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Saggi

11 Settembre 2001: davanti ai nostri occhi

INDICE

  1. Sei mesi dopo la “nuova Pearl Harbor”
  2. Quei diciotto minuti
  3. Un lungo pomeriggio
  4. 1963: un lontano paragone
  5. New York-Italia
  6. Note

1. Sei mesi dopo la “Pearl Harbor del nuovo millennio”

Pochi giorni prima che la riflessione presentata in queste pagine venisse conclusa, ricorreva il sesto mese dal blitz terroristico dell’11 Settembre 2001. Ancora vivo nella memoria di tutti noi, il ricordo – che evochiamo con le parole di Igor Man – dell’«inimmaginabile exploit di Osama Bin Laden», entrato «coi suoi dirottatori suicidi nelle Torri dell’Orgoglio americano siccome un coltello nella panna», continua a fare da sfondo ad un dibattito la cui intensità non accenna a diminuire. Alimentato, peraltro, dal continuo aggiornamento degli avvenimenti che scandiscono la crisi internazionale inaugurata, così repentinamente, dai tragici fatti di quel giorno.

La cronaca di questi mesi, cui non sono mancati pungoli provenienti da altre direzioni, ed in particolare dalla Terra Santa, si è ampiamente concentrata sugli sviluppi del fantasmagorico attacco all’America. E se, dopo la caduta del regime dei Talebani e la beffarda dissoluzione del grande ricercato, lo sceicco saudita Osama Bin Laden, l’attenzione della stampa quotidiana non si è quasi più rivolta al teatro afgano, in questo primo scorcio dell’anno 2002 la “guerra al terrore” ha continuato incessantemente a far parlare di sé. Anche se, ormai, gli sforzi di giornalisti e commentatori sono dedicati al tentativo di leggere tra le righe di una “dottrina Bush” che annuncia ulteriori passi in avanti nella sfida lanciata ad un nemico – come lo descrive Henry Kissinger – «imprevedibile e volatile».

Ma in questa progressione, destinata assai probabilmente a impattare, ed al più presto, nelle desertiche plaghe dell’Iraq, la solidarietà di alleati vecchi e nuovi tende ad allentarsi, mentre crescono gli inviti alla cautela o, direttamente, le critiche ed il dissenso. Epiù che la condotta, i dubbi e lo scetticismo paiono investire soprattutto i toni e certe espressioni (con, in primo piano, la definizione di “asse del male”) usate dall’amministrazione americana. O dall’uomo che, ha annotato Enzo Bettiza, da «una mattina all’altra» si è trovato ad incarnare, agli occhi del suo paese come del mondo intero, «l’eroe e il giustiziere dell’epopea contro la Jihad di Al Qaida»: il presidente George W. Bush.

Frattanto, mentre questi ribadisce che «la guerra al terrorismo è appena cominciata», nelle librerie continuano a giungere instant book, saggi, pamphlet, recanti la firma – per citare solo alcune tra le figure coinvolte o autocooptatesi nel dibattito – di autorevoli politologi, giornalisti affermati, celebrati scrittori ed illustri cattedratici. L’infittirsi di questa letteratura ben documenta la gravità della fase che il mondo sta attraversando, come anche lo stimolo, avvertito dai più, di prendere una posizione o di ricomporre in un quadro d’insieme l’incalzare degli accadimenti. Ma sta anche confermando ciò che noi, con questo modesto contributo, desideriamo mettere, una volta di più, nel dovuto rilievo: l’enorme significatività dell’evento originario, l’attacco all’America. O anche, facendo guidare dalle parole di Gianni Riotta, la natura spettacolare e al tempo stesso devastante di un episodio che ha «fatto debuttare il secolo nel buio».

Il vulnus inferto dai quattro Boeing al cuore degli Stati Uniti non ha, ed è questo il punto che cercheremo di mettere in luce, toccato le sole élites. Nel prendere di mira «una sola nazione», ha affermato il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, i terroristi hanno in realtà «finito per ferire il mondo intero». Ma un simile coinvolgimento non è esclusivamente il frutto, come Annan intendeva rimarcare, delle oltre 60 nazionalità che figurano nel bilancio dell’eccidio (la magistratura degli Stati Uniti ne ha parlato, proprio in questi giorni, come del «più grande massacro della storia criminale americana»). Né tanta attenzione deriva dai rivolgimenti, profondi e a tutto campo, che quei fatti hanno provocato o sono in procinto di far emergere.

Dietro «il trauma dell’11 Settembre», come l’ha definito l’ambasciatore Biancheri, si può, o forse si deve, scorgere anche l’opera di un fattore non meno dirompente: l’immediata mobilitazione, già pochi istanti dopo l’inizio della sorprendente azione terroristica, del sistema dei media. E, in particolare, del mezzo che ancora oggi, nell’era delle comunicazioni wireless, della telematica e del multimedia, occupa una posizione assolutamente centrale nella costruzione e definizione del nostro immaginario, la televisione.

Sono stati i network americani, con le immagini colte dai loro operatori e ritrasmesse nei canali televisivi di tutto il pianeta, a chiamare tempestivamente a raccolta un’audience che è stata davvero globale. E nel permettere a questo immenso pubblico di assistere in tempo reale alle stragi di New York e di Washington, è stata ancora lei, la “Grande Sorella”, a rendere universale l’angoscia e la sofferenza che affliggeva, in quei momenti, i bersagli della violenza terrorista.

Un cataclisma di emozioni e sentimenti scaturite dalla fruizione mondializzata delle «sequenze delle fulminanti aggressioni ai grattacieli di New York»: anche questo elemento contribuisce a delineare l’unicità della tragedia dell’11 Settembre, catturata da fotogrammi che mai, «nel mezzo di secolo di storia della tv», si erano affacciati in questa forma, e altrettanto repentinamente, nei nostri teleschermi.

Nei paragrafi che seguono vogliamo offrire una piccola testimonianza di come, in quel fatale mattino di fine estate, gli stati d’animo vissuti in un punto strategico del mondo occidentale, e proprio per questo colpito dalla furia dei suoi nemici, si siano diffusi, istantaneamente, in tutto il pianeta. E non solo attraverso i segnali televisivi ma anche, come si vedrà, col concorso di tutti quegli strumenti e canali di comunicazione – formali ed informali, tecnologici e non – che fornendo altrettante “interfacce” al medium per antonomasia, la parola, contribuiscono ad interconnettere gli individui.

É, questo, un compito che abbiamo affidato ai risultati di un’indagine sul campo, realizzata nel gennaio 2002 su un campione di studenti dell’Università di Udine. Nel dirci quando come siano stati messi al corrente degli attentati, i 272 ragazzi e ragazze che abbiamo intervistato ci hanno offerto un motivo in più per tornare a parlare dell’11 Settembre 2001 e degli aerei kamikaze lanciati contro il World Trade Center e il Pentagono. Aerei che, come ha sottolineato lo scrittore israeliano Abraham B. Yehousha, «non verranno dimenticati. Non fra un mese, non fra un anno. Mai».

2. Quei diciotto minuti

Niente più come prima. É un adagio che abbiamo sentito spesso, negli ultimi mesi. Mille e più voci, fiumi d’inchiostro e di bits, un profluvio di retorica condensatosi in un unico messaggio, che incornicia l’opinione più diffusa dall’11 Settembre 2001: quel prima è definitivamente sepolto. Dal più feroce e peculiare degli attentati terroristici che, abbattutosi sui simboli del potere economico, finanziario e militare degli Stati Uniti, finisce per segnare una cesura nella storia contemporanea. Con buona pace di chi, troppo frettolosamente, riteneva che essa avesse ormai finito il suo corso.

L’attacco all’America è stato definito anche, e con singolare convergenza, la “nuova Pearl Harbor”. Un’etichetta che, evocando l’episodio che precipitò quel paese nel vortice della seconda guerra mondiale, proietta in primo piano e con massima enfasi la più immediata delle chiavi di lettura di un evento che molti ricorderanno, per l’appunto, come il «primo attacco militare della storia al territorio continentale degli Stati Uniti». Quattro aerei civili dirottati, il centro direzionale delle forze armate americane in ginocchio ed oltre tremila vittime appaiono, del resto, come un tragico bollettino di guerra.

Ma come quel leit motiv – “niente più come prima” – suggerisce, l’11 Settembre rappresenta anche altro. Significa la fine di un’era che, apertasi con la caduta del muro di Berlino, è durata appena due lustri e che, con Sergio Romano, potremmo chiamare della “pace perduta”. Così poco tempo, quindi, abbiamo dovuto attendere perché l’auspicio con cui salutammo la sua alba fosse spazzato via: da una guerra inedita, asimmetrica, “senza limiti”. O anche, come l’ha definita Silvestri, postmoderna.

Già, postmoderna: aggettivo calzante, ma non solo nel senso, squisitamente militare, attribuitogli da Silvestri. L’attacco all’America può essere considerato tale anche per altri, non trascurabili motivi: perché, tra le altre cose, i quattro Boeing non si sono limitati a violare quel paese, la sua inattaccabilità, la sua sicurezza, ma l’hanno anche «umiliato in mondovisione». E perché tutto il mondo, a partire dagli attaccati e dal loro presidente, è stato colto di sorpresa. Nessuna dichiarazione di guerra, nessun preparativo (e, dopo, nessuna rivendicazione): l’annuncio dell’inizio delle ostilità l’hanno dato quegli aerei; anzi, le immagini degli aerei trasmesse dalle televisioni, le breaking news. L’icona della guerra che arriva con la guerra stessa.

Nel giorno più buio del terzo millennio la televisione si è dunque ritagliata un ruolo di assoluta protagonista. Giacché ha permesso al mondo intero di partecipare alla “drammatizzazione” di un evento che, già clamoroso e sensazionale, lo è diventato ancora di più grazie alla sua presenza. E perché ha messo l’immenso universo dei telespettatori nelle condizioni di condividere lo stesso sgomento, la stessa incredulità di quel corrispondente del “Corriere della Sera” che si trovava, quel mattino di settembre, nel cuore di Manhattan.

Dalle finestre del settantatreesimo piano dell’Empire State Building […] ho già dato un’occhiata allo scorcio splendido di New York […] La giornata è splendida, il cielo blu intenso, senza nuvole. Di punto in bianco sento un rombo forte, motori di aereo. Mi insospettisco: perché vola così in basso? […] Poi, il “contatto visivo” […] vedo che l’aereo punta esattamente, con determinazione, sui grattacieli del World Trade Center. Per un secondo mi assale un flash back: l’attacco dei terroristi islamici alle due Torri Gemelle, le stesse, nei primi anni Novanta […] La realtà prende il sopravvento. Gli ultimi secondi si rincorrono con lucida, spietata successione. E’ lì, è lì, ha colpito il grattacielo. L’ha preso in pieno. Un boato sordo. Lo squarcio immenso con il profilo del Boeing, le ali un po’ di sbieco. Un buco nero mostruoso, laggiù, alla punta sud di Manhattan. Un attacco suicida. Terroristi. Il simbolo del capitalismo finanziario, il simbolo del potere Usa colpito qui e ora. Non è Hollywood. Non è un action movie finto con Bruce Willis. E’ tutto vero. Davanti ai miei occhi.

Sono le 8:48, ora della costa orientale degli Stati Uniti: l’inizio del conto alla rovescia per la Torre Nord del World Trade Center. Appena diciotto minuti più tardi sarebbe sopraggiunto, diretto dove tutti sappiamo, il secondo Boeing. Diciotto minuti, due aerei, due torri, due commando kamikaze. C’è, come sappiamo tutti, dell’altro: il Pentagono in fiamme, il volo 93 della United Airlines caduto in Pennsylvania, e poi il collasso dei grattacieli, il panico a New York, l’attesa di un primo, provvisorio, bilancio delle vittime.

Sono gli ingredienti di una tragedia che però, è necessario sottolinearlo, non è stata solo americana. Quel groviglio di sentimenti ed emozioni ha infatti avviluppato anche noi, ad ogni latitudine, in ogni fuso orario. Un unico, gigantesco, globalizzato bersaglio, colpito da quella che Baricco ha inquadrato come «una paura inedita, mai provata prima», vale a dire «il terrore di vedere la realtà più seria che ci sia, accadere nei modi della finzione»:

mentre vedo per l’ennesima volta quell’aereo che vira e centra il totem sberluccicante nella luce del mattino, capisco quello che mi sembra, davvero, incredibile, e anche se mi sembra atroce dirlo, provo a dirlo: è tutto troppo bello. C’è un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione. Nei diciotto minuti che separano i due aerei, nello sgranarsi degli altri veri e falsi attentati, nell’invisibilità del nemico, nell’immagine di un presidente che se ne parte da una scuoletta della Florida per andare a rifugiarsi nel cielo, in tutto questo c’è troppa maestria drammaturgica, c’è troppo Hollywood, c’è troppa fiction. La Storia non era mai stata così. Il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura le mette che è uno schifo. E allora perché la storia che vedo accadere in quel televisore è così perfetta?

Ecco, dunque, le parole che riassumono il senso, supplementare ma non secondario, che la televisione ha condensato attorno alla catastrofe americana. Baricco bene ha colto, tra l’altro, come le incredibili immagini precipitate nell’intimità degli schermi domestici abbiano sortito l’effetto di annullare il diaframma tra la realtà e la virtualità: un limes che il diabolico progetto terrorista ha subdolamente bypassato, rendendo indistinguibile ciò che quella linea dovrebbe separare.

“La realtà”, era uno dei commenti più ricorrenti nei giorni successivi, “ha superato l’immaginazione”. Nella dinamica dell’attacco si poteva scorgere infatti quasi una «trasposizione degli scenari fantastici» che la fiction di Hollywood ed i videogiochi ammanniscono a profusione. E non si è trattato, a giudizio di molti, di una mera combinazione. Stando a Enzensberger, ad esempio, dietro all’ordito degli attentati si celerebbe l’intenzionale, perversa emulazione della «logica simbolica occidentale dell’immagine», che i terroristi avrebbero fatto propria seguendo financo, e «minuziosamente», i copioni dei più noti thriller cinematografici. La cui più ardita delle rappresentazioni, ora, appare come una pallida ombra di ciò che abbiamo visto nei teleschermi; o anche, con le parole di Battista, «meno reale del reale».

