunto – troppi altri sono in difetto, e come tutti noi riconosciamo, la Germania è in testa a tutti”.

Mettendo il dito nella piaga, Pence ha ricordato che Berlino “ha beneficiato per generazioni della protezione Usa dell’Europa”. Ora però, con il suo braccino corto, sta mettendo a repentaglio la solidità della difesa comune. Lo mostra il rapporto annuale del Bundestag sulle forze armate, che evidenzia “clamorose deficienze nella preparazione militare della Germania”.

Mentre Trump e Pence puntavano l’indice sulla Germania e sul suo governo, l’ambasciatore Usa a Berlino Richard Grenell infieriva su Twitter. Il diplomatico ha intercettato, per poi rilanciarlo, un cinguettio abrasivo del Ministero degli Esteri tedesco nel quale si sottolinea che “la Germania sostiene generosamente la @Nato. Manteniamo i nostri impegni. La vera solidarietà si misura in termini di impegni, non di euro”. “Vi siete impegnati precedentemente (a spendere il) 2% – è stata la puntuta replica social di Grenell – Gli alleati Nato si aspettano che quegli impegni siano onorati con vero denaro e non con le sole parole”.

Nel suo discorso, Pence ha criticato veementemente la Germania anche per il gasdotto Nord Stream 2. “Non possiamo assicurare la difesa dell’Occidente se i nostri alleati diventano dipendenti dalla Russia”, ha tuonato il vicepresidente. “Se la Germania insiste nel costruire il gasdotto Nord Stream 2, potrebbe – come il presidente Trump ha detto – trasformare letteralmente la Germania in un ostaggio della Russia. È semplicemente inaccettabile che la più grande economia europea ignori la minaccia di aggressione e trascuri la propria auto-difesa e la nostra difesa comune”.

Fortunatamente per Angela Merkel e soci, Pence non ha indirizzato i suoi strali alla sola Germania. C’è un altro Paese che, in questo preciso momento, è al centro dei pensieri preoccupati di Washington: la Turchia, rea di aver deciso di acquistare dalla Russia il sistema di difesa anti-aerea S-400.

“Abbiamo anche chiarito – ha rimarcato Pence – che non rimarremo con le mani in mano mentre gli alleati Nato acquistano armi dai nostri avversari, armi che minacciano la coesione di questa alleanza. (…) L’acquisto da parte della Turchia (del sistema S-400) pone un grave pericolo alla Nato”.

Le parole di Pence sono arrivate dritte nelle orecchie del ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, anch’egli presente all’evento di Washington. Quello degli S-400, ha replicato il capo della diplomazia di Ankara, è ormai “un affare concluso e non arretreremo”.

Ci ha pensato il capo del Comando Europeo Usa, generale Curtis Scaparrotti, a rafforzare nelle stesse ore il messaggio di Pence. “Per me”, ha dichiarato Scaparrotti alla stampa dal Pentagono, “l’incompatibilità” tra l’appartenenza della Turchia alla Nato e il suo acquisto degli S-400 deriva dal fatto che ciò offrirà ai russi l’opportunità di “analizzare” il flusso di dati degli F-35, di cui Ankara è un acquirente, e le loro “capacità”.

È questo il motivo, sebbene non l’unico, per cui gli Usa hanno deciso di sospendere la consegna programmata alla Turchia delle attrezzature degli F-35, con una decisione ufficializzata lunedì. Un messaggio ultimativo che risuona nel monito di Pence: “La Turchia rischia l’espulsione dal programma congiunto degli F-35, che danneggerà non solo le capacità di difesa della Turchia, ma può azzoppare molti dei produttori turchi di componenti che riforniscono quel programma”.

“La Turchia – è la conclusione di Pence – deve scegliere. Vuole rimanere un partner critico dell’alleanza militare di maggior successo nella storia del mondo? O vuole rischiare la sicurezza di quella partnership facendo decisioni sconsiderate che minano la nostra alleanza?”.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

A Washington la settimana scorsa si è tenuto un nuovo round del negoziato commerciale Usa-Cina nella sede del Rappresentante Usa al Commercio Robert Lighthizer che, insieme al Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, si è confrontato con la delegazione di Pechino guidata dal vicepremier e plenipotenziario del presidente Xi Jinping, Liu He.

