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Trump fra Cina e Hong Kong. Il Taccuino estero di Orioles

Pubblicato il 14/10/2019 - Policy Maker

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, lo sbloccarsi dei colloqui commerciali tra Usa e Cina che, abbandonato l’approccio del tutto e subito, si accontentano della “fase 1” di un accordo per ora solo verbale ma condito da acquisti multimiliardari di beni agricoli. Nella sezione “notizie dal mondo”,  la decisione di Apple di rimuovere una app invisa a Pechino e di far scomparire dagli Iphone venduti a Hong Kong l’emoji con la bandiera di Taiwan…

PRIMO PIANO

Giunta alla sua tredicesima puntata, la saga dei trade talks – i colloqui commerciali che da quasi un anno stanno impegnando a corrente alternata Usa e Cina sullo sfondo di una guerra senza quartiere a colpi di dazi, ritorsioni e minacce di ogni tipo – ha partorito venerdì nell’ordine una tregua, una mini-intesa ancora parziale e solo verbale, e soprattutto la prospettiva di mettere finalmente nero su bianco un deal definitivo di qui ad un mese.

L’annuncio l’ha fornito dalla Casa Bianca un raggiante Donald Trump, lieto di rendere noto ai suoi elettori che, dopo due giorni di negoziato a Washington tra i suoi ministri e consiglieri e il plenipotenziario di Pechino, il vicepremier Liu He, America e Cina sono arrivati alla “fase 1” di un accordo.

Con Liu al suo fianco nella cornice solenne dello Studio Ovale, il presidente ha spiegato ai reporter che dopo 48 ore di confronto serrato le due delegazioni hanno “raggiunto un’intesa (sulla tutela della) proprietà intellettuale (e) sui servizi finanziari”, coronata da “un tremendo affare per gli agricoltori (americani) – un acquisto di 40-50 miliardi di dollari di prodotti agricoli”.

Il giubilo presidenziale si è riversato subito dopo su Twitter, dove il capo della Casa Bianca ha esaltato “il più grande accordo mai fatto nella storia del nostro paese per i nostri grandiosi patrioti agricoltori”:

Come ha chiarito uno dei protagonisti della trattativa, il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, con quell’impegno di spesa la Cina raddoppia di fatto l’ammontare di acquisti di beni agricoli made in Usa fatti nel 2017, quando aveva toccato la soglia di 24 miliardi di dollari, prima di precipitare a causa dell’innescarsi della guerra commerciale.

Un risultato significativo dunque per il tycoon – cui preme ovviamente molto, in chiave di rielezione, il voto degli Stati della Farm Belt – che non è riuscito a fare a meno di celiare con Liu che gli agricoltori americani “ora hanno davanti molto lavoro extra”.

Mentre le agenzie di stampa battevano queste notizie, il Dipartimento dell’Agricoltura Usa diffondeva dati che confermano la linea scelta da Pechino di rabbonire Trump facendo man bassa di prodotti agricoli americani: sono 142,172 le tonnellate di carne di maiale acquistate da Pechino nella settimana terminata lo scorso 3 ottobre, cifra che per Reuters rappresenta “il più grande acquisto settimanale di sempre nel mercato principale mondiale della carne di maiale”.

L’intesa raggiunta venerdì inciderà anche su un altro capitolo importante dell’export agricolo Usa che ha patito la bellicosità tra le due superpotenze: quello della soia. Ancora Reuters ricorda che, dopo aver chiuso nel mese di agosto l’annata 2018/19 con acquisti di soia pari a 13 milioni di tonnellate, la Cina ne ha comprate altri cinque milioni nelle ultime settimane. Fatta la somma, siamo ben lontani dai 30 milioni di tonnellate che Pechino era solita comprare negli Usa prima che le due nazioni arrivassero ai ferri corti.

Di fronte all’impegno cinese di tornare, da questo punto di vista, ai bei tempi antichi e possibilmente di fare di più, Washington ha ben potuto mostrarsi magnanima, rinunciando al programmato aumento dal 25% al 30% dei dazi sui 250 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina che sarebbe dovuto scattare domani.