Un’impostazione che trova d’accordo anche Baudrillard. In un passo del suo recente saggio dedicato proprio alle vicende americane, il celebre autore francese si sofferma sulle pregnanti sequenze televisive degli attentati, sottolineando come esse abbiano finito per «radicalizza[re] il rapporto con la realtà». E definendo quanto accaduto come un «evento-immagine», creato ad arte dai deus ex machina del male (i quali, perciò, sono riusciti a ritorcere contro il «sistema» una delle sue «armi» più raffinate), trae le sue conclusioni.

Questa violenza terroristica non è “reale”. É qualcosa di peggio, in un certo senso: è simbolica. La violenza in sé può essere perfettamente banale e inoffensiva. Solo la violenza simbolica è generatrice di singolarità. E in questo evento singolare, in questo film catastrofico di Manhattan, si uniscono al punto più alto i due elementi di fascinazione di massa del XX secolo: la magia bianca del cinema e la magia nera del terrorismo. La luce bianca dell’immagine e la luce nera del terrorismo.

La suggestiva compenetrazione con la finzione esibita da un’azione terroristica così «spettacolare» – parola di G. Kepel – nulla toglie però alsuo carattere «devastante». Ossia al suo palpabile, crudo consuntivo. Se infatti le trame dei film o dei videogiochi – e non sarebbe proprio necessario ricordarlo – «non contemplano morti vere e sofferenze», l’attacco all’America ha superato, sotto questo profilo, ogni record.

Ed è proprio questo il punto su cui, nel commentare l’immediata apparizione su Internet di un videogame ispirato all’episodio delle Torri Gemelle, Barbiellini Amidei ha voluto attirare l’attenzione. A suo giudizio, quel videogioco segnalava, una volta di più, l’insidiosa osmosi tra reale e virtuale profilatasi l’11 settembre. Un groviglio che rischiava di intrappolare, più di altri, i bambini: che come i grandi, ma meno attrezzati di questi, si abbeverano ad ambedue le fonti e che, di nuovo come i primi, si sono trovati improvvisamente esposti alle immagini del terrore che colpiva gli Stati Uniti.

Un sito americano, “Angel Fire”, aveva cominciato a far provare ai ragazzi dallo stomaco più duro un cannoncino montato contro i terroristi sulle Torri Gemelle. Quando appariva la scritta “game over”, il “Defender” del World Trade Center perdeva il turno, le Torri crollavano e si ricominciava da capo […] Milioni di bambini italiani due giorni fa hanno all’improvviso assistito alle stesse sequenze, ma con un inspiegabile inconveniente: al posto del segnale “game over”, lo schermo annunciava “Edizione straordinaria”. Dentro il quieto mondo di “Melevisione”, programma amato del primo pomeriggio della Rete Tre della Rai, irrompeva la tragedia vera di Manhattan. Da una parte un gioco con un’atroce remake della più terribile realtà; dall’altra scene vere, non cancellabili con un clic, finite in mezzo ad uno spettacolo per i più piccoli. Ma quanti ragazzi possono capire la differenza?

Pur redatto da una prospettiva peculiare – l’invito ai genitori affinché stimolassero nei figli una lettura non ambigua dei fatti americani – l’intervento di Barbiellini Amidei ci offre un altro spunto prezioso per riflettere sulla partecipazione generale, mediata dalla televisione, allo sconcerto e all’angoscia degli attentati dell’11 settembre. Un coinvolgimento che, vogliamo insistere su questo punto, è stato convogliato, sia per il valore simbolico del luogo sia per la sopraggiunta disponibilità di un ampio corredo iconografico, soprattutto sulla strage di New York.

E, a ben vedere, l’acme del dramma delle Torri Gemelle risiede nel lasso di tempo intercorso tra gli impatti dei due aerei. Un intervallo durato appena diciotto minuti ma sufficiente perché, nel cuore di Manhattan, accorressero le telecamere delle tv locali e dei grandi networks (cui vanno aggiunte quelle degli amatori già presenti sul posto), alle quali il cinico disegno terrorista aveva affidato il compito di raccogliere e diffondere le terrificanti sequenze del secondo Boeing che si avventa nel grattacielo, dei corpi lanciati nel vuoto, delle Twin Towers che si avvitano su loro stesse.

La storia in diretta, insomma: una prassi alla quale, comunque, già ci ha abituato il grande agente storico dei nostri tempi, la CNN. E, in fin dei conti, la televisione è proprio questo: un mezzo che, come ricordava Meyrowitz, unifica il proscenio della vita reale alla platea dei telespettatori. Una constatazione difficilmente confutabile, ma soprattutto compatibile con quella di Peppino Ortoleva, per il quale il plurimo e truculento attentato negli Stati Uniti è stato «progettato per la televisione mondiale». Per gettare nel panico ed ammonire, cioè, l’intero Occidente.

Proprio qui, anzi, si può scorgere uno degli elementi chiave delle azioni del nuovo terrorismo internazionale di matrice islamista, di cui Osama Bin Laden e le organizzazioni di cui lo sceicco saudita muove i fili – Al Qaida e il “Fronte Internazionale per la Guerra Santa contro Ebrei e Crociati” – rappresentano i vessilliferi. Un elemento che è stato rilevato da Brian Jenkins, autorevole esperto in materia: i neo-terroristi, ha affermato, più che uccidere molta gente ambiscono ad «essere guardati uccidere da tanta gente».

Quel martedì di settembre, insomma, sarà ricordato anche per la simbiosi realizzatasi tra il dramma di Manhattan e la sua rappresentazione televisiva: un unico messaggio, quello dei terroristi, lanciato “via aerea” su New York e raccolto simultaneamente in tutti i continenti. Una tragedia fattasi media event, e resa ancora più sensazionale da quel preciso frammento temporale. Per via cioè di quel pugno di minuti in cui gli occhi degli operatori televisivi, accorsi per riprendere quello che poteva sembrare una casualità del destino, e gli occhi di uomini e donne di tutto il mondo hanno condiviso il più agghiacciante degli sguardi di morte.

Arrivano i primi furgoni delle tv locali, tutti pensano a un incidente, a un incendio, anche se erano sessanta anni da quando un aereo, un bombardiere B25, aveva urtato un grattacielo a Manhattan, l’Empire State Building, e la visibilità era perfetta. Puntano gli obiettivi verso la cima dei palazzi e nei loro visori i cameramen vedono qualcosa che nemmeno il più coriaceo di loro aveva mai visto. Un altro aereo, un 767 con i colori della United, sbuca e punta a 400 chilometri l’ora verso la seconda torre, 18 minuti dopo il primo. Qualcuno sta lottando, nella cabina di comando. L’aereo, carico di carburante come tutti quelli dirottati e scelti appunto per questo dagli assassini, tenta di evitare la torre di cristallo, ma il terrorista vince. Per pochi metri, sbatte contro lo spigolo ed esplode in una bolla di fiamme rosse che New York non aveva più visto da quando il dirigibile Hindemburg bruciò in atterraggio, anche allora sotto lo sguardo di una cinepresa.

Il cuore dell’episodio, dunque, è l’entrata in scena del secondo Boeing, che ha permesso di proiettare non il dramma, ma il farsi del dramma sul gigantesco teleschermo davanti a cui, impietrita, si è trovata la platea mondiale. E dove c’era, tra gli altri, anche colui che aveva contribuito a progettare le torri gemelle, l’architetto Aaron Swirski. Che, dalla sua lontana casa di Tel Aviv, ha visto l’aereo penetrare nella sua creatura e sospingerla verso il punto di non ritorno.

Uno “spettacolo” unico, insomma, che ha spinto qualcuno a ravvisarvi addirittura «la più grande opera d’arte di tutti i tempi». Parola di Karlheinz Stockhausen, che sollevando la riprovazione generale ha paragonato l’attentato alle Torri Gemelle ad una «recita», il cui carattere straordinario risiederebbe proprio nella convocazione, entro un palcoscenico universale, di un pubblico immenso, senza confini.

Affermazione difficile da condividere, quella di Stockhausen, nel momento in cui è stata pronunciata. Ma che, ad ormai quasi sette mesi da quel giornoi, lascia trasparire qualcosa che va ben al di là delle apparenze di un delirio individuale. Quella che per il compositore tedesco è stata una recita, a noi appare infatti come una gigantesca emozione globale, suscitata da un accadimento sanguinoso fattosi icona. O, nella provocazione di Baudrillard, come un «evento assoluto», che l’occhio televisivo ha saputo cogliere in tutta la sua «folgoranza indimenticabile».

Non stupisce, dunque, la scelta del museo americano della radio e della televisione di acquisire le immagini dell’11 Settembre e di catalogarle come “reperti storici”. Un atto dovuto; l’inevitabile conseguenza del ruolo svolto da uno strumento, la televisione, la cui presenza partecipe ha potuto conferire all’evento chiave del nuovo millennio la consistenza di un «drammatico frammento della memoria collettiva».

 

3. Un lungo pomeriggio

Con una tempestività proporzionale alla straordinarietà dei fatti, la notizia dell’attacco all’America si spargeva per l’intero pianeta. Sono estremamente significative, al riguardo, le foto che ritraggono una scena verificatasi pressoché ovunque, negli stessi momenti, nello stesso modo. Uomini e donne di ogni provenienza, sbigottiti, in lacrime. Gente assiepata davanti ai teleschermi, anche per le strade. Le stesse espressioni, suscitate dalle medesime immagini, con didascalie in lingue diverse.

La televisione è stata una protagonista di prim’ordine di una giornata che è stata sensazionale nel suo complesso: anche, naturalmente, in Italia. Non erano infatti passati che sette minuti (14:55) da quando il primo Boeing aveva terminato la sua folle corsa che Rete Quattro iniziava un’edizione straordinaria del suo telegiornale. Altrettanto, nell’arco di pochi minuti, avrebbero fatto tutte le altre emittenti televisive nazionali: le tre reti della Rai, le altre due della Mediaset (Canale 5 e Italia 1) e la neonata “La 7”.

É iniziata così, a ridosso dei fatti, una interminabile diretta, andata in onda lungo l’intero spettro televisivo. Con, da un lato, oltre «25 milioni di italiani incollati davanti al televisore», e dall’altro i conduttori, increduli come i primi, intenti a seguire e commentare gli aggiornamenti delle agenzie di stampa e, soprattutto, le immagini delle reti americane. Che, come ha scritto Aldo Grasso, stavano trasmettendo:

un film orribile, il più terrificante, catastrofico, apocalittico che si possa immaginare. Si chiama “America Under Attack”, secondo la Cnn, o “Terror in America”, secondo Sky News. Ma non è un film, è un incubo, è una terribile realtà seguita in diretta da telecamere sbigottite.

Reti virtualmente unificate, dunque, per un corale commento alle immagini che giungevano dai luoghi delle stragi. Una “maratona” andata avanti fino a sera, interrotta solo ed esclusivamente da brevi servizi sulle altre notizie del giorno e da alcuni “speciali”. E che, proprio come gli attentati per la “grande storia”, lascerà un segno indelebile anche nella storia della televisione italiana.

Venticinque milioni di italiani, si è detto. L’audience complessiva di quel pomeriggio appare impressionante, se confrontata con il dato di un qualunque martedì invernale. Non lo è, invero, se pensiamo alla unicità di quel giorno e all’accadimento cui, per sempre, rimarrà associato. Ma quanti di quei venticinque milioni di italiani hanno assistito in diretta alla tragedia? Presumibilmente, una minoranza. É plausibile, invece, che il contatto col mezzo televisivo sia avvenuto in buona parte dei casi solo in un secondo momento. In altre parole, quella parte significativa della popolazione del nostro paese che ha assistito al dramma americano davanti ai teleschermi si deve essere sintonizzata dopo aver appreso, in altro modo, la notizia. Dopo, cioè, che i primi atti della tragedia si erano ormai consumati.

Non è superfluo, a questo punto, chiedersi nel dettaglio in quale modo ciò sia avvenuto. Per saperlo, occorre ricostruire la cornice complessiva di un evento che si è immediatamente riverberato dappertutto, stilando un elenco di tutti gli agenti informatori. E quest’elenco non potrà che partire da quello strumento che, con la televisione, ha contribuito a scrivere la storia della comunicazione del XX secolo e che, come la prima, rappresenta «l’onnipresenza di tutto ciò che gli uomini fanno e dicono in qualunque parte del mondo»: la radio.

I dati sull’ascolto radiofonico raccolti da Audiradio nella sua rilevazione del 2001 (che parlano di oltre cinquantuno milioni di contatti nel giorno medio) lasciano pensare che una sezione non meno significativa degli italiani sia stata informata degli attentati dalla propria emittente. Del resto i principali network hanno emulato lo sforzo delle televisioni, interrompendo la normale programmazione per aggiornare gli ascoltatori, minuto dopo minuto, sull’evoluzione degli eventi. E’ stato così, ad esempio, per quelle del circuito “Radio Rai”, o per “Radio 24 – Il Sole 24 Ore”, che già alle 14:50 iniziava la sua diretta.

Diversa, invece, la situazione presentata dall’astro nascente della comunicazione di massa, Internet. Stando ai resoconti di cui disponiamo, la rete delle reti è stata letteralmente presa d’assedio da chi, guidato dalla brama di saperne di più, ha cercato di consultare i notiziari on line. Brama che però, nella gran parte dei casi, è rimasta insoddisfatta. In quest’occasione infatti il Web sembrerebbe proprio aver segnato il passo.

