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Perché anche Vodafone e Soros seguono Trump nella guerra a Huawei e Zte

Pubblicato il 27/01/2019 - Start Magazine

Non passa praticamente giorno senza che all’affresco del caso Huawei non si aggiungano altre pennellate. Gli ultimi colpi di scena, nell’ordine, coinvolgono l’ambasciatore canadese in Cina, licenziato dal premier Justin Trudeau per alcune dichiarazioni imprudenti sull’affaire Meng, la direttrice finanziaria di Huawei arrestata a Vancouver su mandato della giustizia americana; Vodafone e la sua decisione di sospendere temporaneamente l’installazione nelle proprie reti di apparecchiature prodotte dal colosso di Shenzhen; e, infine, il miliardario e filantropo George Soros, autore di durissime esternazioni anti-cinesi dal palco svizzero di Davos.

John McCallum, oltre ad essere un economista, è l’inviato canadese in Cina. Un incarico che l’ha costretto a gestire le pesanti conseguenze – non ultimi l’arresto in Cina, in un’evidente rappresaglia, di due concittadini e la condanna a morte di un terzo – del caso giudiziario canadese più grave degli ultimi tempi: quello di Meng “Sabrina” Wanzhou, la CFO di Huawei che lo scorso 1 dicembre, mentre stava cambiando aereo a Vancouver, è stata arrestata su richiesta del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti, che l’accusa di aver eluso le sanzioni americane contro l’Iran. Sul destino di Meng, che ora è in libertà vigilata e dovrà comparire in aula il 6 febbraio, pende il mandato di estradizione delle autorità Usa e l’ipoteca di un processo che, in caso di condanna, la costringerebbe in cella per lunghissimi anni.

Dietro al caso di Meng, è il sospetto dei più, si celano però ragioni politiche. La manager cinese sarebbe secondo questa interpretazione un illustre ostaggio del negoziato sino-americano che l’amministrazione Trump ha voluto mettere in piedi con il proposito di costringere Pechino ad assumere comportamenti, nella sfera economica e nella competizione con le aziende tecnologiche a stelle e strisce, più consoni ad un’economia di mercato aperta e rispettosa delle regole. In questa contesa, Huawei si è vista ritagliare il ruolo di bersaglio delle manovre americane finalizzate a mettere sotto pressione il Dragone. Rientrano in questa finalità i provvedimenti presi o che sono in procinto di essere varati dai governi alleati degli Usa per impedire ad Huawei di partecipare allo sviluppo delle infrastrutture nazionali del 5G: una ritorsione dovuta, secondo l’accusa di Washington, ai legami troppo stretti tra l’azienda e il Partito Comunista Cinese e alla possibilità che la prima, dietro direttive del secondo, installi nelle proprie apparecchiature delle “backdoor” che consentirebbero a Pechino di condurre una sofisticata opera di spionaggio. Sono i presupposti di una guerra fredda tecnologica in cui Stati Uniti e Cina si combattono, anche con colpi bassi come l’arresto di Meng, per salvaguardare ovvero affermare la propria leadership nel settore delle nuove tecnologie.

Consapevole dei risvolti e delle implicazioni di questa tenzone globale, e del fatto che il suo paese si trova ora nel mezzo del fuoco, l’ambasciatore canadese in Cina John McCallum ha tenuto martedì una conferenza stampa a beneficio dei media cinesi durante la quale ha esternato le sue personali opinioni. Che non sono affatto allineate con quelle del suo governo, e in particolare del premier Trudeau e della ministra degli Esteri Chrystia Freeland. I quali hanno sempre negato la natura politica dell’affaire Meng e sostenuto che il Canada affronterà il caso giudiziario della CFO di Huawei esclusivamente sulla base della legge.

Ma l’ambasciatore non ne è affatto convinto, e nel colloqui coi giornalisti ha fatto capire che alla fine ci sarà un qualche tipo di accordo tra Canada, Cina e Stati Uniti che porterà alla liberazione di Meng. La quale peraltro, se dovesse misurarsi con un tribunale canadese, potrebbe far valere secondo il diplomatico dei “buoni argomenti” per la sua difesa, non ultimo il “coinvolgimento politico” degli Stati Uniti di Donald Trump, che il mese scorso dichiarò che non avrebbe esitato a rilasciare Meng se ciò fosse servito a facilitare un accordo con la Cina sul fronte dei commerci. Un’intromissione, quella del presidente americano, che indebolisce non poco una causa giudiziaria in cui pesano evidentemente fattori estranei alla logica squisitamente legale.

Se intervenisse la politica, fa capire l’ambasciatore, la richiesta di estradizione di Meng potrebbe non arrivare a giudizio. Ma anche se ciò non avvenisse, la battaglia legale sarebbe lunga e imprevedibile: secondo McCallum infatti “ci vorrebbero anni” in quanto Meng “avrebbe il diritto di appellarsi” in ogni grado di giudizio e “fino alla Corte Suprema”.