 


NOTIZIE DAL MONDO

 

Il disgelo Grecia-Macedonia del Nord. A due mesi dalla ratifica da parte del parlamento greco dell’accordo in base al quale la Macedonia ha assunto la nuova denominazione di “Macedonia del Nord”, il premier Alexis Tsipras ha compiuto la prima visita ufficiale nel paese balcanico dai giorni della sua indipendenza. “Siamo qui per costruire ponti e abbattere muri”, ha dichiarato Tsipras con toni bergogliani alla conferenza stampa congiunta con il suo omologo Zoran Zaev. Tsipras era accompagnato da dieci ministri, che hanno firmato numerosi contratti in materia di difesa, infrastrutture e trasporti. Il primo ministro greco ha annunciato l’immediata apertura di un’ambasciata ellenica a Skopje. The Guardian

 

È operativo il primo squadrone di F-35 dell’aviazione giapponese. Il 302mo squadrone fa parte del 3rd Air Wing della Japan Air Self Defense Force (JASDF) ed è stazionato nella base di Misaka, nella parte settentrionale dell’isola di Honshu. Lo squadrone ha mandato in pensione i suoi velivoli McDonnell Douglas-Mitsubishi F-4EJ-Kai Phantom II, sostituendoli con gli F-35A, il modello a decollo e atterraggio convenzionale. Quattro esemplari in dotazione allo squadrone sono stati costruiti negli Usa, gli altri invece sono stati assemblati nello stabilimento Mitsubishi Heavy Industries (MHI) F-35 Final Assembly and Check Out (FACO) di Nagoya, dove la produzione continuerà almeno fino alla fine del 2022. Nel dicembre 2011 il governo giapponese aveva ordinato 42 esemplari di F-35. Ma nel dicembre dell’anno scorso l’esecutivo guidato da Shinzo Abe ha approvato l’acquisto di un altro centinaio di velivoli, di cui 63 F35-a e 42 F-35B, il modello a decollo rapido e atterraggio verticale (STOVL). The Diplomat

 

Lo Stato Islamico continua a uccidere in Nigeria. La branca nigeriana dello Stato Islamico, conosciuta come Islamic State West Africa Province (ISWAP), ha compiuto la settimana scorsa una sequenza di attacchi costati la vita a tredici soldati nigeriani e cinque militari della task force schierata nel paese africano che comprende uomini di Niger, Ciad e Camerun. Il giornale del gruppo jihadista, Al-Nabaa, sostiene che gli attacchi hanno avuto luogo nel corso del fine settimana nello stato del Borno, teatro da parecchi anni dell’insorgenza di Boko Haram, da cui sono fuoriusciti alcuni militanti che hanno fondato la sezione locale dello Stato Islamico. Reuters

 

5G made in China in Bahrein. A partire da giugno, in Bahrein – dove sorge il quartier generale della Quinta Flotta Usa – potrebbe essere operativa una rete 5G targata Huawei. La compagnia “VIVA Bahrein”, sussidiaria della saudita STC, ha firmato il mese scorso un accordo per utilizzare attrezzature del colosso di Shenzhen nella sua rete mobile di quinta generazione. “Non abbiamo preoccupazioni in questo momento, fino a quando questa tecnologia viene incontro ai nostri standard”, ha dichiarato a Reuters il ministro delle Telecomunicazioni Kamal bin Ahmed Mohammed. Il secondo operatore del Paese del Golfo, Batelco, sta lavorando sul 5G insieme alla svedese Ericsonn, mentre una terza compagnia, Zain, deve ancora annunciare il proprio fornitore. Reuters

 

Bolsonaro (quasi) come Trump. Il Brasile ha aperto una missione commerciale a Gerusalemme, suscitando l’ira dei palestinesi, che stanno valutando di richiamare il proprio ambasciatore a Brasilia. A poco sono valse le rassicurazioni fornite dal portavoce del presidente brasiliano, Ibrahim Alzeban, secondo cui la nuova missione non deve considerarsi come una sede diplomatica. In origine, Bolsonaro contava di emulare il suo idolo Donald Trump e aprire un’ambasciata a Gerusalemme, ma la reazione islamica ha spinto lui e i suoi colleghi di governo a fare un passo indietro al fine di non danneggiare le esportazioni miliardarie di carne halal che dal Brasile riforniscono i paesi della Mezzaluna. Il presidente brasiliano era in Israele la settimana scorsa e ha visitato il Muro Occidentale a Gerusalemme, accompagnato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Ma non ha messo piede nei territori palestinesi. Reuters


SEGNALAZIONI

“La via per le elezioni israeliane: cosa c’è in ballo”: il commento di Peter Lintl per l’Ispi sulle elezioni che si tengono domani in Israele.

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“La missione militare della Russia avanza su un nuovo fronte: l’Africa”: l’articolo di Eric Schmitt sul New York Times.

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“Il califfato è andato. Ma dov’è il califfo?” – l’articolo di Kathy Gilsinan su The Atlantic

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“America, non ci stai a sentire”: l’intervento di Anatoly Antonov, ambasciatore russo negli Stati Uniti, su Defense One


 

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