La tragica vicenda di Cecilia De Astis, la 71enne investita e uccisa a Milano da un’auto rubata guidata da quattro minori rom, ha riacceso il dibattito sulla “questione rom” in Italia. Puntuale la reazione del leader della Lega Matteo Salvini che ha invocato la consueta “ruspa”. Approcci del genere tuttavia non solo rischiano di alimentare stereotipi e polarizzazioni, ma ignorano le radici storiche, sociali ed economiche di una questione che richiede metodi articolati e lungimiranti. I rom in Italia, stimati in circa 180.000 persone dal Consiglio d’Europa, vivono in condizioni di estrema marginalità. A parte un ristretto numero di nuclei che si sono assimilati, la maggior parte risiede in insediamenti formali o informali, dove le condizioni di vita sono segnate da degrado, povertà e mancanza di accesso ai servizi essenziali. Caratterizzati da sporcizia e abbandono, questi contesti favoriscono l’esclusione sociale e, in alcuni casi, comportamenti devianti, specialmente tra i minori lasciati senza adeguata supervisione. Nel dopoguerra i rom in Italia come in altre parti d’Europa non sono mai stati riconosciuti come minoranza linguistica o culturale, a differenza di altre comunità. Questo vuoto ha contribuito a relegarli ai margini, lontani dal tessuto urbano e sociale. Oggi, la povertà educativa è uno dei nodi centrali. Molti bambini rom, come quelli coinvolti nella tragedia di Milano, crescono in contesti dove l’accesso alla scuola è limitato o inesistente. Il ministro dell’Istruzione Valditara ha sottolineato come il “degrado” e la “mancanza di istruzione” siano fattori che alimentano illegalità e devianza. Il decreto Caivano, citato da Valditara, mira a contrastare l’abbandono scolastico con sanzioni ai genitori, ma la sua applicazione rimane incerta, specialmente in contesti complessi come i campi rom. La mancanza di residenza anagrafica condanna tra l’altro molti bambini rom all’“invisibilità” burocratica, impedendo loro l’accesso a diritti fondamentali come l’istruzione. Sul piano economico e sociale, i rom sono spesso intrappolati in un circolo vizioso. La maggior parte sperimenta inesistenti o limitate opportunità lavorative, spesso a causa di discriminazioni legate alle origini, ai cognomi e spesso alle apparenze. I campi, sia autorizzati che abusivi, sono il risultato di politiche locali che, invece di favorirne l’inclusione, hanno confinato i rom in spazi isolati, rendendo l’integrazione un obiettivo lontano. La strategia di sgombero senza alternative abitative concrete rischia di spostare il problema altrove, senza risolverlo, come si è fatto in altri contesti collocando i nuclei rom nelle case popolari. Un approccio più costruttivo dovrebbe puntare su tre pilastri: istruzione, inclusione lavorativa e superamento dei campi. L’istruzione obbligatoria deve essere garantita, con interventi mirati per i minori rom, come programmi di supporto scolastico e mediatori culturali. Sul piano lavorativo, servono politiche che contrastino la discriminazione sistematica e favoriscano l’inserimento in circuiti economici regolari. Infine, il modello dei campi rom è un ostacolo all’integrazione e dovrebbe essere superato attraverso soluzioni abitative dignitose. La tragedia di Milano non può essere ridotta a un’occasione per alimentare l’odio o la propaganda. I quattro minori coinvolti sono essi stessi vittime di un sistema che li ha lasciati crescere in un contesto di degrado. Piuttosto che “ruspe”, servono politiche che spezzino il ciclo di emarginazione, offrendo ai rom, e soprattutto ai loro bambini, un futuro diverso. Solo così si potrà evitare che drammi come quello di Cecilia De Astis si ripetano, trasformando il dolore in un’occasione per costruire una società più inclusiva.
Marco Orioles