Come però ha chiarito un secondo protagonista dei colloqui commerciali, il Rappresentante Usa al commercio Robert Lightizer, nessuna decisione è stata presa sui nuovi dazi su altri 160 miliari di dollari di merci cinesi che dovrebbero entrare in vigore il prossimo 15 dicembre. Né sono stati fatti passi indietro sulle tariffe introdotte nei mesi precedenti, che colpiscono attualmente 360 miliardi di dollari di beni prodotti in Cina destinati al mercato Usa.

La ragione di ciò è presto detta e l’ha colta bene Patrick M. Cronin, analista dell’Hudson Institute, in un commento scritto per The Hill. Al di là degli effetti speciali, quello raggiunto venerdì è per Cronin un accordo “magro” (skinny) che affronta solo in parte, e dunque non risolve una volta per tutte come l’amministrazione Trump si era proposta all’alba della guerra commerciale, quelli che l’influente consigliere di Trump sulle questioni del commercio, Peter Navarro, ha definito i “sette peccati capitali” del modello economico cinese: questioni come il furto di tecnologie e della proprietà intellettuale, la manipolazione della valuta, l’accesso asimmetrico ai rispettivi mercati, fino ai sussidi e al sostegno dello Stato ai campioni nazionali della manifattura.

Quella degli Usa sembra dunque una sorta di rinuncia ai grandi disegni di riforma integrale, da perseguire in un colpo solo, del sistema capitalistico cinese, sostituiti da un approccio graduale che è ben visibile nella scelta del termine “fase uno”. A chiarire il senso della svolta ci ha pensato lo stesso Trump, sottolineando durante l’incontro alla Casa Bianca con Liu che “farlo (l’accordo con la Cina) in sezioni, in fasi, è davvero meglio. (…) Così avremo o due, o tre fasi”.

Sia come sia, in questa fase 1 i due contendenti sembrano fare dei piccoli passi in avanti su alcune questioni dirimenti, anche se al momento solo in forma verbale. Lo ha confermato lo stesso Mnuchin, parlando di un “accordo fondamentale su alcuni temi chiave” che richiederà almeno cinque settimane di ulteriore lavoro per poter essere sigillato e trascritto.

Tra gli elementi sui cui si sarebbe registrata una prima convergenza, l’Associated Press segnala l’impegno di Pechino ad essere più trasparente nella gestione della sua valuta.

Si tratta di un tema non di second’ordine visto dalla prospettiva di un paese, gli Usa, che da tempo accusa la Cina di barare con lo yuan per mantenere il proprio margine competitivo, e che ad agosto ha fatto addirittura il passo choc di designare formalmente Pechino come un “manipolatore di valuta”.

Tra gli altri elementi di questa intesa embrionale ci sarebbe poi, sempre a detta di Mnuchin, la decisione di Pechino di aprire il proprio mercato alle banche e ai servizi finanziari Usa.

Secondo le fonti di Reuters, si sarebbe registrato un avvicinamento anche sulla questione della proprietà intellettuale, dove sarebbero allo studio delle misure di protezione del copyright e del trademark e specifici provvedimenti anti-pirateria.

A rimanere fuori da questa cornice è invece il nodo Huawei. “Non è parte di questo accordo”, ha confermato Lightizer, parlando di un “processo separato” e facendo dunque intuire che gli Usa si riservano di usare la disputa sul colosso delle tlc cinesi come il classico bargaining chip. 

Sebbene sia presto, dunque, per vedere la luce in fondo al tunnel della guerra commerciale, questo barlume non solo schiude la porta a sviluppi positivi, ma ha l’effetto di riportare il barometro dei rapporti tra Usa e Cina verso il bel tempo. Con la consueta enfasi, Trump si è spinto a parlare di una vera e propria “lovefest” tra i rispettivi Paesi,  mentre persino il più cauto Liu, rimarcando “i sostanziali progressi in molti campi” raggiunti negli ultimi giorni, si è detto “felice”.

