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Che cosa mormora l’Intelligence Usa sul rapporto fra Trump e Kim

Pubblicato il 07/02/2019 - Start Magazine

Il secondo summit nucleare tra Stati Uniti e Corea del Nord si terrà in Vietnam tra tre settimane. Il Punto di Marco Orioles dopo le parole di Donald Trump al Congresso nel discorso sullo Stato dell’Unione

Il secondo summit nucleare tra Stati Uniti e Corea del Nord si terrà in Vietnam tra tre settimane. Lo ha annunciato Donald Trump martedì sera al Congresso durante il discorso sullo Stato dell’Unione. “Il presidente Kim e io ci incontreremo ancora il 27 e 28 febbraio in Vietnam”, ha detto il capo della Casa Bianca davanti alla folta platea di parlamentari, ministri e ospiti radunati a Capitol Hill.

“Se non fossi stato eletto presidente degli Stati Uniti”, ha sottolineato Trump, “in questo momento saremmo in una grande guerra con la Corea del Nord”. Affermazione che evidenzia l’intima convinzione del presidente di essere stato il fattore decisivo dietro alla decisione di Pyongyang di arrestare l’angosciante scia di test balistici e nucleari effettuati nel primo anno di vita dell’amministrazione Trump. E che, quindi, è merito suo e soltanto suo se la tensione del 2017 è rientrata, dando spazio alla diplomazia e al tentativo di Usa e Corea del Nord di porre fine alle reciproche ostilità.

“Molto lavoro resta da fare”, ammette Trump, prendendo le distanze dall’ottimismo trionfalistico di pochi mesi fa, quando il presidente si era spinto a dichiarare via Twitter – sull’onda del successo del primo summit con il Maresciallo a Singapore, il 12 giugno scorso – che “non esiste più una minaccia nucleare dalla Corea del Nord”. Le certezze di allora sono state travolte da un processo negoziale che si è rivelato più complicato del previsto. Incapace, soprattutto, di tradurre in pratica le promesse solenni prese a Singapore, dove i due leader si erano impegnati a lavorare congiuntamente per ottenere il risultato sperato da Washington, la denuclearizzazione della penisola coreana.

L’unico punto fermo, nella mente del presidente degli Stati Uniti, è il rapporto personale che si è sviluppato tra lui e il collega di Pyongyang. Un punto che rivendica al Congresso, quando sottolinea che “la mia relazione con Kim Jong-un è buona”. Basteranno la “chimica” e il love affair tra i due leader per fare passi in avanti? Sono in molti, negli Stati Uniti e non solo, a dubitarne.

Sono stati i capi delle agenzie di intelligence a stelle e strisce, la settimana scorsa, a mettere a nudo le loro perplessità. Testimoniando al Senato, il direttore della National Intelligence, Dan Coats, ha detto che “i leader della Corea del Nord considerano le armi nucleari critiche per la sopravvivenza del regime” e che dunque è “improbabile” che decidano di disfarsene. “Questo è quello che i capi dell’intelligence pensano”, è stato il commento di Trump, “e anche io penso che ci sia una buona possibilità” che questo sia vero. “Ma”, ha aggiunto il presidente, “c’è anche una buona chance che faremo un accordo. Penso che (Kim) sia stanco di andare avanti come sta andando avanti. Ha una chance di trasformare la Corea del Nord in un tremendo gigante economico. Ha una chance di essere una delle grandi potenze economiche nel mondo”.

È proprio sugli incentivi economici che si fonda la strategia dell’amministrazione Trump. Nel momento in cui il presidente annunciava al mondo luogo e data del nuovo summit nucleare, il suo rappresentante speciale per la Corea del Nord Stephen Biegun metteva piede nella penisola coreana dove, insieme ai negoziatori del Nord, dovrà definire l’agenda e i temi dell’incontro in Vietnam. Secondo il Washington Times, l’asso nella manica di Biegun è un piano economico che Pyongyang non potrà rifiutare. L’America metterà nel piatto della trattativa garanzie di investimenti in progetti di sviluppo ed infrastrutture per un controvalore di parecchi miliardi di dollari. Denaro che sarà messo a disposizione da Giappone, Corea del Sud e Unione Europea.