Con le fantastiche Torri Gemelle è sembrata crollare anche un altra certezza del mondo avanzato: Internet. Quando, a metà pomeriggio di ieri, i network televisivi internazionali riportavano le voci di un numero imprecisato di aerei dirottati e lanciati su chissà quale città americana […] quando non si sapeva ancora che fine avesse fatto il presidente Bush, milioni di persone a casa, negli uffici di tutto il mondo, hanno cercato informazioni. Magari rassicurazioni, sulla rete. Per qualche ora, è stato impossibile trovarle […] i segni del cedimento si sono avuti subito, a qualche minuto dalla notizia del primo spaventoso schianto al World Trade Center. Chiunque provasse a collegarsi con i maggiori siti di notizie, in Italia e nel mondo, si è scontrato con un’inesorabile lentezza. Poco dopo, quando la tragedia ha oltrepassato i confini dell’immaginazione, ecco l’interruzione dei collegamenti. “Http Error: 500-13 Server too busy”. “Error 404 – Cannot find server or Dns Error”.

Di fronte all’imprevisto assalto, i numerosi siti informativi presenti nello spazio telematico hanno insomma «rivelato i limiti attuali del mezzo». Alcuni di essi, nella concitazione di quei momenti, hanno comunque cercato di correre ai ripari. Creando, per agevolare le operazioni di consultazione da parte dei numerosissimi avventori, un mirror site, una sorta di doppione del sito, in versione esclusivamente testuale: opzione selezionata, ad esempio, dal “Corriere della Sera.it”. In altri casi invece si è scelta la strada di potenziare i server o di eliminare i contenuti non legati ai fatti americani: ha fatto così il quotidiano “Il Nuovo.it”.

Anche se, alla fine, il bilancio delle pagine delle principali news on line visitate in quel giorno è risultato quintuplicato (con, ad esempio, dieci milioni di contatti per “La Repubblica.it”), vi sono pochi dubbi sul fatto che in quest’occasione la rete delle reti abbia dovuto abdicare dalla funzione che si è avocata, quella di consentire un «accesso simultaneo a grandi numeri di persone» all’informazione «in tempo reale». Cedendo perciò il testimone ai media della precedente generazione, televisione e radio, ma anche, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, ad altri strumenti se non a tipologie di comunicazione di natura completamente diversa.

4. 1963: un lontano paragone

La notizia degli attentati, in realtà, non ha circolato esclusivamente attraverso l’azione dei grandi media. Come abbiamo visto, gli italiani che nel corso del pomeriggio dell’11 si sono sintonizzati con un’emittente televisiva erano circa venticinque milioni. Pur aggiungendovi l’opera delle radio, rimane fuori un quantitativo di persone non certo insignificante; che, in buona parte, avrà saputo ugualmente, e anche con celerità, dei fatti di New York e Washington.

Per scoprire come sia accaduto, dobbiamo allora rivolgerci ad altri strumenti se non direttamente a forme di comunicazione informali ed interpersonali. A tal proposito, non sarà inutile guardare a cosa sia accaduto nel lontano novembre del 1963, quando gli americani, e con essi il mondo intero, appresero di un altro avvenimento eclatante: l’attentato al presidente John Fitzgerald Kennedy.

Dai risultati di un’indagine, apparsa l’anno successivo sulle pagine di “Public Opinion Quarterly”, emerse che il 68% degli americani in età adulta aveva saputo dell’agguato teso all’auto presidenziale, avvenuto alle 12:30 ora locale, appena mezz’ora dopo. Ad un’ora e mezza, la percentuale era salita al 92% per raggiungere, alle sei del pomeriggio, il 99,8%. Non meno significativi sono poi i dati sulle modalità con cui la notizia è rimbalzata da un punto all’altro della nazione: la ricerca ha messo in luce un sostanziale equilibrio tra i soggetti che l’hanno ricevuta dai media (radio e televisione, con un complessivo 47%) e coloro che ne sono invece venuti a conoscenza dalla viva voce di un’altra persona, anche attraverso il telefono (49%).

Questi dati ci offrono quindi un’interessante testimonianza di come la velocità dell’informazione e la sua penetrazione nel tessuto sociale raggiungano, in situazioni “estreme”, livelli elevatissimi. «Senza paralleli nel passato», sottolineavano gli autori dell’indagine: una frase che possiamo fare nostra, riferendola agli attentati dell’11 Settembre, senza soverchie difficoltà.

Come per l’assassinio di Kennedy, il numero di persone che hanno saputo nel giro di pochi minuti dell’attacco all’America è stato elevatissimo. E non pochi, inoltre, sono stati informati personalmente da amici, conoscenti o sconosciuti, secondo la classica modalità del passaparola («word to mouth»). Lo vedremo meglio attraverso i risultati della ricerca che abbiamo realizzato su un campione di studenti dell’Università di Udine; indagine che si è proposta, tra le altre cose, di ricostruire la propagazione della notizia dell’attacco all’America valutando, in particolare, due aspetti di grande rilievo: a) la tempestività e b) i canali coinvolti nella circolazione dell’informazione.

Vedremo così quanto tempo è passato da quando il primo aereo andava ad infrangersi sulla Torre Nord del World Trade Center al momento in cui i nostri studenti ne sono venuti a conoscenza, nonché gli strumenti che hanno fatto da tramite. Puntando l’attenzione, in particolare, sulla dicotomia tra mass media da un lato e canali informali dall’altro: categorie che dovranno necessariamente annoverare, per i media, i notiziari on line e, sull’altro versante, dispositivi in auge come i brevi messaggi di testo veicolati dai telefoni cellulari (sms) e le e-mail.

L’inclusione di questi strumenti rappresentava senza dubbio un passo doveroso. Si tratta infatti di tre mezzi di comunicazione che stanno acquisendo, o lo hanno già fatto, una posizione centrale negli orizzonti quotidiani della popolazione italiana in generale e dei giovani in particolare. Le statistiche del settore, del resto, testimoniano eloquentemente l’infittirsi ed il consolidarsi del boquet tecnologico- comunicativo dell’uomo del terzo millennio: basti pensare – per citare solo alcuni dati, relativi a ciò che qui più interessa – agli oltre 47 milioni di utenti di telefonia mobile censiti alla fine dell’anno scorso nel nostro paese, al miliardo circa di sms che transitano ogni mese nell’etere italiano e al 30% circa di case, sempre all’interno della penisola, in cui è presente una connessione Internet. Sono cifre che, più che consigliare, rendevano indispensabile un allargamento delle opzioni rispetto a quelle che potevano essere contemplate ai tempi del delitto Kennedy.

5. New York-Italia

Quando e come hanno saputo, i nostri 272 intervistati, dell’attacco all’America? Hanno avuto l’occasione di sperimentare, davanti ai teleschermi, l’emozione di partecipare al farsi della storia? O sono, invece, rimasti per un tempo più o meno lungo ignari di quanto stava accadendo al di là dell’Atlantico? E se è così, per quanto tempo? Hanno assistito anche loro alla maratona televisiva o sono stati informati in altro modo? Era di un giornalista o di una persona comune, la voce che li ha avvisati? E poi, era proprio una voce?

É a domande come queste che la nostra rilevazione intende rispondere. Cominciamo quindi con l’occuparci dell’aspetto cronologico, e dunque del tempo intercorso tra il momento iniziale dell’evento, l’impatto del primo aereo sul World Trade Center (ora italiana 14:48), e l’istante in cui qualcuno o qualcosa ha avvisato gli studenti. Per facilitare la raccolta dei dati abbiamo invitato gli intervistati a scegliere tra quattro risposte, ordinate secondo una successione oraria che ha inizio dalle 15:00, ossia – più o meno – dal momento in cui il sistema dell’informazione in Italia ha cominciato la sua grande mobilitazione. Le fasce erano dunque:

15:00/16:00 (entro un’ora dall’impatto del primo aereo)

16:00/17:00 (tra una e due ore dopo)

17:00/18:00 (tra due e tre ore dopo)

dopo le 18:00 (tre ore dopo o più)

 

I risultati offrono una sostanziale conferma della natura straordinaria dell’evento, ossia dell’intensità con cui le informazioni sull’attacco all’America hanno circolato, a ridosso dei fatti, nel corso di quel pomeriggio (fig. 1). Ben il 66,9% degli intervistati ha appreso la notizia quando ancora non era passata un’ora dall’incipit. Non meno significativo è il fatto che quasi tutti gli altri soggetti (26,1%) hanno dovuto attendere tra una e due ore, a dimostrazione che il clima di quei momenti ha favorito una rapida propagazione delle informazioni. Un altro 3,3% (9 persone) è stata raggiunta quando ormai entrambe le Torri erano crollate e, nel cuore di Manhattan, si era formato quello che passerà alla storia come Ground Zero. Per le rimanenti 10 persone (3,7%), infine, il margine di tempo è stato di almeno tre ore.

Passiamo ora alla questione del canale. Il primo risultato che vogliamo evidenziare ci riporta non tanto ai singoli strumenti, quanto alla loro aggregazione nelle due categorie dei mass media ( televisione, radio, siti internet) e canali informali/interpersonali (passaparola, telefonata, sms, e-mail). In quel convulso, concitato pomeriggio, gli agenti delle due categorie (con rispettivamente il 48,9% ed il 50% delle risposte) si sono ripartiti quasi equamente, proprio come nel 1963, il compito di mettere a parte gli intervistati delle stragi di New York e Washington. E ciò testimonia, tra le altre cose, il significativo effetto di “rinforzo” che i contatti diretti tra gli individui hanno esercitato nei confronti dello sforzo giornalistico effettuato dai grandi media.

Osservati nel dettaglio (fig. 2) i dati attribuiscono la palma del primo posto alla televisione (38,2%), che conferma dunque, senza sorprese, la sua centralità nel contesto della comunicazione di massa. Immediatamente dopo, però, troviamo un canale informale come il passaparola (33,8%) a ricoprire il ruolo di guida dei canali “alternativi”. I quali, comunque, hanno dimostrato di essere tutt’altro che tali, dato che al terzo posto di questa graduatoria troviamo le telefonate (12,5%). Una posizione significativa anche perché lascia alle sue spalle l’altro grande polo dell’informazione, la radio (10,3%).

Televisione, passaparola, telefono e radio sono stati, dunque, i protagonisti di quel processo che ha visto la notizia sugli eventi americani rimbalzare dagli Stati Uniti all’Italia. E, nell’ambito di quel percorso, dalle fonti giornalistiche alle singole persone, secondo una pluralità di modi che includono non solo i canali che abbiamo citato, ma anche gli sms (3,3%), le e-mail (0,4%) e i siti Internet (0,4%). Strumenti, questi ultimi, che condividono l’identità di “new entry” nel sistema della comunicazione, ma che sono rimasti, come illustrato chiaramente dai dati, a margine del processo di disseminazione delle notizie su quello che sarà tramandato come il «martedì nero del nuovo millennio».


1. Sei mesi dopo la “nuova Pearl Harbor”

Pochi giorni prima che la riflessione presentata in queste pagine venisse conclusa, ricorreva il sesto mese dal blitz terroristico dell’11 Settembre 2001. Ancora vivo nella memoria di tutti noi, il ricordo – che evochiamo con le parole di Igor Man – dell’«inimmaginabile exploit di Osama Bin Laden», entrato «coi suoi dirottatori suicidi nelle Torri dell’Orgoglio americano siccome un coltello nella panna», continua a fare da sfondo ad un dibattito la cui intensità non accenna a diminuire. Alimentato, peraltro, dal continuo aggiornamento degli avvenimenti che scandiscono la crisi internazionale inaugurata, così repentinamente, dai tragici fatti di quel giorno (n. 1).

La cronaca di questi mesi, cui non sono mancati pungoli provenienti da altre direzioni, ed in particolare dalla Terra Santa, si è ampiamente concentrata sugli sviluppi del fantasmagorico attacco all’America. E se, dopo la caduta del regime dei Talebani e la beffarda dissoluzione del grande ricercato, lo sceicco saudita Osama Bin Laden, l’attenzione della stampa quotidiana non si è quasi più rivolta al teatro afgano, in questo primo scorcio dell’anno 2002 la “guerra al terrore” ha continuato incessantemente a far parlare di sé. Anche se, ormai, gli sforzi di giornalisti e commentatori sono dedicati al tentativo di leggere tra le righe di una “dottrina Bush” che annuncia ulteriori passi in avanti nella sfida lanciata ad un nemico – come lo descrive Henry Kissinger – «imprevedibile e volatile» (n. 2).

Ma in questa progressione, destinata assai probabilmente a impattare, ed al più presto, nelle desertiche plaghe dell’Iraq, la solidarietà di alleati vecchi e nuovi tende ad allentarsi, mentre crescono gli inviti alla cautela o, direttamente, le critiche ed il dissenso. E più che la condotta, i dubbi e lo scetticismo paiono investire soprattutto i toni e certe espressioni (con, in primo piano, la definizione di “asse del male”) usate dall’amministrazione americana. O dall’uomo che, ha annotato Enzo Bettiza, da «una mattina all’altra» si è trovato ad incarnare, agli occhi del suo paese come del mondo intero, «l’eroe e il giustiziere dell’epopea contro la Jihad di Al Qaida»: il presidente George W. Bush (n. 3).

Frattanto, mentre questi ribadisce che «la guerra al terrorismo è appena cominciata» (n. 4), nelle librerie continuano a giungere instant book, saggi, pamphlet, recanti la firma – per citare solo alcune tra le figure coinvolte o autocooptatesi nel dibattito – di autorevoli politologi, giornalisti affermati, celebrati scrittori ed illustri cattedratici. L’infittirsi di questa letteratura ben documenta la gravità della fase che il mondo sta attraversando, come anche lo stimolo, avvertito dai più, di prendere una posizione o di ricomporre in un quadro d’insieme l’incalzare degli accadimenti. Ma sta anche confermando ciò che noi, con questo modesto contributo, desideriamo mettere, una volta di più, nel dovuto rilievo: l’enorme significatività dell’evento originario, l’attacco all’America. O anche, facendo guidare dalle parole di Gianni Riotta, la natura spettacolare e al tempo stesso devastante di un episodio che ha «fatto debuttare il secolo nel buio» (n. 5).

