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Le parole di Trump all’Onu e le vere armi Usa contro Corea del Nord, Iran e Venezuela

Pubblicato il 20/09/2017 - Formiche

Il discorso di Trump all’Assemblea Generale Onu è stato reboante, come da manuale del trumpismo. Uno per uno, il tycoon ha elencato e minacciato i suoi principali avversari, promettendo il redde rationem. Nel nuovo asse del male di bushiana memoria, rientrano la Corea del Nord dell’”uomo razzo” Kim Jong-Un, la “dittatura corrotta” di Teheran e la “dittatura socialista” del venezuelano Maduro. Paesi che, nel quadro del concione sovranista di Trump, sono destinatari, oltre che dell’ira del capo della Casa Bianca, di misure senza precedenti da parte di un’alleanza di nazioni “great again” dopo la debosciata stagione del multilateralismo onusiano.

Ma quali mezzi, di preciso, Washington può mettere in campo per far rientrare nei ranghi i suoi avversari. Cominciamo con la Nord Corea. A dispetto delle dichiarazioni dei generali di Trump, che prospettano ad ogni piè sospinto ipotetiche “opzioni militari”, in Corea del Nord la situazione è al più di stallo, e nella peggiore delle ipotesi di vittoria strategica da parte del Maresciallo Kim. La nuclearizzazione del Nord è ormai un dato irreversibile. Niente e nessuno può convincere Kim a rinunciare alla polizza d’assicurazione rappresentata dal suo programma nuclare e missilistico. Tanto meno le sanzioni elevate dalle grandi potenze, visto che, come ha affermato recentemente Putin, i sudditi di Kim “mangerebbero erba” piuttosto che essere soggiogati dall’odiato nemico. La realtà che l’America ha di fronte è quella di una potenza ostile che può essere al massimo contenuta con la tradizionale strategia della deterrenza, ed eventualmente rasa al suolo in caso di attacco a sé stessa o agli alleati di Corea del Sud e Giappone. Ecco perché l’unica cosa che Washington può fare è potenziare il dispositivo militare in Estremo Oriente, al fine di far desistere il Nord da eventuali colpi di mano come quello, senz’altro sognato dal Maresciallo, di una guerra convenzionale volta a realizzare il progetto che fu del nonno di Kim: la riunificazione della penisola coreana sotto egida comunista.

Con Teheran, il gioco si sta facendo assai duro. Gettandosi nella mischia della guerra contro lo Stato islamico, gli iraniani hanno conquistato posizione su posizione, portando de facto sotto il proprio controllo Siria ed Iraq. L’avanzata delle milizie sciite inquadrate dai Pasdaran le ha portate però a diretto contatto con l’acerrimo nemico israeliano. Che, insieme ai Paesi arabi storicamente ostili a Teheran, non intende certo stare alla finestra. La prospettiva di un conflitto totale in Medio Oriente si rafforza ogni giorno di più, e le manovre politiche, diplomatiche e militari di Washington negli ultimi mesi mostrano che l’America sarebbe pronta a sostenere i suoi alleati contro le mire degli ayatollah. È in questa luce che deve essere inquadrata l’intenzione di Trump, più volte accennata, di rimangiarsi l’accordo sul nucleare del 2015, il JCPOE. Nell’ottica del presidente Usa, quello è e rimane uno degli “accordi peggiori di sempre” , perché non fa altro che rimandare nel prossimo futuro (tra otto anni) il momento in cui Teheran riavvierà le sue centrifughe e riprenderà ad arricchire l’uranio al fine di ottenere la fatidica bomba. Dunque, il JCPOA va rivisto, nell’ottica di Washington (e di Gerusalemme), per rendere permanente la rinuncia al nucleare da parte dell’Iran. Il problema è che, per rimettere in moto la macchina diplomatica che ha portato alla sigla del 2015, gli Stati Uniti avrebbero bisogno delle altre cinque potenze che facevano parte del P5+1 che ha trattato con gli ayatollah. E queste, negli ultimi due anni, si sono affrettate a fare affari e contratti con Teheran, approfittando della fame di consumi della popolazione iraniana e delle cospicue riserve energetiche presenti nel paese. Vorranno Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina e Germania rinunciare ai vantaggi della distensione e dell’apertura dei mercati iraniani nel nome degli interessi strategici degli Usa, dei suoi inquieti alleati arabi e di Israele? Improbabile.

Infine, quanto al Venezuela, gli Stati Uniti possono al massimo alzare la voce, ed aumentare il ventaglio degli obiettivi delle sue sanzioni, senza però riuscire a modificare di una virgola l’avvitamento autocratico del paese latino. Solo l’isolamento più completo di Caracas potrebbe convincere il chavista Maduro a rinunciare a fare del proprio paese una Cuba in terraferma, e vista l’alleanza del Venezuela con diversi paesi sudamericani, e soprattutto con Russia e Cina, la strada è tutta in salita.

Insomma, a New York abbiamo visto in azione un Trump al suo meglio. Attore consumato dalla retorica reboante, che difficilmente però sarà in grado di incidere realmente sugli equilibri mondiali. Che non coincidono con quelli del trumpismo.

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