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Perché ora Italia e Francia in Libia devono trovare un’intesa tra Eni e Total. L’analisi di Pelanda

Pubblicato il 28/12/2019 - Start Magazine

“L’Italia in Libia si è messa contro di fatto Arabia Saudita, Egitto, Israele, gli Usa e la Russia. E’ l’ora di intrecciare relazioni solide con Haftar e non solo con Sarraj, sostenuto da Turchia e Qatar”. Parla Carlo Pelanda, analista e docente di geopolitica economica

Mentre, da Roma, si contempla impotenti la carneficina che sta avendo luogo in Libia, e ci si rende conto, ogni giorno che passa, come nell’ex colonia sia in corso un conflitto di vaste proporzioni che ha, come effetto diretto, la marginalizzazione del ruolo dell’Italia, è utile interrogarsi sulle origini di questa clamorosa débâcle della politica estera italiana.

Questo, almeno, è il suggerimento di Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di geopolitica economica. Che in questa conversazione con Start Magazine ricostruisce la genesi del fallimento dell’Italia in Libia individuandola nella decisione, da parte degli inquilini che si sono succeduti negli ultimi anni a Palazzo Chigi, alla Farnesina e nei palazzi del potere romano, di gettare tutto il nostro peso nel campo – quello di Tripoli e del Gna di Fayez al-Sarraj – che oggi appare chiaramente perdente.

Pur grave di per sé, questo errore è tuttavia figlio, sempre secondo Pelanda, di un’altra scelta incauta e poco lungimirante di Roma, rea di essersi schierata – di nuovo – dalla parte sbagliata nella grande guerra civile islamica in corso in buona parte della Mezzaluna e di cui il conflitto in Libia è solo uno dei tanti fronti.

Avendo abbracciato – per pure ragioni di lucro, osserva caustico l’analista – una fazione che annovera il danaroso emiro del Qatar, l’imprevedibile Sultano di Ankara e, soprattutto, i sostenitori dell’Islam politico della scuola dei Fratelli Musulmani, l’Italia non ha fiutato il vento che cambiava nel Mediterraneo e altrove. Vento che spira dalle sabbie dell’Arabia Saudita, e dalle sponde di un paese – l’Egitto – che Pelanda definisce addirittura “il punto di stabilità strategica di tutto il Mediterraneo” .

L’ennesima tragedia della politica italiana, insomma, nasce da marchiani errori di valutazione da emendare, secondo Pelanda, con un repentino cambio di fronte. Perderemo magari la faccia, ma il nostro interesse nazionale – leggi: Eni – sarà salvo.

Prof. Pelanda, il conflitto in Libia è ormai fuori controllo e il nostro governo non sa più dove sbattere la testa: cerca sponde ovunque, chiama al telefono premier e presidenti, lancia iniziative diplomatiche. L’impressione, francamente, è che si è perso la bussola, ancor prima della guerra. 

Sì, la situazione è drammatica ma non poteva finire altrimenti, L’Italia ha infatti sbagliato completamente lo schieramento. Si è messa cioè col perdente, anziché con i vincitori. E poi ha sbagliato del tutto l’analisi strategica, e mi spiego partendo da una domanda: qual è l’interesse chiave dell’Italia? La risposta è duplice: che l’Eni possa continuare a godere di una buona posizione, e che dalla Libia non partano profughi che mettano in difficoltà il nostro paese. L’interesse nazionale italiano, pertanto, consiste nel chiudere rapidamente questa crisi aiutando chi può vincere. Noi invece, come dicevo prima, ci siamo messi ad aiutare il perdente.

Sta dicendo che dovremmo ripudiare una linea politica di sostegno a Tripoli e al GNA adottata in piena continuità dal governo Renzi al Conte II, e fare un cambio di destriero?

La verità è che finirà proprio così. Il problema è che il nostro governo deve cambiare linea ma non sa come farlo. Tra l’altro, mi tocca ricordare che è del tutto normale in politica internazionale cambiare schieramento. E questo è proprio ciò che il nostro governo dovrebbe fare adesso che la Turchia, firmando un patto con Sarraj che apre all’intervento militare di Ankara in Libia, gli ha fornito la scusa per farlo.

Cambiare schieramento significa, anzitutto, che prima avevamo scelto quello sbagliato.

Esatto, e non solo in Libia. Mi preme ricordare che all’interno del mondo islamico è in atto da tempo una ferocissima guerra civile tra il campo dell’Islam politico guidato dai Fratelli Musulmani, dalla Turchia e dal Qatar e quello dell’Islam wahabita capitanato dall’Arabia Saudita. L’Italia ha scelto la parte minoritaria e perdente, mettendosi contro, in un colpo solo, i sauditi, l’Egitto, Israele, gli Usa e la Russia. Non riesco francamente ad individuare un solo motivo per giustificare una scelta così strampalata.

Un motivo in teoria ci sarebbe,  e porta il nome – e con esso le relative ed ingenti disponibilità finanziarie – dell’emiro del Qatar. 