“Queste”, ha spiegato al Washington Times una fonte al corrente del piano di Biegun, “sono garanzie che possono essere agitate sotto al naso di Kim per assicurarlo della pentola d’oro che lo aspetta dall’altra parte dell’arcobaleno”. In pratica, osserva Patrick Cronin dell’Hudson Institute di Washington, si tratta di dire a Kim: “I nostri alleati ed amici vogliono mettere soldi in un conto bancario globale di garanzia con il tuo nome scritto sopra”, chiedendo in cambio della ricca posta “significativi passi verso la denuclearizzazione”.

La scelta del luogo del summit rientra a fagiolo in questa strategia. Il Vietnam è un regime comunista come la Corea del Nord, con il quale nutre da sempre relazioni fraterne. Ma è anche un paese che – a differenza del Nord – ha deciso di uscire dall’isolamento per integrarsi perfettamente nell’economia globale. E, nello sforzo di arricchirsi, ha anche messo da parte l’acredine con l’ex nemico americano, diventato nel frattempo un importante partner commerciale.

Se il mezzo è il messaggio, come diceva Marshall McLuhan, la scelta del Vietnam come sede del summit è stata pensata per lanciare un poderoso messaggio alla Corea del Nord. Ad articolarlo, era stato il Segretario di Stato Mike Pompeo, durante una visita in Vietnam la scorsa estate: “Ho un messaggio per il presidente Kim Jong un: il presidente Trump crede che il tuo paese possa replicare questo percorso. Dipende da te se coglierai l’occasione”.

Il calcolo degli Stati Uniti è dunque che la Corea del Nord ceda alle lusinghe, e si convinca a rinunciare definitivamente al suo arsenale nucleare e balistico. Questa volta però gli Usa esigeranno dall’interlocutore impegni precisi e circostanziati, uscendo dalla vaghezza delle promesse fatte a Singapore. Incontrando a settembre il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in, Kim aveva fatto intendere di essere pronto a fare il proprio passo, dicendo di essere pronto a smantellare il complesso di Yongbyon, dove il regime produce il combustibile per le armi nucleari. Lo avrebbe fatto, però, solo se Washington avesse contraccambiato prendendo misure “corrispondenti”.

La richiesta avanzata da Pyongyang è l’allentamento delle sanzioni che strangolano la sua economia. E l’amministrazione Trump, pur di dimostrare che il negoziato funziona, potrebbe cedere. Non è un mistero, d’altra parte, che la soluzione dell’enigma nucleare del Nord è considerato dal presidente Usa come un traguardo da centrare a tutti i costi per poterlo strombazzare durante la lunga campagna per la rielezione.

In ballo, peraltro, c’è molto di più delle armi di distruzione di massa di Pyongyang. Come osserva la corrispondente da Seul di BBC News, Laura Bicker, per Trump la partita potrebbe portare ad un risultato ancora più ghiotto: essere il presidente che pone fine alla guerra di Corea. Un trattato di pace che archivi un conflitto deflagrato nel lontano 1950 e conclusosi con un mero armistizio è una priorità per Washington come per Pyongyang. Una convergenza su questo fronte potrebbe dunque partorire quello che, per The Donald, sarebbe senza dubbio il successo più importante della sua politica estera.

Di qui l’entusiasmo con cui la Casa Bianca intraprende la strada verso il Vietnam. Dove, nota Eric Talmadge dell’Associated Press, Trump è chiamato a dimostrare che “la sua relazione con Kim ha uno scopo che va oltre le photo op”. Se il summit sarà solo l’ennesimo spettacolo a favore dei media mondiali, o una pietra miliare nel cammino verso la pace, lo sapremo il 28 febbraio.

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