E ci sarebbe già il luogo e la data per far compiere ulteriori progressi al negoziato e, magari, portarlo a conclusione con un onorevole compromesso: si tratta del summit APEC che si terrà in Cile il mese prossimo. Bruciando tutti sul tempo, la reporter della CNN Cristina Alesci ha rivelato su Twitter che i cinesi hanno invitato Lightizer e Mnuchin ad approfittare del vertice per un nuovo giro di colloqui.

E giacché a Santiago del Cile è prevista anche la presenza sia di Trump che del collega cinese Xi, c’è già chi scommette che i due ne approfitteranno per apporre la propria firma all’intesa e far scoppiare la pace.

Ma come insegna il saggio, mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo catturato.


TWEET DELLA SETTIMANA

Il premier etiope Abiy Ahmed Ali ringrazia il Comitato di Oslo per il Nobel per la Pace attribuitogli la settimana scorsa, dedicando il prestigioso (e meritato) riconoscimento al suo Paese e all’intero continente africano.


NOTIZIE DAL MONDO

 

Apple rimuove una app che mappava le proteste a Hong Kong (mentre negli Iphone di Hong Kong scompare l’emoji con la bandiera di Taiwan)

Ne aveva approvato il 4 ottobre la distribuzione sul proprio App Store, e nel giro di pochi giorni era finita in cima alla lista delle app della categoria viaggi scaricate a Hong Kong dagli smartphone con sistema operativo Ios. Ma le proteste della Repubblica Popolare – e la logica stringente che passa sotto il nome di business is business –hanno fatto rapidamente cambiare idea agli eredi di Steve Jobs.

Pertanto, come riferisce il South China Morning Post, a partire da giovedì scorso gli utenti Apple non trovano più nell’App Store, né dunque possono scaricare sul loro Iphone, la app HKmap.live, che aggiornava in tempo reale i propri utenti sui luoghi di Hong Kong in cui erano in corso le proteste e gli scontri con la polizia.

“Abbiamo appreso – si legge nel comunicato diffuso da Cupertino – che un’app, HKmap.live, è stata usata in un modo che mette a repentaglio il rispetto della legge e i residenti di Hong Kong. (…) Questa app viola le nostre linee guida e le leggi locali, e l’abbiamo rimossa dall’App Store”.

HKmap.live è comunque ancora accessibile nella versione web, mentre gli utenti Android possono scaricarla tranquillamente da Google Play.

Pochi giorni prima di prendere questa decisione, Apple era stata oggetto di un durissimo attacco da parte del Quotidiano del Popolo, che in un commento accusava la app in questione di “agevolare comportamenti illegali”.

“Apple sta guidando i teppisti di Hong Kong?”, si chiedeva il giornale che, com’è noto, segue alla lettera la linea del Partito Comunista Cinese. “Questa sconsideratezza”, concludeva il quotidiano, “provocherà molti guai a Apple. Apple farebbe bene a pensarci a fondo”.

Nelle stesse ore, durante la consueta conferenza stampa, il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Geng Shuang, si era rifiutato di rispondere a chi gli aveva chiesto se il governo avesse domandato esplicitamente ad Apple di far sparire la app. Ma aveva lasciato chiaramente intendere quale fosse il pensiero al riguardo dell’esecutivo e del partito.

“Chiunque abbia una coscienza e il senso della giustizia – ha infatti tuonato Geng – dovrebbe (…) opporsi anziché appoggiare e favorire (…) i crimini violenti a Hong Kong (che ne) sfidano seriamente il sistema legale e l’ordine sociale, minacciano la sicurezza e le proprietà dei residenti di Hong Kong e minano la prosperità e la stabilità di Hong Kong”.

La scomparsa di HKmap.live non è l’unica notizia fresca che riguarda Apple, Hong Kong e Pechino. Da qualche giorno a questa parte, dalle tastiere degli Iphone di Hong Kong che hanno incorporato l’ultima versione di iOS è scomparsa l’emoji con la bandiera di Taiwan, che fino ad oggi era disponibile agli utenti di tutto il mondo con la rilevante eccezione di quelli che abitano entro i confini della Cina.

