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Ecco follie e rischi della nuova guerra di Erdogan ai curdi

Pubblicato il 11/10/2019 - Start Magazine

Che ne sarà dei diecimila tagliagole Isis e dei circa 70 mila loro familiari che i curdi, dopo aver sconfitto e catturato, tenevano sott’occhio per tutti noi, è solo una delle domande spinose poste dalla nuova guerra di Erdogan. L’articolo di Marco Orioles

Noncurante della condanna del mondo, dei moniti delle agenzie umanitarie e dello stesso parziale dietro front di Donald Trump rispetto al via libera concessogli nel weekend, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dato il via mercoledì all’offensiva contro il Rojava, la regione nordorientale della Siria al confine con la Turchia che le milizie curde delle SDF, verso cui il Sultano ha un conto aperto, controllano sin dai giorni in cui vi hanno cacciato – con il sostegno decisivo degli Usa – le bandiere nere dell’Isis.

“Le forze armate turche – ha twittato Erdogan l’altro ieri pomeriggio, pochi minuti dopo l’inizio della campagna aerea – insieme all’Esercito Nazionale Siriano hanno appena lanciato l’Operazione Primavera di Pace (il cui obiettivo è) impedire la creazione di un corridoio del terrore al nostro confine meridionale, e di portare la pace nell’area”.

Come osservava ieri Al Jazeera, il raggio d’azione dei bombardamenti turchi è più ampio di quanto avessero previsto gli analisti, convinti che le operazioni sarebbero state assai più limitate. E invece sin dalle prime ore i jet di Ankara hanno preso a colpire obiettivi in una fascia estesa per 300 km lungo il confine curdo-siriano, affondandovi per oltre cinquanta km. Bombe turche sono cadute tanto ad est del confine, nei pressi della cittadina di Qamishli, quanto ad ovest nei paraggi di Kobane.

Poche ore dopo l’inizio della campagna aerea prendeva il via anche l’invasione da parte delle truppe di terra che da tempo erano ammassate nei pressi del confine. Lo ha confermato il Ministero della Difesa turco in un post su Twitter con cui si annunciava l’avvio della “operazione di terra ad Est dell’Eufrate”.

Nelle stesse ore, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu precisava i limiti della missione affidata ai propri soldati: avanzare per trenta km in territorio siriano – distanza necessaria, a suo dire, per impedire ai missili curdi di colpire la Turchia –  e fare piazza pulita di tutti i “terroristi” (curdi) incontrati sul cammino.

La cronaca delle prime 48 ore di combattimenti riferisce di forti scontri e della conquista, da parte delle forze di Ankara e delle unità alleate, di almeno 11 villaggi nei pressi di due città siriane poste a 75 km l’una dall’altra: si tratta di Ras al-Ayn, dove sorge parte dell’apparato amministrativo del Rojava, e di Tel Abyad, che rappresenta uno dei principali obiettivi dell’offensiva.

I media hanno descritto un fitto fuoco di artiglieria in partenza dalla parte turca del confine e di esplosioni e colonne di fumo alzarsi dai luoghi presi a bersaglio. Il Ministero della Difesa turco ha reso noto di aver colpito, dall’aria e da terra, almeno 181 obiettivi nemici, mentre Erdogan rivendicava la morte di 109 “terroristi”.

Peccato che il Ministero della Difesa, poche ore dopo, era costretto ad alzare non di poco la stima del Rais, fornendo la cifra di 228 militanti uccisi.

Cifre contraddette però dai rapporti più prudenti dei media. Per l’Associated Press, ad esempio, il bilancio per i curdi sarebbe di otto combattenti morti, mentre sul fronte dei civili si parla di sei persone rimaste uccise sotto il fuoco dell’artiglieria turca, compreso un bimbo di nove mesi e tre ragazzine sotto i quindici anni.

Ma i numeri più importanti, in questo contesto, sono quelli forniti dall’International Rescue Committee, che parla di 64 mila persone in fuga da città come Ras al-Ain e Darbasiya, che sarebbero ormai deserte. Ieri pomeriggio l’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’Onu alzava la stima degli sfollati ad almeno 70 mila persone.

Le scene viste dagli osservatori presenti sul terreno sono in effetti da tregenda: dopo aver raccolto in gran fretta i loro miseri averi, gli abitanti dei villaggi si sono messi in marcia, chi poteva a bordo di auto, pickup e motociclette, gli altri a piedi. Le agenzie umanitarie parlano di almeno mezzo milione di persone che stanno vagando nei pressi del confine alla mercé del fuoco incrociato.