Il vulnus inferto dai quattro Boeing al cuore degli Stati Uniti non ha, ed è questo il punto che cercheremo di mettere in luce, toccato i soli Usa. Nel prendere di mira «una sola nazione», ha affermato il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, i terroristi hanno in realtà «finito per ferire il mondo intero» (n. 6). Ma un simile coinvolgimento non è esclusivamente il frutto, come Annan intendeva rimarcare, delle oltre 60 nazionalità che figurano nel bilancio dell’eccidio (la magistratura degli Stati Uniti ne ha parlato, proprio in questi giorni, come del «più grande massacro della storia criminale americana», n. 7)). Né tanta attenzione deriva dai rivolgimenti, profondi e a tutto campo, che quei fatti hanno provocato o sono in procinto di far emergere.

Dietro «il trauma dell’11 Settembre», come l’ha definito l’ambasciatore Biancheri, si può, o forse si deve, scorgere anche l’opera di un fattore non meno dirompente: l’immediata mobilitazione, già pochi istanti dopo l’inizio della sorprendente azione terroristica, del sistema dei media (n. 8). E, in particolare, del mezzo che ancora oggi, nell’era delle comunicazioni wireless, della telematica e del multimedia, occupa una posizione assolutamente centrale nella costruzione e definizione del nostro immaginario, la televisione.

Sono stati i network americani, con le immagini colte dai loro operatori e ritrasmesse nei canali televisivi di tutto il pianeta, a chiamare tempestivamente a raccolta un’audience che è stata davvero globale. E nel permettere a questo immenso pubblico di assistere in tempo reale alle stragi di New York e di Washington, è stata ancora lei, la “Grande Sorella”, a rendere universale l’angoscia e la sofferenza che affliggeva, in quei momenti, i bersagli della violenza terrorista (n. 9).

Un cataclisma di emozioni e sentimenti scaturite dalla fruizione mondializzata delle «sequenze delle fulminanti aggressioni ai grattacieli di New York»: anche questo elemento contribuisce a delineare l’unicità della tragedia dell’11 Settembre, catturata da fotogrammi che mai, «nel mezzo di secolo di storia della tv», si erano affacciati in questa forma, e altrettanto repentinamente, nei nostri teleschermi (n. 10).

Nei paragrafi che seguono vogliamo offrire una piccola testimonianza di come, in quel fatale mattino di fine estate, gli stati d’animo vissuti in un punto strategico del mondo occidentale, e proprio per questo colpito dalla furia dei suoi nemici, si siano diffusi, istantaneamente, in tutto il pianeta. E non solo attraverso i segnali televisivi ma anche, come si vedrà, col concorso di tutti quegli strumenti e canali di comunicazione – formali ed informali, tecnologici e non – che fornendo altrettante “interfacce” al medium per antonomasia, la parola, contribuiscono ad interconnettere gli individui (n. 11).

E’, questo, un compito che abbiamo affidato ai risultati di un’indagine sul campo, realizzata nel gennaio 2002 su un campione di studenti dell’Università di Udine (n. 12). Nel dirci quando e come siano stati messi al corrente degli attentati, i 272 ragazzi e ragazze che abbiamo intervistato ci hanno offerto un motivo in più per tornare a parlare dell’11 Settembre 2001 e degli aerei kamikaze lanciati contro il World Trade Center e il Pentagono. Aerei che, come ha sottolineato lo scrittore israeliano Abraham B. Yehousha, «non verranno dimenticati. Non fra un mese, non fra un anno. Mai» (n. 13).


2. Quei diciotto minuti

 

Niente più come prima (n. 14). E’ un adagio che abbiamo sentito spesso, negli ultimi mesi. Mille e più voci, fiumi d’inchiostro e di bits, un profluvio di retorica condensatosi in un unico messaggio, che incornicia l’opinione più diffusa dall’11 Settembre 2001: quel prima è definitivamente sepolto. Dal più feroce e peculiare degli attentati terroristici che, abbattutosi sui simboli del potere economico, finanziario e militare degli Stati Uniti, finisce per segnare una cesura nella storia contemporanea. Con buona pace di chi, troppo frettolosamente, riteneva che essa avesse ormai finito il suo corso (n. 15).

L’attacco all’America è stato definito anche, e con singolare convergenza, la “nuova Pearl Harbor” (n. 16). Un’etichetta che, evocando l’episodio che precipitò quel paese nel vortice della seconda guerra mondiale, proietta in primo piano e con massima enfasi la più immediata delle chiavi di lettura di un evento che molti ricorderanno, per l’appunto, come il «primo attacco militare della storia al territorio continentale degli Stati Uniti» (n. 17). Quattro aerei civili dirottati, il centro direzionale delle forze armate americane in ginocchio ed oltre tremila vittime appaiono, del resto, come un tragico bollettino di guerra.

Ma come quel leit motiv – “niente più come prima” – suggerisce, l’11 Settembre rappresenta anche altro. Significa la fine di un’era che, apertasi con la caduta del muro di Berlino, è durata appena due lustri e che, con Sergio Romano, potremmo chiamare della “pace perduta” (n. 18). Così poco tempo, quindi, abbiamo dovuto attendere perché l’auspicio con cui salutammo la sua alba fosse spazzato via: da una guerra inedita, asimmetrica, “senza limiti” (n. 19). O anche, come l’ha definita Silvestri, postmoderna (n. 20).

Già, postmoderna: aggettivo calzante, ma non solo nel senso, squisitamente militare, attribuitogli da Silvestri. L’attacco all’America può essere considerato tale anche per altri, non trascurabili motivi: perché, tra le altre cose, i quattro Boeing non si sono limitati a violare quel paese, la sua inattaccabilità, la sua sicurezza, ma l’hanno anche «umiliato in mondovisione» (n. 21). E perché tutto il mondo, a partire dagli attaccati e dal loro presidente, è stato colto di sorpresa (n. 22). Nessuna dichiarazione di guerra e, dopo, nessuna rivendicazione: l’annuncio dell’inizio delle ostilità l’hanno dato quegli aerei; anzi, le immagini degli aerei trasmesse dalle televisioni, le breaking news. L’icona della guerra che arriva con la guerra stessa.

Nel giorno più buio del terzo millennio la televisione si è dunque ritagliata un ruolo di assoluta protagonista. Giacché ha permesso al mondo intero di partecipare alla “drammatizzazione” di un evento che, già clamoroso e sensazionale, lo è diventato ancora di più grazie alla sua presenza (n. 23). E perché ha messo l’immenso universo dei telespettatori nelle condizioni di condividere lo stesso sgomento, la stessa incredulità di quel corrispondente del “Corriere della Sera” che si trovava, quel mattino di settembre, nel cuore di Manhattan (n. 24).

Dalle finestre del settantatreesimo piano dell’Empire State Building […] ho già dato un’occhiata allo scorcio splendido di New York […] La giornata è splendida, il cielo blu intenso, senza nuvole. Di punto in bianco sento un rombo forte, motori di aereo. Mi insospettisco: perché vola così in basso? […] Poi, il “contatto visivo” […] vedo che l’aereo punta esattamente, con determinazione, sui grattacieli del World Trade Center. Per un secondo mi assale un flash back: l’attacco dei terroristi islamici alle due Torri Gemelle, le stesse, nei primi anni Novanta […] La realtà prende il sopravvento. Gli ultimi secondi si rincorrono con lucida, spietata successione. E’ lì, è lì, ha colpito il grattacielo. L’ha preso in pieno. Un boato sordo. Lo squarcio immenso con il profilo del Boeing, le ali un po’ di sbieco. Un buco nero mostruoso, laggiù, alla punta sud di Manhattan. Un attacco suicida. Terroristi. Il simbolo del capitalismo finanziario, il simbolo del potere Usa colpito qui e ora. Non è Hollywood. Non è un action movie finto con Bruce Willis. E’ tutto vero. Davanti ai miei occhi.

Sono le 8:48, ora della costa orientale degli Stati Uniti: l’inizio del conto alla rovescia per la Torre Nord del World Trade Center. Appena diciotto minuti più tardi sarebbe sopraggiunto, diretto dove tutti sappiamo, il secondo Boeing. Diciotto minuti, due aerei, due torri, due commando kamikaze. C’è, come sappiamo tutti, dell’altro: il Pentagono in fiamme, il volo 93 della United Airlines caduto in Pennsylvania, e poi il collasso dei grattacieli, il panico a New York, l’attesa di un primo, provvisorio, bilancio delle vittime (n. 25).

Sono gli ingredienti di una tragedia che però, è necessario sottolinearlo, non è stata solo americana. Quel groviglio di sentimenti ed emozioni ha infatti avviluppato anche noi, ad ogni latitudine, in ogni fuso orario. Un unico, gigantesco, globalizzato bersaglio, colpito da quella che Baricco ha inquadrato come «una paura inedita, mai provata prima», vale a dire «il terrore di vedere la realtà più seria che ci sia, accadere nei modi della finzione» (n. 26):

mentre vedo per l’ennesima volta quell’aereo che vira e centra il totem sberluccicante nella luce del mattino, capisco quello che mi sembra, davvero, incredibile, e anche se mi sembra atroce dirlo, provo a dirlo: è tutto troppo bello. C’è un’ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione. Nei diciotto minuti che separano i due aerei, nello sgranarsi degli altri veri e falsi attentati, nell’invisibilità del nemico, nell’immagine di un presidente che se ne parte da una scuoletta della Florida per andare a rifugiarsi nel cielo, in tutto questo c’è troppa maestria drammaturgica, c’è troppo Hollywood, c’è troppa fiction. La Storia non era mai stata così. Il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura le mette che è uno schifo. E allora perché la storia che vedo accadere in quel televisore è così perfetta?

Ecco, dunque, le parole che riassumono il senso, supplementare ma non secondario, che la televisione ha condensato attorno alla catastrofe americana. Baricco bene ha colto, tra l’altro, come le incredibili immagini precipitate nell’intimità degli schermi domestici abbiano sortito l’effetto di annullare il diaframma tra la realtà e la virtualità: un limes che il diabolico progetto terrorista ha subdolamente bypassato, rendendo indistinguibile ciò che quella linea dovrebbe separare.

“La realtà”, era uno dei commenti più ricorrenti nei giorni successivi, “ha superato l’immaginazione” (n. 27). Nella dinamica dell’attacco si poteva scorgere infatti quasi una «trasposizione degli scenari fantastici» che la fiction di Hollywood ed i videogiochi ammanniscono a profusione (n. 28). E non si è trattato, a giudizio di molti, di una mera combinazione. Stando a Enzensberger, ad esempio, dietro all’ordito degli attentati si celerebbe l’intenzionale, perversa emulazione della «logica simbolica occidentale dell’immagine», che i terroristi avrebbero fatto propria seguendo financo, e «minuziosamente», i copioni dei più noti thriller cinematografici (n. 29). La cui più ardita delle rappresentazioni, ora, appare come una pallida ombra di ciò che abbiamo visto nei teleschermi; o anche, con le parole di Battista, «meno reale del reale» (n. 30).

Un’impostazione che trova d’accordo anche Baudrillard. In un passo del suo recente saggio dedicato proprio alle vicende americane, il celebre autore francese si sofferma sulle pregnanti sequenze televisive degli attentati, sottolineando come esse abbiano finito per «radicalizza[re] il rapporto con la realtà». E definendo quanto accaduto come un «evento-immagine», creato ad arte dai deus ex machina del male (i quali, perciò, sono riusciti a ritorcere contro il «sistema» una delle sue «armi» più raffinate), trae le sue conclusioni (n. 31):

Questa violenza terroristica non è “reale”. E’ qualcosa di peggio, in un certo senso: è simbolica. La violenza in sé può essere perfettamente banale e inoffensiva. Solo la violenza simbolica è generatrice di singolarità. E in questo evento singolare, in questo film catastrofico di Manhattan, si uniscono al punto più alto i due elementi di fascinazione di massa del XX secolo: la magia bianca del cinema e la magia nera del terrorismo. La luce bianca dell’immagine e la luce nera del terrorismo.

La suggestiva compenetrazione con la finzione esibita da un’azione terroristica così «spettacolare» – parola di G. Kepel – nulla toglie però al suo carattere «devastante» (n. 32). Ossia al suo palpabile, crudo consuntivo. Se infatti le trame dei film o dei videogiochi – e non sarebbe proprio necessario ricordarlo – «non contemplano morti vere e sofferenze», l’attacco all’America ha superato, sotto questo profilo, ogni record.

Ed è proprio questo il punto su cui, nel commentare l’immediata apparizione su Internet di un videogame ispirato all’episodio delle Torri Gemelle, Barbiellini Amidei ha voluto attirare l’attenzione. A suo giudizio, quel videogioco segnalava, una volta di più, l’insidiosa osmosi tra reale e virtuale profilatasi l’11 settembre. Un groviglio che rischiava di intrappolare, più di altri, i bambini: che come i grandi, ma meno attrezzati di questi, si abbeverano ad ambedue le fonti e che, di nuovo come i primi, si sono trovati improvvisamente esposti alle immagini del terrore che colpiva gli Stati Uniti (n. 23).

Un sito americano, “Angel Fire”, aveva cominciato a far provare ai ragazzi dallo stomaco più duro un cannoncino montato contro i terroristi sulle Torri Gemelle. Quando appariva la scritta “game over”, il “Defender” del World Trade Center perdeva il turno, le Torri crollavano e si ricominciava da capo […] Milioni di bambini italiani due giorni fa hanno all’improvviso assistito alle stesse sequenze, ma con un inspiegabile inconveniente: al posto del segnale “game over”, lo schermo annunciava “Edizione straordinaria”. Dentro il quieto mondo di “Melevisione”, programma amato del primo pomeriggio della Rete Tre della Rai, irrompeva la tragedia vera di Manhattan. Da una parte un gioco con un’atroce remake della più terribile realtà; dall’altra scene vere, non cancellabili con un clic, finite in mezzo ad uno spettacolo per i più piccoli. Ma quanti ragazzi possono capire la differenza?

