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La partita diplomatica all’Onu tra Stati Uniti e Palestina

Pubblicato il 09/02/2018 - Formiche

Prosegue la marginalizzazione degli Stati Uniti dagli accordi di pace sulla Palestina, in ossequio al dente avvelenato del presidente palestinese Mahmoud Abbas per la decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele.

Ieri al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, convocato per discutere la situazione in Medio Oriente, l’inviato palestinese Ryad Mansour ha evocato la possibilità di far gestire il negoziato con Israele da organismi che vanno dal Consiglio di Sicurezza stesso, al “Quartetto” di potenze che comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, la Russia e l’Unione Europea purché sia allargato a paesi come la Cina e alla Lega araba, o a una conferenza internazionale ad hoc come quella convocata dall’ex presidente francese Francois Hollande nel gennaio dell’anno scorso. La chiave è l’internazionalizzazione della vicenda, ovvero il coinvolgimento del maggior numero di attori chiave a scapito di quello, gli Stati Uniti, che fino ad oggi ha dettato legge sul processo e sugli esiti.

“Stiamo dicendo”, ha sottolineato Mansour, “che un approccio collettivo che coinvolga diversi attori come minimo avrebbe una maggiore chance di riuscire rispetto all’approccio di un solo paese che è così vicino ad Israele”. Se si studiasse qualcosa che “avesse il formato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”, ha aggiunto, “questo sarebbe qualcosa che sarebbe presa seriamente in considerazione”. In alternativa, si potrebbe pensare al “Quartetto più la Cina e la Lega dei Paesi Arabi più forse qualcun’altro. (…) O il processo collettivo potrebbe avere la natura della conferenza di Parigi o di un’altra conferenza internazionale”.

Tutto va bene, insomma, purché gli Stati Uniti indossino la museruola o abbiano la minima voce in capitolo. “Naturalmente se cominciamo dicendo che Gerusalemme è fuori dal tavolo, e poi puniamo l’UNRWA – l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi a cui gli Stati Uniti hanno minacciato di tagliare i finanziamenti – che cosa rimane sul tavolo?”, ha sottolineato Mansour. L’America “ha perso la neutralità richiesta”, ha aggiunto l’inviato, “a qualsiasi broker che aiuti due parti in causa a raggiungere un trattato di pace”. “Il vecchio approccio è fallito”, ha concluso Mansour, “e ora ne stiamo cercando un nuovo”.

Suggerimenti concreti su come denunciare la trattativa guidata dagli Stati Uniti e tentare nuove strade, Mahmoud Abbas ne ha ricevuti a volontà in questo periodo, e ancora ne riceverà. La settimana prossima il presidente palestinese sarà ricevuto a Mosca da Vladimir Putin. Un diplomatico palestinese citato dall’Interfax ha fatto sapere che nell’agenda del colloquio ci sarà proprio la discussione di nuovi meccanismi con cui rimpiazzare il Quartetto. Se tutto dovesse andare per il meglio, lo zar avrebbe un’altra partita da giocare nel suo già affollato scacchiere internazionale, uno scacchiere sul quale si muove anche un altro alleato di Mosca come l’Iran che ha tutto l’interesse ad accreditarsi come il vindice dei palestinesi.

Ma Abbas ha anche ricevuto la solidarietà concreta di un altro attore fortemente interessato ad entrare nei giochi: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Nel suo recente colloquio col Papa, Erdogan non ha nascosto la sintonia col Pontefice sul rigetto della posizione trumpiana e sulla necessità di un rilancio dell’iniziativa di pace con termini e modalità più eque nei confronti dei palestinesi. E il presidente turco si è posto tempestivamente alla guida, convocando l’Organizzazione della Cooperazione islamica a ridosso dell’annuncio di Trump, dei paesi che rigettano la posizione americana e vogliono cooperare per dare uno sbocco alla questione palestinese, anche tramite il dispositivo del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di uno Stato Palestinese.

Si apre insomma una complessa partita diplomatica. Che non è detto però che veda gli Stati Uniti dal lato dei perdenti. Non solo perché la Casa Bianca sta per annunciare il suo piano di pace, su cui ha lavorato alacremente negli ultimi dodici mesi il genero e consigliere del presidente Jared Kushner. Ma anche perché gli americani possono contare dalla loro parte una serie di alleati storici, tra cui l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Giordania, che non avranno la forza di opporsi ad un rilancio di marca americana dei colloqui di pace. Egitto e Giordania sono state non a caso le tappe visitate dal vice-presidente americano Mike Pence nel suo recente tour in Medio Oriente, mentre con l’Arabia Saudita la sintonia è piena sulla necessità di normalizzare i rapporti con Israele in funzione anti-Iran, anche a costo di far passare in secondo piano un dossier ostico come quello palestinese, o meglio, di trovargli una soluzione che metta rapidamente tutti d’accordo in attesa di passare ad altro, ossia agli incesssanti travagli del Medio Oriente.

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