È su questo sfondo che ieri si è riunito a New York a porte chiuse il Consiglio di Sicurezza Onu su richiesta di cinque membri europei (Gran Bretagna, Germania, Francia, Belgio, Polonia), mentre da Copenaghen il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres invocava una urgente “de-escalation”.

Ma la riunione dell’alto consesso si è chiusa con un nulla di fatto a causa del veto posto da Usa e Russia alla risoluzione presentata dai cinque europei, che chiedevano alla Turchia di “cessare l’azione militare unilaterale”.

Se l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia ha giustificato il proprio voto ricorrendo al classico argomento secondo cui il dossier siriano va affrontato in modo organico, includendovi dunque il tema della presenza di truppe straniere sul suolo siriano , l’inviato degli Usa, Kelly Craft, ha spiegato ai reporter che Donald Trump ha “chiarito abbondantemente” che gli Usa sono contrari all’operazione turca ma che ciononostante Ankara ha ora la “piena responsabilità” di proteggere i curdi e le altre minoranze etniche e religiose nonché di assicurare la custodia delle migliaia di jihadisti detenuti nel Rojava. In caso di“fallimento”, ha aggiunto Craft, ci saranno “conseguenze”.

Conscio del profondo malumore in seno all’opinione pubblica americana e mondiale, nonché al suo stesso partito, per la decisione con cui, nel weekend, ha ordinato il ritiro dei soldati Usa presenti nella zona interessata ora dall’operazione turca, Donald Trump ha scagliato nel web un paio di tweet contundenti con i quali, tra le altre cose, ha ribadito che se la Turchia “non giocherà secondo le regole (…) sarà duramente colpita da un punto di vista finanziario”.

Ci ha poi pensato un funzionario del Dipartimento di Stato a chiarire ulteriormente, parlando alla Reuters, il significato del monito presidenziale: per la Turchia saranno guai seri qualora si macchiasse di azioni “disumane e sproporzionate” contro i civili o se addirittura ricorresse alla “pulizia etnica”.

E mentre il presidente francese Emmanuel Macron ricorreva a Twitter per unirsi al coro di condanna,  il suo ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha chiesto la convocazione urgente della coalizione anti-Isis per discutere di una questione tutt’altro che irrilevante: la sorte degli jihadisti detenuti nelle galere e nei campi gestiti dalle SDF.

La preoccupazione di Le Drian è giustificata anche dalla notizia, diramata dalle autorità curde ieri pomeriggio, secondo cui l’artiglieria turca ha colpito una prigione dove sono custoditi “i più pericolosi criminali di sessanta nazionalità”.

Nessuno sembra voler credere alle rassicurazioni turche, ribadite ieri dal ministro Cavusoglu,. secondo cui a quei pericolosi detenuti ci penserà d’ora in poi Ankara (anche se il ministro ha precisato di volersi assumere la responsabilità dei soli campi di detenzione presenti nella zona cuscinetto che la Turchia intende occupare e amministrare). Non giova alla chiarezza la precisazione di Bloomberg secondo cui gli Usa hanno sì ricevuto impegni solenni da parte della Turchia, ma nel contesto di una discussione ancora embrionale e carente di dettagli.

Sarà anche per questo che ieri il New York Times ha fatto sapere ai propri lettori che l’esercito Usa in queste ore ha trasferito decine di jihadisti dalle carceri curde in luoghi sicuri. Tra le persone trasferite ci sono i due cittadini britannici ancora vivi del cosiddetto gruppo dei “Beatles”, distintisi per le torture inflitte ai prigionieri occidentali e soprattutto per le esecuzioni capitali degli stessi a favore di telecamere all’alba del Califfato.

La notizia del NYT ha ricevuto una conferma diretta poche ore dopo dallo stesso Trump, che in una conversazione a Washington con i reporter ha affermato che gli Usa stanno trasferendo “un certo numero di combattenti Isis (…) in location differenti dove saranno al sicuro”.

Che ne sarà dei diecimila tagliagole e dei circa 70 mila loro familiari che i curdi, dopo aver sconfitto e catturato, tenevano sott’occhio per tutti noi, è solo una delle domande spinose poste dalla nuova guerra di Erdogan.

La prospettiva di una loro fuga dovrebbe far accapponare la pelle a tutti i Paesi da cui provengono quei combattenti – 2 mila dei quali, ricordiamolo, sono giunti in Siria dal Vecchio Continente – facendoli pentire amaramente del rifiuto opposto per mesi alla richiesta curda e americana di rimpatriarli e processarli.

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