Pur redatto da una prospettiva peculiare – l’invito ai genitori affinché stimolassero nei figli una lettura non ambigua dei fatti americani – l’intervento di Barbiellini Amidei ci offre un altro spunto prezioso per riflettere sulla partecipazione generale, mediata dalla televisione, allo sconcerto e all’angoscia degli attentati dell’11 settembre. Un coinvolgimento che, vogliamo insistere su questo punto, è stato convogliato, sia per il valore simbolico del luogo sia per la sopraggiunta disponibilità di un ampio corredo iconografico, soprattutto sulla strage di New York.

E, a ben vedere, l’acme del dramma delle Torri Gemelle risiede nel lasso di tempo intercorso tra gli impatti dei due aerei. Un intervallo durato appena diciotto minuti ma sufficiente perché, nel cuore di Manhattan, accorressero le telecamere delle tv locali e dei grandi networks (cui vanno aggiunte quelle degli amatori già presenti sul posto), alle quali il cinico disegno terrorista aveva affidato il compito di raccogliere e diffondere le terrificanti sequenze del secondo Boeing che si avventa nel grattacielo, dei corpi lanciati nel vuoto, delle Twin Towers che si avvitano su loro stesse (n. 34).

La storia in diretta, insomma: una prassi alla quale, comunque, già ci ha abituato il grande agente storico dei nostri tempi, la CNN (n. 35). E, in fin dei conti, la televisione è proprio questo: un mezzo che, come ricordava Meyrowitz, unifica il proscenio della vita reale alla platea dei telespettatori (n. 36). Una constatazione difficilmente confutabile, ma soprattutto compatibile con quella di Peppino Ortoleva, per il quale il plurimo e truculento attentato negli Stati Uniti è stato «progettato per la televisione mondiale». Per gettare nel panico ed ammonire, cioè, l’intero Occidente (n. 37).

Proprio qui, anzi, si può scorgere uno degli elementi chiave delle azioni del nuovo terrorismo internazionale di matrice islamista, di cui Osama Bin Laden e le organizzazioni di cui lo sceicco saudita muove i fili – Al Qaida e il “Fronte Internazionale per la Guerra Santa contro Ebrei e Crociati” – rappresentano i vessilliferi (n. 38). Un elemento che è stato rilevato da Brian Jenkins, autorevole esperto in materia: i neo-terroristi, ha affermato, più che uccidere molta gente ambiscono ad «essere guardati uccidere da tanta gente» (n. 39).

Quel martedì di settembre, insomma, sarà ricordato anche per la simbiosi realizzatasi tra il dramma di Manhattan e la sua rappresentazione televisiva: un unico messaggio, quello dei terroristi, lanciato “via aerea” su New York e raccolto simultaneamente in tutti i continenti. Una tragedia fattasi media event, e resa ancora più sensazionale da quel preciso frammento temporale. Per via cioè di quel pugno di minuti in cui gli occhi degli operatori televisivi, accorsi per riprendere quello che poteva sembrare una casualità del destino, e gli occhi di uomini e donne di tutto il mondo hanno condiviso il più agghiacciante degli sguardi di morte (n. 40):

Arrivano i primi furgoni delle tv locali, tutti pensano a un incidente, a un incendio, anche se erano sessanta anni da quando un aereo, un bombardiere B25, aveva urtato un grattacielo a Manhattan, l’Empire State Building, e la visibilità era perfetta. Puntano gli obiettivi verso la cima dei palazzi e nei loro visori i cameramen vedono qualcosa che nemmeno il più coriaceo di loro aveva mai visto. Un altro aereo, un 767 con i colori della United, sbuca e punta a 400 chilometri l’ora verso la seconda torre, 18 minuti dopo il primo. Qualcuno sta lottando, nella cabina di comando. L’aereo, carico di carburante come tutti quelli dirottati e scelti appunto per questo dagli assassini, tenta di evitare la torre di cristallo, ma il terrorista vince. Per pochi metri, sbatte contro lo spigolo ed esplode in una bolla di fiamme rosse che New York non aveva più visto da quando il dirigibile Hindemburg bruciò in atterraggio, anche allora sotto lo sguardo di una cinepresa.

Il cuore dell’episodio, dunque, è l’entrata in scena del secondo Boeing, che ha permesso di proiettare non il dramma, ma il farsi del dramma sul gigantesco teleschermo davanti a cui, impietrita, si è trovata la platea mondiale. E dove c’era, tra gli altri, anche colui che aveva contribuito a progettare le torri gemelle, l’architetto Aaron Swirski. Che, dalla sua lontana casa di Tel Aviv, ha visto l’aereo penetrare nella sua creatura e sospingerla verso il punto di non ritorno (n. 41).

Uno “spettacolo” unico, insomma, che ha spinto qualcuno a ravvisarvi addirittura «la più grande opera d’arte di tutti i tempi». Parola di Karlheinz Stockhausen, che sollevando la riprovazione generale ha paragonato l’attentato alle Torri Gemelle ad una «recita», il cui carattere straordinario risiederebbe proprio nella convocazione, entro un palcoscenico universale, di un pubblico immenso, senza confini (n. 42).

Affermazione difficile da condividere, quella di Stockhausen, nel momento in cui è stata pronunciata. Ma che, ad ormai quasi sette mesi da quel giorno, lascia trasparire qualcosa che va ben al di là delle apparenze di un delirio individuale. Quella che per il compositore tedesco è stata una recita, a noi appare infatti come una gigantesca emozione globale, suscitata da un accadimento sanguinoso fattosi icona. O, nella provocazione di Baudrillard, come un «evento assoluto», che l’occhio televisivo ha saputo cogliere in tutta la sua «folgoranza indimenticabile» (n. 43).

Non stupisce, dunque, la scelta del museo americano della radio e della televisione di acquisire le immagini dell’11 Settembre e di catalogarle come “reperti storici”. Un atto dovuto; l’inevitabile conseguenza del ruolo svolto da uno strumento, la televisione, la cui presenza partecipe ha potuto conferire all’evento chiave del nuovo millennio la consistenza di un «drammatico frammento della memoria collettiva» (n. 44).


3. Un lungo pomeriggio

Con una tempestività proporzionale alla straordinarietà dei fatti, la notizia dell’attacco all’America si spargeva per l’intero pianeta. Sono estremamente significative, al riguardo, le foto che ritraggono una scena verificatasi pressoché ovunque, negli stessi momenti, nello stesso modo. Uomini e donne di ogni provenienza, sbigottiti, in lacrime. Gente assiepata davanti ai teleschermi, anche per le strade. Le stesse espressioni, suscitate dalle medesime immagini, con didascalie in lingue diverse.

La televisione è stata una protagonista di prim’ordine di una giornata che è stata sensazionale nel suo complesso: anche, naturalmente, in Italia. Non erano infatti passati che sette minuti (14:55) da quando il primo Boeing aveva terminato la sua folle corsa che Rete Quattro iniziava un’edizione straordinaria del suo telegiornale. Altrettanto, nell’arco di pochi minuti, avrebbero fatto tutte le altre emittenti televisive nazionali: le tre reti della Rai, le altre due della Mediaset (Canale 5 e Italia 1) e la neonata “La 7” (n. 45).

E’ iniziata così, a ridosso dei fatti, una interminabile diretta, andata in onda lungo l’intero spettro televisivo. Con, da un lato, oltre «25 milioni di italiani incollati davanti al televisore», e dall’altro i conduttori, increduli come i primi, intenti a seguire e commentare gli aggiornamenti delle agenzie di stampa e, soprattutto, le immagini delle reti americane (n. 46). Che, come ha scritto Aldo Grasso, stavano trasmettendo (n. 47):

un film orribile, il più terrificante, catastrofico, apocalittico che si possa immaginare. Si chiama “America Under Attack”, secondo la Cnn, o “Terror in America”, secondo Sky News. Ma non è un film, è un incubo, è una terribile realtà seguita in diretta da telecamere sbigottite.

Reti virtualmente unificate, dunque, per un corale commento alle immagini che giungevano dai luoghi delle stragi. Una “maratona” andata avanti fino a sera, interrotta solo ed esclusivamente da brevi servizi sulle altre notizie del giorno e da alcuni “speciali”. E che, proprio come gli attentati per la “grande storia”, lascerà un segno indelebile anche nella storia della televisione italiana.

Venticinque milioni di italiani, si è detto. L’audience complessiva di quel pomeriggio appare impressionante, se confrontata con il dato di un qualunque martedì invernale (n. 48). Non lo è, invero, se pensiamo alla unicità di quel giorno e all’accadimento cui, per sempre, rimarrà associato. Ma quanti di quei venticinque milioni di italiani hanno assistito in diretta alla tragedia? Presumibilmente, una minoranza. E’ plausibile, invece, che il contatto col mezzo televisivo sia avvenuto in buona parte dei casi solo in un secondo momento. In altre parole, quella parte significativa della popolazione del nostro paese che ha assistito al dramma americano davanti ai teleschermi si deve essere sintonizzata dopo aver appreso, in altro modo, la notizia. Dopo, cioè, che i primi atti della tragedia si erano ormai consumati.

Non è superfluo, a questo punto, chiedersi nel dettaglio in quale modo ciò sia avvenuto. Per saperlo, occorre ricostruire la cornice complessiva di un evento che si è immediatamente riverberato dappertutto, stilando un elenco di tutti gli agenti informatori. E quest’elenco non potrà che partire da quello strumento che, con la televisione, ha contribuito a scrivere la storia della comunicazione del XX secolo e che, come la prima, rappresenta «l’onnipresenza di tutto ciò che gli uomini fanno e dicono in qualunque parte del mondo»: la radio (n. 49).

I dati sull’ascolto radiofonico raccolti da Audiradio nella sua rilevazione del 2001 (che parlano di oltre cinquantuno milioni di contatti nel giorno medio) lasciano pensare che una sezione non meno significativa degli italiani sia stata informata degli attentati dalla propria emittente (n. 50). Del resto i principali network hanno emulato lo sforzo delle televisioni, interrompendo la normale programmazione per aggiornare gli ascoltatori, minuto dopo minuto, sull’evoluzione degli eventi. E’ stato così, ad esempio, per quelle del circuito “Radio Rai”, o per “Radio 24 – Il Sole 24 Ore”, che già alle 14:50 iniziava la sua diretta (n. 51).

Diversa, invece, la situazione presentata dall’astro nascente della comunicazione di massa, Internet. Stando ai resoconti di cui disponiamo, la rete delle reti è stata letteralmente presa d’assedio da chi, guidato dalla brama di saperne di più, ha cercato di consultare i notiziari on line. Brama che però, nella gran parte dei casi, è rimasta insoddisfatta. In quest’occasione infatti il Web sembrerebbe proprio aver segnato il passo (n. 52):

Con le fantastiche Torri Gemelle è sembrata crollare anche un altra certezza del mondo avanzato: Internet. Quando, a metà pomeriggio di ieri, i network televisivi internazionali riportavano le voci di un numero imprecisato di aerei dirottati e lanciati su chissà quale città americana […] quando non si sapeva ancora che fine avesse fatto il presidente Bush, milioni di persone a casa, negli uffici di tutto il mondo, hanno cercato informazioni. Magari rassicurazioni, sulla rete. Per qualche ora, è stato impossibile trovarle […] i segni del cedimento si sono avuti subito, a qualche minuto dalla notizia del primo spaventoso schianto al World Trade Center. Chiunque provasse a collegarsi con i maggiori siti di notizie, in Italia e nel mondo, si è scontrato con un’inesorabile lentezza. Poco dopo, quando la tragedia ha oltrepassato i confini dell’immaginazione, ecco l’interruzione dei collegamenti. “Http Error: 500-13 Server too busy”. “Error 404 – Cannot find server or Dns Error”.

Di fronte all’imprevisto assalto, i numerosi siti informativi presenti nello spazio telematico hanno insomma «rivelato i limiti attuali del mezzo» (n. 53). Alcuni di essi, nella concitazione di quei momenti, hanno comunque cercato di correre ai ripari. Creando, per agevolare le operazioni di consultazione da parte dei numerosissimi avventori, un mirror site, una sorta di doppione del sito, in versione esclusivamente testuale: opzione selezionata, ad esempio, dal “Corriere della Sera.it”. In altri casi invece si è scelta la strada di potenziare i server o di eliminare i contenuti non legati ai fatti americani: ha fatto così il quotidiano “Il Nuovo.it”.

Anche se, alla fine, il bilancio delle pagine delle principali news on line visitate in quel giorno è risultato quintuplicato (con, ad esempio, dieci milioni di contatti per “La Repubblica.it”), vi sono pochi dubbi sul fatto che in quest’occasione la rete delle reti abbia dovuto abdicare dalla funzione che si è avocata, quella di consentire un «accesso simultaneo a grandi numeri di persone» all’informazione «in tempo reale» (n. 54). Cedendo perciò il testimone ai media della precedente generazione, televisione e radio, ma anche, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, ad altri strumenti se non a tipologie di comunicazione di natura completamente diversa.


4. 1963: un lontano paragone

La notizia degli attentati, in realtà, non ha circolato esclusivamente attraverso l’azione dei grandi media. Come abbiamo visto, gli italiani che nel corso del pomeriggio dell’11 si sono sintonizzati con un’emittente televisiva erano circa venticinque milioni. Pur aggiungendovi l’opera delle radio, rimane fuori un quantitativo di persone non certo insignificante; che, in buona parte, avrà saputo ugualmente, e anche con celerità, dei fatti di New York e Washington.
Per scoprire come sia accaduto, dobbiamo allora rivolgerci ad altri strumenti se non direttamente a forme di comunicazione informali ed interpersonali. A tal proposito, non sarà inutile guardare a cosa sia accaduto nel lontano novembre del 1963, quando gli americani, e con essi il mondo intero, appresero di un altro avvenimento eclatante: l’attentato al presidente John Fitzgerald Kennedy (n. 55).

