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Russiagate e Fbi. Perché i trumpiani sfruculieranno l’ambasciata Usa in Italia

Pubblicato il 19/02/2020 - Start Magazine

Il potente presidente della Commissione Giustizia del Senato e gran confidente di Trump, il repubblicano Lindsey Graham, ha inviato all’Attorney General William Barr una lista di nomi da convocare in audizione. Tra questi anche Kieran Ramsey, attaché legale dell’Fbi presso l’ambasciata di Roma all’epoca delle elezioni presidenziali del 2016.

In questi giorni negli Usa non sta entrando nel vivo solo la campagna per le presidenziali.

Sullo sfondo della disfida tra trumpiani e anti-trumpiani si sta rianimando infatti una lotta ancor più spietata tra i due campi che riguarda un nodo irrisolto della politica americana chiamato Russiagate.

L’indagine condotta dall’ex procuratore speciale Mueller non è riuscita a dimostrare la teoria – che per due anni interi ha tenuto in fibrillazione l’amministrazione Trump oltre ad avvelenare i pozzi della politica Usa – di una macchinazione Trump-Russia per sabotare le presidenziali del 2016 e, in particolare, la vittoria della candidata rivale Hillary Clinton.

La mancata incriminazione del presidente non ha solo segnato una vittoria piena per Trump e la fine delle speranze di farlo cadere per via giudiziaria (proseguite in realtà con la breve e altrettanto sterile parabola dell’impeachment sul caso Ucraina). Ha, soprattutto, innescato la reazione uguale e contraria dell’indagato nonché di tutti coloro che, negli anni della cosiddetta “caccia alle streghe” (Trump dixit),, hanno non solo difeso l’operato dell’immobiliarista newyorchese, ma anche sostenuto che, se complotto c’è stato, non è partito dal quartier generale della campagna elettorale del candidato Trump bensì dal famigerato “Deep State”.

Della contro-teoria del campo trumpiano si sa tutto o quasi grazie alle rivelazioni dell’ex consigliere di Trump George Papadopulos. Il primo uomo a finire in carcere nell’indagine di Mueller è stato infatti anche colui che più si è adoperato per far venire a galla quella che, da quelle parti, viene considerato il grande schema disegnato da Obama in persona e attuato dai suoi zelanti sottoposti al Dipartimento di Giustizia, nell’Fbi e in chissà quali altri rami dell’intelligence a stelle e strisce per “incastrare” Trump con la falsa accusa di collusione con Mosca.

È dopo la diffusione dell’inconcludente rapporto Mueller che i sostenitori della teoria di un complotto ai danni di Trump hanno non solo alzato prepotentemente la voce, ma ottenuto anche una preziosa sponda istituzionale nella persona dell’attuale Attorney General William Barr. Il cui primo atto pubblico dopo la chiusura delle indagini di Mueller è stato l’avvio di una contro-inchiesta, affidata al procuratore del Connecticut John Durham, finalizzata a portare a galla i presunti misfatti – spionaggio incluso – commessi a danno di Trump e collaboratori.

Fu in questo contesto che Barr in persona mise piede per ben due volte a Roma per interloquire – in un modo talmente irrituale da irritare e insospettire mezza politica italiana – con il premier Conte e i vertici della nostra intelligence, cui Barr chiese conto del destino del misterioso professore maltese della Link University di Roma, Joseph Mifsud, che lo stesso rapporto Mueller inquadrò come colui che mise a disposizione di Papadopoulos le famose mail hackerate di Hillary Clinton. Materiale imbarazzante che, infilato astutamente nella tasca di Trump, lo avrebbe dovuto squalificare agli occhi degli americani o, peggio, condurre in galera con un’accusa infamante.

La contro-teoria vuole che Misfud – presentatosi a Papadopoulos come un uomo ammanicato con Mosca e per questo già sospettato di essere una spia al soldo di Putin – fosse stato in realtà un asset dell’intelligence italiana, mobilitata a sua volta da quella americana che, a sua volta, riceveva ordini da Obama in persona (con la complicità, sottolineano i teorici, del nostro ex premier e gran obamiano d’Italia Matteo Renzi).

