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Trump pronto a incontrare Rohuani. Ma l’Iran non è la Corea del Nord

Pubblicato il 31/07/2018 - Formiche

A meno di dieci giorni da quando ha inviato all’attenzione del presidente iraniano Hassan Rouhani un tweet al vetriolo in cui minacciava l’Iran di serie “conseguenze” qualora avesse persistito a minacciare gli Usa, Donald Trump cambia approccio e si dice pronto ad incontrare il suo collega iraniano e a discutere con lui “senza precondizioni”.

La svolta matura a Washington ieri durante la conferenza stampa con il primo ministro italiano Giuseppe Conte. “Se vogliono che ci incontriamo”, ha dichiarato Trump ai giornalisti, “ci incontreremo”. “Mi incontrerei con chiunque, credo negli incontri”, ha aggiunto il tycoon, sottolineando i benefici del dialogo con Teheran “specialmente quando si sta discutendo del potenziale di una guerra o della morte e della carestia e di un sacco di altre cose”.

Trump ammette di non sapere se in Iran “sono pronti” per l’eventualità di un summit, ma si dice convinto che “alla fine probabilmente vorranno un incontro e sono pronto ad incontrarli in qualsiasi momento lo desiderino”. Sarà una discussione “senza precondizioni”, precisa il capo della Casa Bianca, che si dice sicuro che i risultati raccolti saranno “buoni per il Paese, per loro, per noi e per il mondo”.

La Casa Bianca più tardi ha confermato l’intenzione del presidente, chiarendo tuttavia che la sua disponibilità ad incontrare Rouhani non muta la linea dura attualmente adottata dall’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale, per bocca del suo portavoce Garret Marquis, ha precisato che ogni distensione, e conseguenti azioni di apertura da parte di Washington, sono subordinate a “tangibili, dimostrati e prolungati cambiamenti nelle politiche di Teheran”, senza i quali “le sanzioni diventeranno sempre più penose fino a quando il regime non cambia rotta”.

Al di là della disponibilità di massima ad un pour parler tra Rouhani e Trump, i segnali che giungono dall’amministrazione Trump confermano la linea che numerosi suoi esponenti, dal Segretario di Stato Mike Pompeo al Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, hanno ribadito in più occasioni: l’obiettivo di qualsiasi iniziativa diplomatica è ottenere dei “cambiamenti nel comportamento del governo iraniano”.

Più che senza precondizioni, l’incontro al vertice tra Iran e Stati Uniti sarebbe dunque vincolato al rispetto di precisi adempimenti da parte di Teheran. Adempimenti che Pompeo ha chiarito il giorno prima in un’intervista all’emittente Cnbc. “Se gli iraniani”, ha dichiarato l’ex capo della Cia, “dimostrano l’impegno a compiere cambiamenti fondamentali nel modo in cui trattano il loro stesso popolo, ridurre il loro comportamento maligno, essere d’accordo che è opportuno siglare un accordo nucleare che prevenga effettivamente la proliferazione, allora il presidente ha detto che è pronto a sedersi con loro e avere una discussione”.

Il pensiero sull’Iran di falchi come Pompeo è ben noto alle varie anime della dirigenza di Teheran. Alcune delle quali non a caso non mangiano la foglia. Come ha sottolineato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Bahram Qasemi, un dialogo con gli Stati Uniti a queste condizioni è fuori discussione. “L’Iran non terra’ mai negoziati bilaterali con gli Stati Uniti sotto l’ombra delle minacce”, tuona Qasemi. “La nazione iraniana”, aggiunge, “non ha mai e non esiterà mai un momento a difendere i diritti del suo popolo, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Iran di fronte a richieste, dominazioni e pressioni eccessive”. Il portavoce del ministero degli Esteri ha sottolineato che gli Stati Uniti non “potranno mai sperare nella possibilità di organizzare negoziati bilaterali con l’Iran sotto l’ombra delle minacce nel tentativo di far avanzare le loro richieste eccessive”. Secondo Qasemi, Washington deve essere consapevole che “il mondo di oggi e l’era attuale non sono posti per il dominio, il bullismo o l’unilateralità”.