Dai risultati di un’indagine, apparsa l’anno successivo sulle pagine di “Public Opinion Quarterly”, emerse che il 68% degli americani in età adulta aveva saputo dell’agguato teso all’auto presidenziale, avvenuto alle 12:30 ora locale, appena mezz’ora dopo. Ad un’ora e mezza, la percentuale era salita al 92% per raggiungere, alle sei del pomeriggio, il 99,8%. Non meno significativi sono poi i dati sulle modalità con cui la notizia è rimbalzata da un punto all’altro della nazione: la ricerca ha messo in luce un sostanziale equilibrio tra i soggetti che l’hanno ricevuta dai media (radio e televisione, con un complessivo 47%) e coloro che ne sono invece venuti a conoscenza dalla viva voce di un’altra persona, anche attraverso il telefono (49%).

Questi dati ci offrono quindi un’interessante testimonianza di come la velocità dell’informazione e la sua penetrazione nel tessuto sociale raggiungano, in situazioni “estreme”, livelli elevatissimi. «Senza paralleli nel passato», sottolineavano gli autori dell’indagine: una frase che possiamo fare nostra, riferendola agli attentati dell’11 Settembre, senza soverchie difficoltà.

Come per l’assassinio di Kennedy, il numero di persone che hanno saputo nel giro di pochi minuti dell’attacco all’America è stato elevatissimo. E non pochi, inoltre, sono stati informati personalmente da amici, conoscenti o sconosciuti, secondo la classica modalità del passaparola («word to mouth», n. 56). Lo vedremo meglio attraverso i risultati della ricerca che abbiamo realizzato su un campione di studenti dell’Università di Udine; indagine che si è proposta, tra le altre cose, di ricostruire la propagazione della notizia dell’attacco all’America valutando, in particolare, due aspetti di grande rilievo: a) la tempestività e b) i canali coinvolti nella circolazione dell’informazione.

Vedremo così quanto tempo è passato da quando il primo aereo andava ad infrangersi sulla Torre Nord del World Trade Center al momento in cui i nostri studenti ne sono venuti a conoscenza, nonché gli strumenti che hanno fatto da tramite. Puntando l’attenzione, in particolare, sulla dicotomia tra mass media da un lato e canali informali dall’altro: categorie che dovranno necessariamente annoverare, per i media, i notiziari on line e, sull’altro versante, dispositivi in auge come i brevi messaggi di testo veicolati dai telefoni cellulari (sms) e le e-mail.

L’inclusione di questi strumenti rappresentava senza dubbio un passo doveroso. Si tratta infatti di tre mezzi di comunicazione che stanno acquisendo, o lo hanno già fatto, una posizione centrale negli orizzonti quotidiani della popolazione italiana in generale e dei giovani in particolare. Le statistiche del settore, del resto, testimoniano eloquentemente l’infittirsi ed il consolidarsi del boquet tecnologico- comunicativo dell’uomo del terzo millennio: basti pensare – per citare solo alcuni dati, relativi a ciò che qui più interessa – agli oltre 47 milioni di utenti di telefonia mobile censiti alla fine dell’anno scorso nel nostro paese, al miliardo circa di sms che transitano ogni mese nell’etere italiano e al 30% circa di case, sempre all’interno della penisola, in cui è presente una connessione Internet (n. 57). Sono cifre che, più che consigliare, rendevano indispensabile un allargamento delle opzioni rispetto a quelle che potevano essere contemplate ai tempi del delitto Kennedy.


5. New York-Italia

Quando e come hanno saputo, i nostri 272 intervistati, dell’attacco all’America? Hanno avuto l’occasione di sperimentare, davanti ai teleschermi, l’emozione di partecipare al farsi della storia? O sono, invece, rimasti per un tempo più o meno lungo ignari di quanto stava accadendo al di là dell’Atlantico? E se è così, per quanto tempo? Hanno assistito anche loro alla maratona televisiva o sono stati informati in altro modo? Era di un giornalista o di una persona comune, la voce che li ha avvisati? E poi, era proprio una voce?

E’ a domande come queste che la nostra rilevazione intende rispondere. Cominciamo quindi con l’occuparci dell’aspetto cronologico, e dunque del tempo intercorso tra il momento iniziale dell’evento, l’impatto del primo aereo sul World Trade Center (ora italiana 14:48), e l’istante in cui qualcuno o qualcosa ha avvisato gli studenti. Per facilitare la raccolta dei dati abbiamo invitato gli intervistati a scegliere tra quattro risposte, ordinate secondo una successione oraria che ha inizio dalle 15:00, ossia – più o meno – dal momento in cui il sistema dell’informazione in Italia ha cominciato la sua grande mobilitazione. Le fasce erano dunque:

• 15:00/16:00 (entro un’ora dall’impatto del primo aereo)
• 16:00/17:00 (tra una e due ore dopo)
• 17:00/18:00 (tra due e tre ore dopo)
• dopo le 18:00 (tre ore dopo o più)

I risultati offrono una sostanziale conferma della natura straordinaria dell’evento, ossia dell’intensità con cui le informazioni sull’attacco all’America hanno circolato, a ridosso dei fatti, nel corso di quel pomeriggio (fig. 1). Ben il 66,9% degli intervistati ha appreso la notizia quando ancora non era passata un’ora dall’incipit. Non meno significativo è il fatto che quasi tutti gli altri soggetti (26,1%) hanno dovuto attendere tra una e due ore, a dimostrazione che il clima di quei momenti ha favorito una rapida propagazione delle informazioni. Un altro 3,3% (9 persone) è stata raggiunta quando ormai entrambe le Torri erano crollate e, nel cuore di Manhattan, si era formato quello che passerà alla storia come Ground Zero. Per le rimanenti 10 persone (3,7%), infine, il margine di tempo è stato di almeno tre ore.


Passiamo ora al canale. Il primo risultato che vogliamo evidenziare ci riporta non tanto ai singoli strumenti, quanto alla loro aggregazione nelle due categorie dei mass media ( televisione, radio, siti internet) e canali informali/interpersonali (passaparola, telefonata, sms, e-mail). In quel convulso, concitato pomeriggio, gli agenti delle due categorie (con rispettivamente il 48,9% ed il 50% delle risposte) si sono ripartiti quasi equamente, proprio come nel 1963, il compito di mettere a parte gli intervistati delle stragi di New York e Washington. E ciò testimonia, tra le altre cose, il significativo effetto di “rinforzo” che i contatti diretti tra gli individui hanno esercitato nei confronti dello sforzo giornalistico effettuato dai grandi media.

Osservati nel dettaglio (fig. 2) i dati attribuiscono la palma del primo posto alla televisione (38,2%), che conferma dunque, senza sorprese, la sua centralità nel contesto della comunicazione di massa. Immediatamente dopo, però, troviamo un canale informale come il passaparola (33,8%) a ricoprire il ruolo di guida dei canali “alternativi”. I quali, comunque, hanno dimostrato di essere tutt’altro che tali, dato che al terzo posto di questa graduatoria troviamo le telefonate (12,5%). Una posizione significativa anche perché lascia alle sue spalle l’altro grande polo dell’informazione, la radio (10,3%).

Televisione, passaparola, telefono e radio sono stati, dunque, i protagonisti di quel processo che ha visto la notizia sugli eventi americani rimbalzare dagli Stati Uniti all’Italia. E, nell’ambito di quel percorso, dalle fonti giornalistiche alle singole persone, secondo una pluralità di modi che includono non solo i canali che abbiamo citato, ma anche gli sms (3,3%), le e-mail (0,4%) e i siti Internet (0,4%). Strumenti, questi ultimi, che condividono l’identità di “new entry” nel sistema della comunicazione, ma che sono rimasti, come illustrato chiaramente dai dati, a margine del processo di disseminazione delle notizie su quello che sarà tramandato come il «martedì nero del nuovo millennio».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Note