Certamente. È quasi superfluo ricordare che un governo italiano del passato in cambio di un certo numero di investimenti ha sposato una linea politica che andava bene al Qatar e secondariamente alla Turchia. Sono sicuro che la nostra strategia nazionale è stata contaminata da fattori economici di tipo contingente, e quando dico contingente sto evidenziando che ciò che di primo acchito può apparire conveniente, alla lunga può danneggiare, e non poco, i nostri interessi nazionali di lungo termine.

Dobbiamo insomma scaricare l’emiro?

Non sto dicendo questo: nelle relazioni internazionali non si scarica niente e nessuno. Semplicemente, si tratta di creare nuove relazioni, in particolare con l’Egitto. Ciò che dobbiamo fare urgentemente è dichiarare Il Cairo il punto di stabilità strategica di tutto il Mediterraneo. Anche perché l’Egitto è un mercato di cento milioni di consumatori a cui sarebbe buona cosa vendere un po’ di merci italiane.

Con buona pace delle indagini sulla morte di Giulio Regeni?

Con tutto il rispetto, non possiamo prendere un caso individuale, peraltro molto ambiguo, e condizionare l’intera realpolitik dell’Italia. E la realpolitik in questo momento ci dice che dobbiamo rafforzare quanto prima i legami sia con l’Egitto che con l’Arabia Saudita, a scapito di quelli con Qatar, Turchia e in una certa misura anche con la Tunisia, dove comunque i Fratelli Musulmani, che sono al potere, stanno ben attenti a non farsi coinvolgere nella guerra civile islamica che è in corso in tutto il mondo.

Se dobbiamo cambiare schieramento, e politica, lo dobbiamo fare a ragion veduta. In questo senso, quali obiettivi perseguono i sauditi e i loro alleati nel Mediterraneo?

La Grand Strategy dell’Arabia Saudita nella regione è da sempre la stessa e si impernia sulla questione del controllo del petrolio e del gas di Libia ed Algeria, ossia di Paesi che in sede Opec, e non solo in quella, tendevano a divergere, ad essere autonomi. L’operazione franco-americana in Libia del 2011 è stata perciò vista con favore dai sauditi perché permetteva loro di prendere il controllo, attraverso l’Egitto, almeno della Libia. Va letto in questo senso, tra l’altro, anche l’accordo Opec Plus tra Arabia Saudita e Russia, che ha aumentato ulteriormente il potere saudita di definizione del prezzo del greggio a livello globale. Ebbene, per tornare al principio della nostra conversazione, la domanda che noi dobbiamo porci è la seguente: per quale motivo l’Italia non ha colto l’opportunità recata da questo interesse strategico saudita, al quale peraltro gli Usa si sono prontamente allineati? Tra l’altro, si tratta di un orientamento utile anche in funzione del contrasto della penetrazione cinese in Africa. Tutto questo ci fa capire come l’errore del nostro precedente governo, che per pochi soldi ha venduto la posizione internazionale dell’Italia, è di proporzioni colossali.

Cosa dovrebbe fare dunque Roma?

Giacché l’imperativo è riorganizzare l’interesse nazionale, il governo deve anzitutto dire riservatamente a Eni e Total di mettersi d’accordo sul petrolio libico. All’Italia infatti conviene andare d’accordo con la Francia sulla politica del Mediterraneo e dell’Africa settentrionale. La Francia è un Paese poco affidabile, questo è vero, però è anche in forte difficoltà, visto che gli Usa vogliono ritirare i loro uomini dall’Africa occidentale dove i francesi fanno sempre più fatica a mantenere l’ordine. Tutto questo significa che è il momento, per francesi e italiani, di trovare un’intesa, che coinvolga anzitutto le rispettive compagnie petrolifere. Tutto questo deve avvenire, ripeto, nell’ambito di un ribaltamento dell’orientamento internazionale dell’Italia, che deve schierarsi con la parte vincente in Libia.

Per ottenere cosa?

Anzitutto, dobbiamo chiederci cosa ci interessi in Libia. A noi interessano sostanzialmente due cose. La prima è che ci sia un potere forte che sia in grado di tenere sotto controllo il Paese e le bande dei trafficanti di esseri umani, e con il quale si possano instaurare delle normali relazioni diplomatiche. La seconda cosa che ci interessa è firmare un accordo con questo nuovo regime che tuteli gli interessi delle nostre aziende in Libia, e dell’Eni in particolare. E siccome la Francia ha combattuto con l’intento di buttar fuori l’Eni dalla Libia, il passo successivo da fare è promuovere la spartizione del sistema tra Roma e Parigi.

In merito a quest’ultimo punto, chi dovrebbe gestire una simile trattativa? Il nostro ministro degli Esteri Di Maio o il n. 1 di Eni Claudio Descalzi?

Lo farà chi ha il potere reale in Italia, che non è né Di Maio né Descalzi.

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