Più possibilista, invece, la presidenza della Repubblica. Hamid Aboutalebi, consigliere di Rohani, ha dichiarato oggi che qualsiasi eventuale trattativa con gli Stati Uniti dovrà essere basata sul “rispetto della grande nazione iraniana”, sulla “riduzione delle ostilità” e, soprattutto. sul “ritorno degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare. Questo serve per mettere fine al caos del momento”. Aboutalebi ricorda la telefonata di Obama a Rouhani nel 2013, quando per la prima volta dalla Rivoluzione del 1979 si ruppe il ghiaccio tra i vertici dei due paesi, per sottolineare che ogni iniziativa tesa al dialogo porterà i suoi frutti, esattamente come quella chiamata tra i due presidenti fece da preludio alla sigla dell’Iran deal.

L’iniziativa personale di Trump non sposta comunque di una virgola l’approccio della Casa Bianca.

L’Iran rimane il nemico numero uno degli Stati Uniti, pronti a ingaggiare una lunga battaglia di attrito con la Repubblica islamica a colpi di sanzioni e di tentativi di isolamento. Lo scopo finale resta lo stesso che Pompeo annunciò a maggio in un lungo discorso in cui illustrò i 12 punti su cui dovrebbe basarsi un’intesa con Washington: condizioni che equivarrebbero ad una capitolazione per l’Iran e porrebbero probabilmente le premesse per una caduta del regime.

Sin da quando hanno preso in considerazione l’uscita dall’Iran Deal, avvenuta su decisione presidenziale l’8 maggio scorso, gli Stati Uniti hanno deciso di esercitare la massima pressione nei confronti del regime. Una politica durissima che contempera sanzioni economiche e isolamento diplomatico con il fine di piegare gli ayatollah e indurli a negoziare un nuovo accordo con Washington che non solo regolamenti la questione nucleare, ma metta un freno all’avventurismo militare iraniano in Medio Oriente.

Trump sembra ora scommettere che il suo intervento personale, il suo talento di negoziatore, possano portare a casa il risultato. La sua mossa assomiglia a quella intrapresa con Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano con il quale ha trascorso un anno intero a scambiare insulti e minacce salvo incontrarsi a tu per tu nella cornice di Singapore lo scorso 12 giugno e dichiarare concluse le ostilità reciproche.

Ma una soluzione coreana al problema iraniano è improbabile per una lunga serie di motivi. Anzitutto, perché l’Iran non è come la Corea del Nord uno stato verticistico, in cui un uomo solo è al comando e può disporre della politica dello Stato secondo il suo solo desiderio, ma è una repubblica policentrica in cui la figura del Presidente condivide la scena con altri organi e figure istituzionali che competono per dare l’indirizzo alle politiche governative. Le dichiarazioni di Qasemi sono la riprova che, in Iran, esiste una dialettica politica molto vivace ed aspra, che rende difficile il raggiungimento del consenso su qualsiasi punto, figurarsi su una questione divisiva come i rapporti con Washington.

Il secondo motivo è che, per quanto spettacolare possa rivelarsi agli occhi dei media e dell’opinione pubblica globale, un vertice tra Stati Uniti e Iran sarebbe rapidamente oggetto di scherno in un Paese che è solito etichettare l’America come “il grande Satana” che ordisce ogni genere di trama per sabotare il progetto rivoluzionario della Repubblica islamica. È facile pensare che anche l’iniziativa del presidente Trump sarebbe immediatamente etichettata come una colossale provocazione, specialmente perché espressa da un Paese che, a tradimento, è uscito dall’Iran Deal contro il parere contrario di tutti gli altri contraenti.

In terzo luogo, bisogna tenere conto dei prevedibili malumori degli alleati degli Stati Uniti, uniti nella comune avversione nei confronti dell’Iran e dai timori delle sue mosse sul quadrante mediorientale. Dall’Arabia Saudita ad Israele, sono numerosi i Paesi della regione che vedono di buon occhio il logoramento delle relazioni tra Washington e Teheran, dopo la luna di miele di Obama, e contano ora sul fattivo sostegno dell’America per esercitare un’azione di contrasto delle mosse iraniane su tutti i fronti.

Insomma, l’ultima dichiarazione di Trump è perfettamente in linea con lo stile di leadership del magnate newyorchese, e con la sua ricerca di soluzioni spettacolari ai problemi complessi che la superpotenza deve affrontare su tutti i quadranti del pianeta. Ma la possibilità di un momento alla Kim con l’Iran è qualcosa che, almeno per il momento, resterà nel cassetto dei sogni. Salvo sorprese.

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