Molti mesi sono trascorsi dal duplice passaggio in Italia di Barr, e la maggior parte della stampa italiana non solo ha già dato per acclarata l’infondatezza della contro-storia trumpiana, ma ha dipinto l’inchiesta di Barr proprio come Trump ha fatto con quella di Mueller: come una farsa.

Che sia o meno una farsa, non solo sta continuando ma si allarga sempre di più, come si evince da un lancio Adnkronos che ci ha informato di un nuovo sviluppo giudiziario.

A mobilitarsi, questa volta, è stato il potente presidente della Commissione Giustizia del Senato e gran confidente di Trump, il repubblicano Lindsey Graham. Che in una lettera indirizzata a Barr ha stilato un elenco di nomi di funzionari del Dipartimento di Giustizia e dell’Fbi che saranno auditi per urgenti chiarimenti sulla gestione delle indagini condotte quattro anni fa nell’ambito dell’operazione denominata “Crossfire Hurricane“:

 

Le convocazioni appaiono, a ben vedere, come la conseguenza diretta dell’indagine interna al Dipartimento di Giustizia ordinata l’anno scorso da Barr e affidata all’ispettore generale Michael Horowitz. Nel cui rapporto conclusivo consegnato a dicembre sono elencate, ricorda la commentatrice trumpiana Sara Carter, “diciassette significative inaccuratezze o omissioni” commesse dal Dipartimento nell’emettere i cosiddetti mandati FISA, quelli che autorizzano lo spionaggio e le intercettazioni nei confronti di cittadini americani sospettati di crimini federali.

Il nome che viene a galla qui come presunta vittima della trama, oltre a quello di Papadopoulos, è quello di Carter Page, collaboratore della prima ora di The Donald finito al centro della tempesta del Russiagate.

A saltare agli occhi, nella lista di funzionari che Graham ha convocato al Campidoglio, è un nome in particolare: quello di Kieran Ramsey, che ricoprì l’incarico di attaché legale dell’Fbi presso l’ambasciata di Roma all’epoca delle presidenziali Usa 2016.

La presenza delle generalità di Ramsey nella missiva di Graham significa di fatto che si riapre in grande stile il filone italiano della contro-inchiesta trumpiana. Un filone dove si intravede – stando ad una fonte non proprio affidabilissima come il blog iper-conservatore Gateway Pundit che però non perde mai un colpo quando si tratta di denunciare le nequizie dei detestatissimi Dem –  i lineamenti di una personaggio ben nota all’opinione pubblica italiana: Giulio Occhionero, di cui il blog riporta un tweet entusiasta per le buone notizie giunte dall’America:

 

 

Nella convinzione di Gateway Pundit, il filo che unisce il Russiagate, Occhionero e Ramsey (e che configurerebbe la ramificazione italiana del Gran Complotto ai danni di Trump) sarebbe la manovra che l’intelligence italiana ha fatto cinque anni fa ai danni di Occhionero – le cui simpatie verso il partito di Trump non erano un segreto – tentando di hackerare due server della sua azienda (ubicati rispettivamente nello Stato di Washington e in West Virginia) al fine di inserirvi le famose mail di Hillary.

Il piano, a quel punto, prevedeva l’intervento dell’Fbi e la “scoperta” del materiale compromettente, che sarebbe ovviamente equivalso ad una prova schiacciante di una macchinazione internazionale ordita dai compagni di merende Trump (o chi per lui) e Occhionero per impedire alla Clinton di diventare la prima presidente donna degli Usa.

Siamo, ovviamente, nel campo delle ipotesi e anche di quelle più spericolate. Occhionero, tuttavia, non sta nella pelle e intravede all’orizzonte la nemesi per tutti coloro che in questi anni l’hanno ritratto come un gran intrallazzatore.

Graham, d’altra parte, non è tipo da mobilitarsi per una barzelletta. Per cui sarà bene restare sintonizzati sulle frequenze della Commissione Giustizia del Senato Usa, da cui potrebbe presto scaturire l’ultimo dei fuochi d’artificio che agitano la politica Usa da quando The Donald ne è diventato il gran mattatore.

Se poi si scoprirà che quei fuochi d’artificio sono almeno in parte made in Italy, beh, qualche successiva detonazione dalle parti di Palazzo Chigi o del quartier generale della nostra intelligence sarà nelle cose.

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