Il caso Meng, ne è convinto l’ambasciatore, è “il risultato delle continue tensioni tra Cina e Stati Uniti” e non di una disputa legale innescata da accuse circostanziate. Il suo esito perciò, se ne deduce, dipenderà dallo sciogliersi delle tensioni tra le due superpotenze, e da qualche forma di agreeement che tra le sue clausole includerà anche la liberazione di quello che appare un ostaggio eccellente di una trattativa complessa.

Le parole di McCallum non sono passate inosservate in patria. Da più parti sono arrivate richieste perentorie di dimissioni. Richieste che sono state assecondate dal premier Trudeau, che sabato ha annunciato di aver accettato il passo indietro del diplomatico. Che esce di scena con la colpa di aver detto a chiare lettere ciò che tutti vanno ripetendo da settimane a questa parte: ossia che il braccio di ferro tra Usa, Cina e Canada si risolverà non nelle aule giudiziarie ma con il raggiungimento di un’intesa tra i paesi interessati.

Il nome di Huawei è tornato in primo piano, nel frattempo, su tutt’altro fronte. Venerdì il chief executive di Vodafone Nick Read ha approfittato della diffusione dei risultati del terzo trimestre 2018 per comunicare che l’azienda ha messo “in pausa” i propri piani di acquisizione di tecnologia Huawei e la sua installazione nella parte “core” delle proprie reti. “Abbiamo deciso” questo passo, ha dichiarato Read, “mentre ci impegniamo con le varie agenzie, coi governi e con Huawei per finalizzare la situazione, sulla quale sento che Huawei è davvero aperta e alla quale sta lavorando duramente”.

Anche Vodafone, dunque, è sensibile alle preoccupazioni dell’intelligence americana circa le minacce alla sicurezza delle comunicazioni poste da Huawei, spingendola a rinunciare alle sue apparecchiature in via del tutto temporanea e solo fino a quando i governi occidentali non avranno preso una decisione definitiva. Un atteggiamento di cautela, quello di Vodafone, la quale, se non vuole compromettere la leale collaborazione con le cancellerie, non vuole nemmeno rinunciare ai vantaggi procurati da un’azienda come Huawei che mette a disposizione tecnologia affidabile e a buon mercato.

Read, non a caso, si preoccupa di sottolineare che il dibattito su Huawei è per ora “troppo semplicistico”. Nessuno vuole sottovalutare i rischi alla sicurezza, è il suo ragionamento, ma non si può neppure pensare di boicottare alla leggera un grande player che con Ericsonn e Nokia gioca un ruolo decisivo nello sviluppo della rete mobile di quinta generazione.

Huawei ha accolto la notizia con apparente distacco, sottolineando di essere uno stretto partner di Vodafone sin dal 2007. L’azienda, ha puntualizzato un suo portavoce, “è focalizzata nel supportare l’avviamento della rete 5G di Vodafone, di cui la parte core occupa una piccola proporzione. Siamo grati a Vodafone per il suo supporto a Huawei e ci adopereremo per essere degni della fiducia che viene riposta in noi”. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, è certo che per Huawei questo è un altro duro colpo in una serie che, peraltro, non sembra essere finita.

Huawei si è ritrovata anche al centro di una polemica a distanza tra il governo cinese e George Soros. Il quale ha scelto il pubblico del World Economic Forum di Davos per ammonire tutti sulla minaccia posta dal totalitarismo digitale cinese, di cui Huawei – nella sua qualità di azienda leader del settore hi-tech nell’impero di mezzo – sarà il braccio tecnologico.

Soros punta l’indice contro il presidente cinese Xi Jinping, bollandolo come “il più pericoloso oppositore delle società aperte”. La sua colpa maggiore? Voler promuovere, attraverso le tecnologie digitali, un sistema di sorveglianza capillare che, attraverso il meccanismo definito di “credito sociale”, consenta al governo di controllare a distanza i cittadini, premiandoli per i comportamenti conformi e punendoli per quelli non in linea con i desiderata del partito. Una sorta di distopia orwelliana, insomma, che deve mettere in allerta tutti i sostenitori della democrazia che Soros, attraverso la sua fondazione, appoggia ovunque nel mondo anche per contrastare le violazioni allo stato di diritto che in paesi come la Cina sono all’ordine del giorno.

Soros fornisce anche un consiglio a Donald Trump: lasci perdere i contenziosi con gli altri paesi, e si concentri su quelli con la Cina, rafforzando le misure prese contro i suoi colossi tecnologici, come Huawei e Zte, di cui Pechino si avvarrà per mettere in forma il suo progetto autoritario di controllo totale della popolazione.

Piccata la reazione della Cina alle parole del filantropo di origine ungherese. Per la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, le affermazioni di Soros sono “senza significato e indegne di confutazione”. “Speriamo”, ha auspicato la portavoce, che Soros “possa correggere il suo atteggiamento, non sia miope e abbia un’opinione obiettiva, razionale e corretta dello sviluppo della Cina”.

 

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