  1. I. Man, “Saddam e Osama. Le due scuole del terrore”, La Stampa, 11 ottobre 2001.
  2. Cit. in E. Novazio, “Henry Kissinger: una questione morale fra Europa e America”, La Stampa, 20 marzo 2002.
  3. E. Bettiza, “Bush tra Scilla e Cariddi”, La Stampa, 27 gennaio 2002.
  4. La frase di George W. Bush risale all’11 marzo scorso (cfr. P. Mastrolilli, “Bush: colpiremo chiunque minacci il mondo”, La Stampa, 12 marzo 2002), ma non sono mancati dopo quell’occasione, né nelle settimane precedenti, messaggi di analogo tenore, pronunciati dallo stesso presidente o da altri membri della sua amministrazione. «La guerra durerà oltre questo 2002», aveva annunciato Bush il 6 gennaio, «e l’Afghanistan è soltanto il primo fronte» (L. Offeddu, “Bush: ‘la guerra durerà oltre il 2002”, Corriere della Sera, 7 gennaio 2002). Un concetto che trova immediata eco nelle parole di Donald Rumsfeld, segretario alla difesa degli Stati Uniti, secondo il quale il « compito principale» dell’amministrazione «è continuare ad inseguire Al Qaeda e gli altri gruppi terroristici e controllare che non ci siano paesi che li ospitano, li incoraggiano e permettono le loro attività» (cit. in C. Moore, J. Keegan, “Il nostro problema non finisce con Bin Laden”, La Stampa, 27 febbraio 2002). Si delinea, dunque, un impegno a lungo termine, nell’ambito del quale il focus dell’attività politico-diplomatica (se non direttamente militare) della Superpotenza sarà costituito da un lato dalla lotta al terrorismo, che le cui organizzazioni finiranno nel mirino dovunque siano insediati i suoi gangli, dall’altro lato dal contenimento della minaccia arrecata dai paesi che, secondo l’ormai celeberrima definizione di Bush, formano l’«Asse del Male». L’espressione, nelle parole di Henry Kissinger (“L’Europa non sottovaluti l’asse del male”, La Stampa, 4 marzo 2002), è candidata a rappresentare la situazione che potrebbe derivare dall’instaurarsi di connessioni «tra organizzazioni del terrore estese, ben strutturate ed implacabili (come Al Qaeda), Stati che hanno usato e finanziato il terrorismo (come l’Iran e la Corea del Nord) e Stati che hanno sviluppato (e, nel caso dell’Iraq, anche usato) armi di distruzione di massa»). L’Iraq di Saddam Hussein sarà con tutta probabilità il primo bersaglio delle misure previste dalla “dottrina Bush” sul cosiddetto Asse del Male. Stando ad una recente inchiesta de “Il Sole 24 ore”, la mobilitazione delle forze armate americane sarebbe già in pieno corso: cfr. C. Gatti, “Bush stringe i tempi, Irak nel mirino già in maggio”, Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2002.
  5. G. Riotta, NY. Undici Settembre, Einaudi, 2001, p. 114.
  6. Cit. in A: Farkas, “Nell’attentato morti cittadini di 63 paesi. Annan: una ferita al mondo intero”, Corriere della Sera, 22 settembre 2001.
  7. Sono le parole che il procuratore Paul McNulthy ha usato nel formulare i capi d’imputazione pendenti su Zacarias Massoui, marocchino con cittadinanza francese sospettato di aver partecipato alla preparazione degli attentati dell’11 Settembre. Arrestato tre settimane prima dell’attacco all’America, Massoui è ritenuto il “ventesimo dirottatore”, poiché avrebbe presumibilmente dovuto far parte dei commando che hanno dirottato gli aerei infrantisi sulle Torri Gemelle e sul Pentagono. Il processo a Massoui, che rischia la pena di morte, è in procinto di trasformarsi in un evento dal forte valore simbolico: per gli Stati Uniti, ma anche per l’intera comunità internazionale, che non solo in questa occasione (è il caso, soprattutto, dei combattenti talebani e sospetti terroristi di Al Qaida detenuti alla base militare americana di Guantanamo Bay, sulla costa meridionale di Cuba: cfr. L. Gruber, “Europa & Usa, amici malgrado tutto”, La Stampa, 27 gennaio 2002) ha espresso forti riserve sulla linea adottata dagli Stati Uniti nelle questioni, non solo giudiziarie, inerenti la lotta al terrorismo. Cfr. Ennio Carretto, “Washington chiede la pena di morte per Massoui”, Corriere della Sera, 29 marzo 2002.
  8. B. Biancheri, “Sei mesi di speranze senza pace”, La Stampa, 11 marzo 2002.
  9. “La Grande Sorella” è il titolo di uno dei pregevoli ed accurati saggi dedicati da Carlo Sartori alla televisione, in un filone in cui vengono esplorate le più importanti questioni sociologiche sollevate dall’operare nelle nostre società del mass medium per antonomasia. Cfr. C. Sartori, La Grande Sorella. Il mondo cambiato dalla televisione, Mondadori, Milano, 1989; L’occhio universale. Modelli di sviluppo, programmi e pubblico delle televisioni del mondo, Rizzoli, Milano, 1981; La qualità televisiva, Bompiani, Milano, 1993.
  10. A. Ronchey, “Miserie antiche e miserie moderne”, Corriere della Sera, 4 novembre 2001.
  11. W. J. Ong, Interfacce della parola, Il Mulino, Bologna, 1989.
  12. Realizzata nel gennaio 2002 tramite un questionario strutturato, sottoposto a 272 studenti iscritti alle varie facoltà dell’Università di Udine, l’indagine si è proposta di fare luce su un fenomeno davvero significativo, ovvero la formazione di un ricco e sfaccettato repertorio umoristico (barzellette, sms “grafici”, immagini digitali, videogiochi e altro materiale presente su Internet) ispirato dai vari temi e soggetti posti alla ribalta dalla crisi dell’11 Settembre. Il rapporto di ricerca, che sarà pubblicato nelle prossime settimane, presenterà i risultati integrali della rilevazione, comprensivi di quelli qui riportati. Il campione presenta un sostanziale equilibrio tra la componente maschile (137 soggetti) e quella femminile (135). La maggior parte degli studenti risiede nel territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia (79,8%), cui si affianca una significativa componente veneta (15,1%) e un 5,1% giunto da altre regioni italiane. Per quanto concerne l’età, gli intervistati possono essere suddivisi in due sottoinsiemi quasi equivalenti che comprendono da un lato i soggetti molto giovani, ovvero nati nel 1979 o dopo (49,6%) e dall’altro i meno giovani, nati nel 1978 o negli anni successivi (50,4%).
  13. Cit. in E. Franceschini, “Avverata la mia tragica profezia, questo è un punto di non ritorno”, La Repubblica, 12 settembre 2001.
  14. E’ davvero impossibile riportare anche un quadro parziale degli articoli o dei saggi in cui questi ritornello, “Mai più come prima”, ha fatto capolino: gli esempi riportati qui, nella nota 18 sono sufficienti per rendere l’idea. Ciò che gli attentati dell’11 settembre avrebbero travolto, secondo una interpretazione diffusa, sarebbe il processo di globalizzazione. Non manca, però, chi dissente in tutto o in parte. Secondo Angelo Panebianco (“Di fronte alla guerra”, Il Mulino, L, novembre/dicembre 2001, pp. 1002-1003), ad esempio, la globalizzazione è «un processo andato troppo avanti per poter essere arrestato». L’integrazione dei mercati mondiali, uno dei fenomeni di punta del processo in oggetto, rappresenta infatti per l’autore una «condizione strutturale dell’economia mondiale che non può essere scalfita». Chi lanciava segnali allarmanti, in merito soprattutto alla recessione in atto, sarebbe dunque in errore, in quanto confonde «congiuntura con struttura». E tra gli aspetti strutturali che l’attacco all’America non può cambiare vi è, in primo luogo e a giudizio di G. Sacco (“Nulla più come prima? La globalizzazione dopo l’undici settembre”, Le Spade dell’Islam, Quaderni speciali “Limes”, dicembre 2001), la divisione internazionale del lavoro. Continuerà come prima, a giudizio dello stesso, la delocalizzazione delle attività produttive (e l’affidamento delle fasi più labour intensive) nei paesi esterni all’area OCSE e, in particolare, verso la Cina. Altrettanto deciso è il parere dei curatori dell’indice di globalizzazione A. T. Kearney – Foreign Policy, per i quali «il grosso delle forze che trainavano la globalizzazione appare ancora operante». Per gli stessi autori, ad ogni modo, l’11 settembre avrebbe comunque mietuto almeno una vittima, ossia «la convinzione che un mondo globalizzato dovesse essere necessariamente anche più sicuro» (“Se la globalizzazione riparte l’Europa è in testa”, Global – FP, 13, febbraio 2000). Un giudizio che trova concorde G. Salvini (“La globalizzazione dopo l’11 Settembre”, La Civiltà Cattolica, 153, vol. I, n. 3642, marzo 2002), per il quale gli attentati, pur mantenendo pressochè intatta la forza dirompente della globalizzazione, hanno dimostrato che «il concetto di sicurezza nazionale non esiste più e che nessuno Stato, neppure il più potente, può sentirsi al sicuro sul proprio territorio». Dello stesso tenore è poi l’opinione di M. R. Ferrarese (“La globalizzazione ferita”, Il Mulino, L, novembre/dicembre 2001, pp. 1015-1023), per la quale l’attuale crisi internazionale rischia di compromettere non tanto la globalizzazione in sé, quanto le sue stesse premesse. «Se si intende la globalizzazione come estensione dei confini nazionali ed apertura alla diversità, come accresciuta potenzialità della comunicazione transnazionale e transculturale, come prevalenza dei meccanismi di mercato, ossia dello “scambio” economico», ha argomentato, «tutto ciò appare minato nei suoi presupposti di pace, nelle sue scale di valore, nei giochi di proporzione fra pubblico e privato».
  15. Nell’ambito delle riflessioni che gli attacchi dell’11 Settembre hanno suscitato, un posto di riguardo spetta al rinnovato dibattito sulle tesi di Francis Fukuyama (oltre che a quelle, non meno controverse, di Samuel Huntington, autore dell’ormai celebre The Clash of Civilizations). Docente alla John Hopkins School Advanced International Studies, Fukuyama aveva attirato l’attenzione su di sé predicando la “fine della storia”, esito che – secondo lo stesso – deriverebbe dal crollo dell’utopia socialista e dal contestuale e “definitivo” trionfo dell’ideologia liberale e liberista, verso la quale sarebbero state progressivamente attratte tutte le realtà statuali del pianeta. Un’idea che, come molti hanno rilevato, è stata definitivamente contraddetta dalla crisi internazionale apertasi dopo gli attentati americani, che avrebbe dimostrato la complessità del quadro mondiale, aperto ancora a sviluppi imprevedibili. Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. Nel corso dell’attuale dibattito, lo stesso Fukuyama è intervenuto più volte con articoli che sono stati divulgati anche nella stampa quotidiana del nostro paese: vedi ad esempio Id., “Quella parte dell’Islam che odia l’Occidente”, La Repubblica, 28 dicembre 2001.
  16. Nel corpo dei giornali italiani del 12 settembre, da cui attingiamo gli esempi che seguono, abbondano i riferimenti a Pearl Harbor. Se, nel suo editoriale, il direttore del “Corriere della Sera” (Siamo tutti americani) si è limitato ad evidenziare come l’«imprevedibilità del disegno divino o casuale della storia» abbia posto il presidente George W. Bush «in una condizione persino più difficile di quella che dovette affrontare, dopo Pearl Harbor, Roosevelt», da altre parti la menzione dell’episodio delle Hawaii in relazione agli odierni attentati è stata molto più esplicita. Appare ad esempio nelle interviste a varie personalità. Così Henry Kissinger (A. Brown, “E’ una nuova Pearl Harbor, la risposta deve essere simile”, La Repubblica): «credo che il paragone regga, così come credo che la risposta debba essere analoga. I responsabili di questo attacco devono fare la stessa fine di quelli che ci attaccarono a Pearl Harbor». Segue il Premio Nobel per l’Economia Franco Modigliani, la cui opinione è stata raccolta da R. Petrini (“Evitiamo reazioni nazionaliste, farebbero il gioco dei terroristi”, La Repubblica): «La cosa più vicina è Pearl Harbor. In tutti e due i casi si è trattato di colpi inopinati e a tradimento, contro ogni regola giuridica e morale, che hanno scosso l’America». L’ammiraglio Robert Natter, comandante della flotta atlantica americana, afferma: «Non abbiamo mai visto un attacco come questo. Almeno non dai tempi di Pearl Harbor» (“I caccia pattugliano sul ponte di Brooklin”; Corriere della Sera). Chris Patten, responsabile delle relazioni esterne della Commissione europea, definisce gli attentati come «l’avvenimento più devastante dopo Pearl Harbour» (F. Papito, “La condanna dell’Europa. Prodi: resisteremo al terrore”, La Repubblica). L’articolo di Stefano Silvestri, su “Il Sole 24 Ore”, si intitola addirittura: «Peggio di Pearl Harbor»”. Infine, nel suo editoriale (“Una guerra senza nemici”), il direttore de “La Stampa” parla di «una Pearl Harbor senza Giappone». Questo elenco potrebbe continuare a lungo: se lo fermiamo qui è per mere ragioni di spazio.
  17. M. Molinari, “Un esercito invisibile”, La Stampa, 12 settembre 2002.
  18. S. Romano, La Pace perduta., Longanesi, Milano, 2000. Così, laconicamente, si apriva l’editoriale del numero speciale della rivista “Limes” (La guerra del terrore, ottobre 2001) uscito poche settimane dopo gli attentati: «L’11 Settembre 2001 è finita l’era geopolitica cominciata il 9 novembre 1989». Questo concetto sarà ribadito in più occasioni, da altri autori ed in altri contesti, e già a partire dallo stesso giorno degli attacchi. Quando, ad esempio, l’allora Ministro degli Affari Esteri del nostro paese, Renato Ruggiero (“E’ cambiata la storia”, Il Sole 24 ore, 12 settembre 2001), affermava che quanto «avvenuto a New York e Washington rappresenta […] un fatto che può cambiare il destino stesso del mondo e alterare il senso della storia». Parole che trovano, nel corpo della stessa pagina dello stesso giornale, un’ideale continuazione nelle righe vergate dallo storico Piero Melograni (“Nemici dell’avvenire”, Il Sole 24 ore, 12 settembre 2001), per il quale quell’attentato «segnerà probabilmente una svolta nella storia del mondo». Infine Ezio Mauro (“L’occidente colpito al cuore”, La Repubblica, 12 settembre 2001) è del parere che l’attentato sia «il primo atto di una storia che non conosciamo, perché contrappone un nemico invisibile dell’Occidente e una vulnerabilità improvvisa della superpotenza mondiale egemone. Sappiamo soltanto che la data di ieri cambia il corso della nostra epoca».
  19. “Guerra senza limiti” è il titolo del volume, recentemente tradotto in italiano, di Q. Liang e W. Xiangsui (Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2001), ricco di interessanti riflessioni sulle nuove frontiere della guerra – con ampi riferimenti alle sfide del neo-terrorismo – in un’era contraddistinta dall’evoluzione non solo delle armi, ma anche della stessa natura dei conflitti e dei terreni in cui hanno luogo (basti pensare all’information warfare). Particolarmente interessante è, a nostro avviso, la nozione di “concetto-arma”, adottata dagli autori per evidenziare come strumenti non necessariamente offensivi possano, nelle mani di persone o movimenti privi di scrupoli, tramutarsi in armi mortali: un riferimento che ben si attaglia al caso del dirottamento di aerei civili su obiettivi parimenti civili. Il terrorismo internazionale, come ha sottolineato T. Homer Dixon (“I piani da incubo del prossimo Osama”, Global – FP, 13, febbraio 2000) può causare «dannni tremendi» alle nazioni avanzate sfruttando le opportunità che esse stesse mettono loro a disposizione: approfittando, cioè, dei punti deboli del sistema. E questa «vulnerabilità» si deve soprattutto alla «crescente complessità» dell’assetto delle nostre società, nella cui fitta trama tecnologica i terroristi riescono ad insinuarsi selezionando sia gli obiettivi dei propri colpi (situati possibilmente nei «nodi strategici» come le reti energetiche o di trasporto) sia gli strumenti con cui sferrarli. La «prima regola del terrorista moderno», sottolinea l’autore riprendendo le parole di Langdon Winner, sarà dunque la seguente: «individuare le parti fondamentali e non fungibili del sistema e sabotarle per i proprio scopi». Ad ogni modo, secondo Homer Dixon la più volte ribadita teoria della «bassa portata tecnologica» degli attacchi dell’11 Settembre coglie solo parzialmente nel segno. Se è vero infatti che «i terroristi hanno utilizzato dei semplici taglierini per dirottare gli aerei», quei taglierini hanno rappresentato comunque «le ‘chiavi’ che hanno consentito di trasformare un mezzo di trasporto a elevata tecnologia in un’arma di distruzione di massa a elevata tecnologia». Rimane il fatto che, in tal modo, «i dirottatori sono stati in grado di scagliare sul World Trade Center con mortale precisione una potenza esplosiva pari a un kiloton». Per altri spunti preziosi sulle nuove tecniche e strategie in auge si veda: U. Rapetto, R. Di Nunzio, Le nuove guerre. Dalla cyber war ai Black Block, dal sabotaggio mediatico a Bin Laden, Bur, 2001.
