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Il Coronavirus garantirà a Donald Trump la rielezione alla Casa Bianca?

Pubblicato il 09/04/2020 - Start Magazine

Tutte le mosse di Trump in chiave anti Coronavirus con un occhio alle primarie Dem. L’articolo di Marco Orioles

Il Coronavirus garantirà a Donald Trump la rielezione alla Casa Bianca?

Non ci si riferisce alla volontà degli americani di premiare un presidente che sta facendo il tutto per tutto per proteggerli dalla pandemia.

Se c’è un motivo per cui il Covid-19 potrebbe dare un aiutino a The Donald rimanda a The Donald stesso. Ossia all’uomo che – come ha scritto ieri il New York Times in un lungo approfondimento – sta facendo il tutto per tutto per vanificare le disposizioni delle stesse agenzie federali perché il voto alle primarie Dem si celebri con il rito alternativo del voto postale anziché in seggi affollati e dunque esposti al contagio.

Il calcolo fatto dai Repubblicani è semplice e duplice. Se per votare Biden devo per forza recarmi al seggio, anziché affidarmi al comodo voto postale, sarà improbabile che lo faccia sfidando la pandemia.

Ma non è questo il motivo principale della sfilza di ricorsi presentati nelle corti di vari Stati dal Partito dell’Elefantino al fine di bloccare le urgenti riforme elettorali proposte dai democratici.

La ragione n. 1 rimanda alla radicata convinzione in seno ai Repubblicani che voto postale faccia rima con fraud.

Per quanto possa apparire assurdo da parte di un uomo che ha appena chiesto la sua scheda postale per votare in Florida, Donald Trump vanta un record di dichiarazioni – che toccarono l’apice in occasione della sua vittoria nelle elezioni del 2016 che ciononostante ebbe a definire “rigged” –  in merito a presunti brogli.

Per un presidente che vede inganni dappertutto, nulla può mandarlo su tutte le furie più di quelle maledette buste destinate ad essere manipolate da scrutatori in malafede e con il cuore a sinistra.

Ecco perché, quando i Democratici ripetono il loro mantra sull’estensione del voto postale al maggior numero degli elettori, la risposta del presidente è di norma sulla falsariga del “non ci sarà mai più un repubblicano eletto in questo Paese”.

È un concetto su cui è ritornato giusto ieri, anche se con due affermazioni contraddittorie.

Dopo aver infatti spiegato al mattino che se il piano dei Democratici è quello di rendere più esteso se non universale il voto postale, “io non lo tollererò”, nel pomeriggio ha pensato bene di ricorrere a Twitter per magnificare – su impulso, osserva il New York Times, di consiglieri che conoscono bene il gradimento del loro boss tra i senior e le forze armate – un metodo che andrebbe incontro alle esigenze di “molti cittadini anziani, dei militari e di altri che nell’Election Day non possono andare al seggio”.

Quale che sia il pensiero del loro n. 1, tra i repubblicani l’idea che il voto postale sia deleterio per loro e non per gli altri è assai diffusa. Prova ne sono le parole di Ronna McDaniel, che del partito di Trump è la presidente, sulla necessità assoluta di mantenere le “salvaguardie che assicurano l’integrità del processo elettorale” e di impedire dunque che i democratici ottengano quel che vogliono, ossia “riforme elettorali in tutto il paese in un tempo di crisi”.

Il pericolo in effetti è concreto ed anche imminente: Nancy Pelosi ha già fatto sapere che nel prossimo pacchetto legislativo contenente misure urgenti contro il Covid-19 dovranno essere incluse disposizioni per mettere il voto di novembre in sicurezza dal contagio.

Ma alla minaccia prospettata dall’iniziativa della Speaker della Camera, i Repubblicani hanno già reagito demonizzando quello che definiscono un pacchetto “one-size-fits-all” che uniformerebbe le regole a livello nazionale violando la sacra autonomia degli Stati.

Stati che invece, ha dichiarato uno degli uomini impegnati nella campagna elettorale del presidente, Justin Clark, “dovrebbero mantenere una responsabilità primaria sulle proprie leggi elettorali”.

Con i repubblicani che remano contro, trascinando in tribunale gli avversari quando tentano di cambiare le regole del gioco (e ottenendo spesso ragione, rileva ancora il NYT, grazie ai soliti giudici allineati), sarà dunque molto probabile che assisteremo ancora alle scene viste martedì alle primarie democratiche celebrate in quello che ambedue i partiti considerano uno Stato chiave (“the tipping point state”) nel match di novembre: il Wisconsin.

Dove il voto si è celebrato tra lunghe file di persone che indossavano guanti e mascherine. E dove il numero di schede infilate nelle urne si è pertanto assottigliato notevolmente. Per quanto i risultati ufficiali arriveranno solo la settimana prossima, sembra difficile che i 18 mila voti circa espressi in presenza e le 56 mila schede postali contati sinora possano davvero toccare alla fine la quota di 167 mila voti raggiunta alle primarie del 2016.

La battaglia ora si sposta in Michigan, Minnesota, Arizona, Nuovo Messico e in tutti gli Stati dove non si sono ancora celebrate le primarie e i tentativi di riforma avanzati dai Dem dovranno di nuovo fare i conti con le cause intentate in tribunale dagli avversari. E con giudici che, come quelli del Winsconsin, difficilmente rinunceranno ad un’antica tradizione americana: il voto partisan.

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