La scoperta l’ha fatta il sito Emojipedia, che ne ha approfittato per ricordare un’altra anomalia che riguarda stavolta PayPal: il gigante dei pagamenti on line accosta da tempo al nome di Taiwan non la bandiera della provincia ribelle che Pechino vuole riannettere, ma un anonimo globo terrestre stilizzato.

È appena il caso di ricordare che la Cina rappresenta per Apple il secondo mercato dopo gli Usa e che il suo CEO Tim Cook già nel 2013 prevedeva il sorpasso. Nelle fabbriche del Dragone viene assemblata la maggior parte degli Iphone e degli Ipad successivamente commercializzati da Apple; in altri stabilimenti cinesi sono inoltre realizzati componenti per i computer Mac Pro che sono poi assemblati in Texas.

Le vendite di Apple in Cina hanno registrato nel secondo quadrimestre del 2019 una flessione del 4%.

 

La scarcerazione del candidato alla presidenza tunisina Karoui non basta per fermare la vittoria del rivale Saied

 Le porte del carcere per Nabil Karoui si sono schiuse mercoledì, dopo un mese e mezzo di detenzione, alla vigilia del ballottaggio per le presidenziali che si è svolto ieri e in cui il magnate dei media, secondo gli exit poll, è stato ampiamente battuto dall’indipendente Kais Saied.

Karoui dovrà in ogni caso affrontare un processo, di cui non è stata ancora fissata la data, e rispondere delle accuse, da cui si dichiara innocente, di riciclaggio e frode fiscale. I suoi beni rimangono sotto sequestro e non gli è consentito di lasciare il Paese.

La decisione del tribunale ha consentito a Karoui di prendere parte al dibattito televisivo con il suo sfidante, opportunità che gli era stata preclusa, a causa delle misure cautelari prese nei suoi confronti, nel dibattito tv andato in onda prima della celebrazione del primo turno alla presenza degli altri 26 candidati.

La settimana scorsa, il presidente ad interim Mohamed Ennaceur aveva sottolineato come la detenzione di Karoui e la sua impossibilità a condurre la campagna elettorale avessero danneggiato la credibilità delle elezioni.

La commissione elettorale aveva invocato la liberazione di Karoui, facendo sapere che, in caso contrario e nell’eventualità di una sua sconfitta alle urne, Karoui non solo avrebbe potuto presentare ricorso, ma il risultato del voto poteva essere invalidato.

 

In Ruanda i primi smartphone “made in Africa”

Il Mara Group, azienda ruandese, ha lanciato lunedì scorso due modelli di smartphone che ha presentato al pubblico come i primi “made in Africa”.

Si chiamano “Mara X” e “Mara Z”, adottano il sistema operativo Android e saranno venduti rispettivamente al prezzo di 175.750 e 120.250 franchi ruandesi (pari a 190 e 130 dollari). Dovranno competere in un mercato dominato dalla coreana Samsung, il cui modello più economico costa 50.000 franchi ruandesi (54 dollari) e da smarthpone non brandizzati il cui prezzo scende fino a 35.000 franchi (37 dollari). Ma il CEO di Mara Group, Ashish Thakkar, confida negli acquisti di clienti che badano più alla qualità che al prezzo.

Visitando per l’occasione i nuovi stabilimenti del gruppo, costati 24 milioni di dollari, dove saranno prodotti ogni giorno 1.200 esemplari di Mara X e Mara Z, il presidente del Ruanda Paul Kagame ha espresso l’auspicio che grazie all’intraprendenza di Mara Group la percentuale di ruandesi in possesso di telefono mobile possa superare presto l’attuale soglia del 15%.

Mara Group spera ora di poter diventare un hub tecnologico di prim’ordine nel continente africano, confidando anche sulla spinta che deriverà dal lancio dell’African Continental Free Trade Agreement.

 


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