  20. E’ una definizione di Silvestri, che proprio il 12 Settembre annotava come l’America si trovasse di fronte «a un nuovo tipo di guerra, non dichiarata, ma in un certo senso neanche guerreggiata. Una sorta di guerra postmoderna, condotta contro obiettivi civili […] utilizzando strumenti anch’essi civili e “innocenti”, come gli aerei di linea delle grandi compagnie. Una guerra di inaudita crudeltà, che viene condotta a spregio e in aperta violazione di tutte le regole legali e umanitarie su cui, almeno a parole, tutti gli stati sono oggi concordi». Stefano Silvestri, “Peggio di Pearl Harbor”, Il Sole 24 ore, 12 settembre 2001.
  21. F. Venturini, “Il nemico invisibile e lo scontro con l’Islam”, Corriere della Sera, 12 settembre 2001.
  22. Sono memorabili, al riguardo, le foto che ritraggono George W. Bush (che al momento degli attacchi si trovava in una scuola elementare di Sarasota, in Florida: una classica photo opportunity) e il capo del suo staff, Andrey Card, chinato verso di lui a sussurrargli in un orecchio la notizia degli avvenimenti. Cfr. N. Gibbs, “If you want to humble an empire”, Time, Special Issue, September 2001.
  23. G. Turnaturi, “Lo spettacolo delle emozioni”, in B. Cattarinussi (a cura di), Emozioni e sentimenti nella vita sociale, FrancoAngeli, Milano, 2000, pp. 107-110.
  24. L. Ciarrocca, “Ho visto il jet arrivare, era basso con i motori al massimo”, Corriere della Sera, 12 settembre 2001.
  25. Per un commento “a caldo” sugli attentati, come apparso sui giornali italiani del giorno dopo, vedi: R. Cianfanelli, “Ore 8:48: l’inferno di fuoco arriva dal cielo”, Corriere della Sera, 12 Settembre 2001 e A. Zampaglione, “Spazzate via le torri gemelle”, La Repubblica, 12 Settembre 2001. Per una cronaca non meno vivida, ancorché sottoposta al vaglio del “senno di poi”, rimandiamo al pregevole libro di G. Riotta, cit.
  26. A. Baricco, “Quando la storia si presenta come un film”, La Repubblica, 12 settembre 2001.
  27. S. Pistolini, “Finora l’incubo era di celluloide”, L’Espresso, XLVII, 38, 20 settembre 2001. Il concetto secondo cui la realtà avrebbe superato l’immaginazione può essere attribuito, tra gli altri, ad una fonte particolarmente autorevole, il romanziere Tom Clancy. Autore che ha fornito numerose ispirazioni alla fiction americana, Clancy è stato intervistato in varie occasioni dopo l’11 Settembre anche per via di alcune singolari analogie tra gli attentati in America ed il soggetto di una delle sue fatiche (“Debito d’onore”, 1994), nel quale un commando terrorista a bordo di un Jumbo si schianta sul Campidoglio e uccide il presidente degli Stati Uniti. La testimonianza di Clancy, oltre che nel già citato articolo di Pistolini, è stata raccolta anche in: “Scenari da fiction. Ma questo va oltre”, La Repubblica, 12 settembre 2001; “In un libro Tom Clancy aveva già immaginato la strage”, Corriere della Sera, 12 settembre 2001; D. Marino, “In un thriller la cronaca di quei momenti”, Panorama, XXXIX, 38, 20 settembre 2001.
  28. G. Barbiellini Amidei, “Il dolore mostrato ai bambini. Ma quella tragedia non è un gioco”, Corriere della Sera, 15 settembre 2001.
  29. H. M. Enzensberger, “L’assalto delle bombe viventi fenomeno globale irreversibile”, Corriere della Sera, 19 settembre 2001. Osama Bin Laden ha rivelato una lucida padronanza dei meccanismi dei media, abilità che lo “sceicco del terrore” ha manifestato chiaramente con gli acuminati proclami videoregistrati, recapitati alla tv via satellite del Qatar Al Jazeera e poi mandati in onda da quest’ultima. Corredata da alcuni episodi collaterali come il fax inviato pochi giorni dopo gli attentati alla stessa Al Jazeera (M. Càndito, “Bin Laden: L’Islam in guerra contro la croce di Bush”, La Stampa, 25 settembre 2001) e l’intervista rilasciata all’inizio di novembre al quotidiano “Dawn” (H. Mir, “Bin Laden: ho l’atomica e potrei usarla”, La Stampa, 11 novembre 2001), la “strategia mediatica” di Bin Laden inizia con il nastro trasmesso la sera del 7 ottobre: lo stesso giorno in cui ebbe inizio, in una coincidenza senza dubbio voluta e dal forte valore simbolico, l’intervento armato in Afghanistan della coalizione guidata dagli Stati Uniti (vedi G. Olimpio, “Va in onda Bin Laden: avrete sempre paura”, Corriere della Sera, 8 ottobre 2001; E. Galli della Loggia, “Tutti gli uomini nella grotta di Osama”, Corriere della Sera, 9 ottobre 2001; M. Gramellini, “E sugli schermi irrompe la guerra mediatica”, La Stampa, 8 ottobre 2001 e, ivi, M. Candito, “Giuro davanti a Dio, Non cederemo mai”). Dello stesso tenore (al centro dei messaggi vi sono sempre, in sintesi, dei moniti all’Occidente e agli Stati Uniti e l’invito al mondo musulmano ad unirsi alla jihad contro il comune nemico) sono le altre due cassette, mandate in onda rispettivamente il 3 novembre ed il 26 dicembre (cfr. J. Iacoboni, “Anche gli italiani contro di noi”, La Stampa, 4 novembre 2001 e, ivi, G. Cerreti, “Onu, arabi, Europa. I nuovi anatemi di Bin Laden”; M. Molinari, “Osama in tv, si avvera l’incubo di Bush”, La Stampa, 27 dicembre 2001; E. Carretto, “Bin Laden in tv: E’ una guerra contro l’Islam”, Corriere della Sera, 27 dicembre 2001 P. Mastrolilli, “Bin Laden: l’America cadrà anche se io muoio””, La Stampa, 28 dicembre 2001). Fuori da questa cornice si colloca invece il video “trovato” a dicembre nell’Afghanistan ormai liberato e in cui lo sceicco, nell’ambito di un colloquio con un ospite saudita e alla presenza di alcuni suoi luogotenenti, parla della strage dell’11 Settembre lasciando, com’è stato posto in rilievo, intuire apertamente la sua responsabilità nell’eccidio (E. Carretto, “Bush: è colpevole, ora il mondo ha la prova”, Corriere della Sera, 14 dicembre 2001; F. Ceccarelli, “Il medioevo in televisione”, La Stampa, 14 dicembre 2001; M. Molinari, “Rischio di un altro attentato dopo il Ramadan”, ivi). Per approfondimenti, vedi anche S. Romano, “Nascita di un leader in diretta televisiva”, Corriere della Sera, 9 ottobre 2001; F. Ceccarelli, “Il Dottor Terrore”, La Stampa, 13 ottobre 2001; G. Olimpio, “Osama ha scelto i suoi eredi”, Corriere della Sera, 16 ottobre 2001; K. Davi, “Tra Maometto e Dolce & Gabbana”, L’Espresso, 42, XLVII, 18 ottobre 2001; P. Martini, “Bin Laden fa come la Nike”, L’espresso, 42, anno XLVII, 18 ottobre 2001; M. Anselmo, “Due presidenti alla guerra dell’immagine”, Panorama, XXXIX, 43, 25 ottobre 2001.
  30. P. Battista, “Le parole uccise. Il ‘vocabolario dell’ottimismo’ spazzato via l’11 Settembre”, La Stampa, 24 settembre 2001.
  31. J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, pp. 36-39.
  32. G. Kepel, “Jihad. I kamikaze borghesi”, Corriere della Sera, 4 novembre 2001.
  33. G. Barbiellini Amidei, cit. Il videogioco, apparso tra le pieghe del World Wide Web già poche ore dopo gli attentati, aveva comunque fatto parlare di sé ancora prima dell’intervento di Barbiellini Amidei: cfr. “Videogame sulla strage”, Corriere della Sera, 13 settembre 2001.
  34. L’importanza dei diciotto minuti passati tra il primo ed il secondo attacco è stata evidenziata, tra gli altri, da Rapetto e Di Nunzio. A loro avviso, questo intervallo ha fatto sì che la portata dell’assalto risultasse «amplificata dalle telecamere, dai commenti dei cronisti, da quel fumo che sembrava uscire dagli schermi tv, dagli sguardi disperati, dalle urla mute lette sulle labbra di chi usciva dall’inferno». I terroristi quindi, aggiungono gli autori, «hanno consentito al pubblico di salire sul palco e forse anche di entrare nei camerini di questa agghiacciante rappresentazione di morte. Lo hanno fatto costringendo i passeggeri dei voli dirottati a telefonare a parenti e amici, a chiamare FBI e torri di controllo, a urlare la loro disperazione, a far sentire in diretta la loro iniqua esecuzione capitale». U. Rapetto, R. Di Nunzio, cit, p.370-371.
  35. La Cable News Network (CNN), emittente “all news” via satellite di Atlanta, rappresenta, com’è noto, il caso per antonomasia di presenza partecipe della televisione nelle vicende internazionali, siano esse di politica, guerra o di altre categorie di rilevanza giornalistica. Consolidatasi soprattutto con le cronache dalla Guerra del Golfo, l’affermazione di questa emittente e della formula giornalistica che la contraddistingue sarebbe alla base di quello che è indicato come “effetto CNN”. Per capire di cosa si tratti (sia pur in modo sommario e scontando l’enfasi dell’autore del passo che riferiamo) affidiamoci alle parole dell’allora presidente del network Tom Johnson, per il quale quest’effetto si baserebbe soprattutto sul fatto che «le tv nelle redazioni esteri sono quasi sempre sintonizzate sul Cable News Network. E quando Atlanta lancia una notizia, gli altri devono darle almeno un’occhiata, se non copiarla. In situazioni di crisi poi, come la guerra del Golfo o la Somalia, la Cnn diventa addirittura una fonte di informazione ufficiale per tutto il mondo, e anche i governi si sintonizzano per sapere cosa succede, e quali reazioni provocano i loro comportamenti». P. Mastrolilli, “L’effetto CNN secondo la CNN”, Limes, 4, 1997. Per una breve ma penetrante riflessione sullo stesso argomento (significativa, ad esempio, la puntualizzazione sul concetto di “media diplomacy”) si consulti V. Zucconi, “E la storia finì in diretta tv, i vent’anni della “Cnn”, La Repubblica, 12 marzo 2000.
  36. J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1995.
  37. Cit. in S. Poli, “Twin Towers: l’attacco infinito”, Problemi dell’informazione, XXVI, 4, dicembre 2001, p. 400.
  38. Immediatamente individuato come il responsabile del blitz dell’11 Settembre, Osama Bin Laden è il leader di una rete terroristica panaraba (il “Fronte Internazionale per la Guerra Santa contro Ebrei e Crociati”, nato nel 1998 dal sodalizio tra alcune organizzazioni terroristiche islamiche e la celeberrima Al Qaida, la rete che lo sceicco ha fondato nel corso del conflitto tra l’Unione Sovietica ed i ribelli mujaheddin) che della “guerra santa” contro l’Occidente in generale e gli Stati Uniti (il “Grande Satana”) in particolare ha fatto la sua bandiera. Scacciare gli americani “infedeli” dai luoghi santi dell’Islam rappresenta lo scopo primario dello “sforzo” (jihad) di Bin Laden e dei suoi alleati, anche se non manca chi vi intravede un disegno egemonico finalizzato a scalzare le èlites attualmente al potere negli stati musulmani e a impadronirsi per tale strada delle relative risorse economiche e militari (a partire dall’atomica del Pakistan). Non meno importante, tra gli scopi della mobilitazione terrorista, è il desiderio – genuinamente condiviso da molti dei militanti che costituiscono la base delle organizzazioni e che svolgono in prima persona le azioni “militari” – di impedire svolte o progressioni in senso laico nei paesi musulmani o, meglio, di affidare alla legge religiosa (la sharia) il compito di regolare le società di quei paesi. Per un quadro sul nuovo terrorismo internazionale di impronta islamista, sulla figura dello sceicco saudita e le organizzazioni di cui questi muove i fili, rimandiamo a S. Reeve, I nuovi sciacalli. Osama Bin Laden e le strategie del terrorismo, Bompiani, Milano, 2001; P. L. Bergen, Holy War Inc. Osama Bin Laden e la multinazionale del terrore, Mondadori, Milano, 2001. Numerose informazioni utili, anche sulla situazione in Afghanistan e sul quadro internazionale e geopolitico che fa da sfondo alla crisi, sono presenti negli interventi apparsi nei tre numeri speciali della rivista “Limes” (“La Guerra del Terrore”, “Nel mondo di Bin Laden”, “Le spade dell’Islam”), usciti tra settembre e dicembre del 2001 e nel saggio dl celebre giornalista A. Rashid, Talebani. Islam, petrolio e il grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano, 2001.
  39. Cit. in G. Riotta, cit., p. 73.
  40. V. Zucconi, “Apocalisse sugli Stati Uniti”, La Repubblica, 12 settembre 2001.
  41. Guido Olimpio, “Inevitabile il crollo del World Trade. Le fiamme dei jet hanno fuso l’acciaio”, Corriere della Sera, 13 settembre 2001.
  42. R. Lenzi, “Quei terroristi più artisti di me”, L’Espresso, XLVII, 45, 8 novembre 2001.
  43. J. Baudrillard, cit., pp. 7-8.
  44. M. Anselmo, “Questa Settimana”, Panorama, XXXIX, 52, 27 dicembre 2001.
  45. P. Mastrolilli, “Dirette non stop e siti Internet presi d’assalto”, La Stampa, 12 settembre 2002.
  46. S. Poli, cit., p. 401.
  47. A. Grasso, “Sulle televisioni di tutto il mondo va in onda l’apocalisse della diretta”, Corriere della Sera, 12 settembre 2001.
  48. I dati Auditel di Martedì 15 gennaio 2002 – per fare solo un esempio – parlano di un’audience per la fascia 15:00/18:00 pari a poco più di undici milioni di spettatori. L’nformazione l’abbiamo attintea direttamente dal sito dell’Auditel: www.auditel.it.
  49. R. Arnheim, La radio. L’arte dell’ascolto, Editori Riuniti, Roma. 1993, p. 7.
  50. Il dato citato è stato ricavato dalla più recente edizione (che riguarda il periodo compreso tra il gennaio ed il dicembre del 2001) della Indagine sull’ascolto radiofonico in Italia realizzata da Audiradio con la partecipazione di alcuni istituti di ricerca. L’indagine è consultabile al sito: www.audiradio.it.
  51. “Le dirette su radio e tv del Sole 24 Ore”, Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2002.
  52. P. Mastrolilli, “Dirette non stop e siti Internet presi d’assalto”, La Stampa, 12 settembre 2002.
  53. S. Poli, “Twin Towers: l’attacco infinito”, Problemi dell’informazione, XXVI, 4, dicembre 2001, p. 404.
  54. D. De Kerchove, La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa & Nolan, Genova, 1996, p. 63.
  55. P. B. Sheatsley, J. J. Feldman, “The assassination of President Kennedy: a preliminary report on public reactions and behaviour”, Public Opinion Quarterly, 28, 1964, pp. 189-215.
  56. Per un’analisi esauriente del passaparola, preso in esame dai versanti dei rumors (voci) e delle leggende metropolitane e con un ampio corredo documentario, vedi J. Noel Kapferer, Rumors. Uses, intepretations & images, Transaction Publishers, New Brunswick, New Jersey, 1990. Per una trattazione congiunta dei rumors e del gossip (pettegolezzi), un’altra manifestazione paragonabile sotto il profilo del meccanismo di diffusione, rimandiamo invece a G. A. Fine, R. L. Rosnow, Rumor and Gossip: the Social Psychology of Hearsay, Elsevier, New York, 1976.
  57. Il dato sul numero di utenze di telefonia mobile nel nostro paese e sul quantitativo di sms lo abbiamo attinto da: Ufficio Studi Federcomin-IDC, “Il mercato ITC”, Quaderni Federcomin, n. 3, 2001 (disponibile su www.federcomin.it). Per quanto riguarda il numero di case in cui è presente una connessione ad Internet, la documentazione di riferimento è quella presente in CENSIS, La Società Italiana al 2001. 35º Rapporto Annuale sulla Situazione Sociale del Paese, Roma, 2001. Per un’analisi sul boquet degli strumenti della comunicazione di cui sono dotati, sia pur in forme e misure diverse, i gruppi sociali in Italia, si consulti: CENSIS-UCSI, Rapporto sulla comunicazione in Italia, Roma, 2002.
  58. G. Sartori, “Il nemico vero”, Corriere della Sera, 19 settembre 2001.

Anno di Pubblicazione

2002

Editore

Università di Udine

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