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Siria, ecco come Trump scarica i curdi ma impantana la Turchia e squassa il gioco di Russia e Iran

Pubblicato il 08/10/2019 - Start Magazine

Perché favorire indirettamente l’operazione turca in Siria finisce, dal punto di vista degli Usa di Trump, per servire i propri interessi. L’approfondimento di Marco Orioles

Nel commentare l’ennesima mossa choc di Donald Trump – l’annuncio del ritiro delle truppe schierate nel Nordest della Siria e la contestuale luce verde fornita all’offensiva in quell’area delle truppe turche – sarà bene non saltare a conclusioni facili ed emotive e considerare invece il contesto più ampio in cui quella decisione è maturata.

Prima di parlare cioè di un colpo di testa solitario del tycoon, che abbandona al loro destino i valorosi alleati curdi con l’esito già scritto di causarne il massacro e di squassare un’area devastata da otto anni e mezzo di guerra civile e massacri jihadisti, sarà bene richiamare alcuni elementi che non solo smentiscono l’apparenza, ma lasciano intravedere – per usare l’espressione di un articolo di ieri della rivista Limes – una astuta “trappola” in cui l’America trumpiana starebbe facendo cadere l’ormai intrattabile (ex) alleato Recep Tayyip Erdogan.

Partiamo, con ordine, dalla dichiarazione diramata nella tarda serata di sabato dalla Casa Bianca che possiamo leggere anche noi grazie al tweet di Ben Watson, commentatore di Defense One Radio:

Nel comunicato si fa riferimento ad una telefonata intercorsa tra The Donald e il suo collega turco, in cui quest’ultimo avrebbe reso noto al primo la sua intenzione di “procedere presto con la sua operazione da lungo tempo pianificata nel Nordest della Sira”. Operazione che, la Casa Bianca precisa, gli Usa “non appoggiano e nella quale non saranno coinvolti”, ma che vedrà comunque i soldati a stelle e strisce schierati in loco abbandonare seduta stante il terreno.

Per quanto siano poche, le parole ricamate nello statement sono ovviamente esplosive anche se nulla sono in confronto a quelle che lo stesso Trump scaglierà di lì a poco nel web, con un lungo thread Twitter zeppo di invettive ma il cui succo si trova nella frase in cui viene chiarito il senso ultimo della sua decisione: “dopo quasi tre anni, è giunta l’ora per noi di uscire da queste guerre infinite ridicole, molte delle quali tribali, e riportare a casa i nostri soldati”.

Sono bastati il telegramma partito dalla Casa Bianca, e il successivo cinguettio del suo inquilino, per scatenare i media non solo americani, che vi hanno intravisto sostanzialmente due cose. Anzitutto, l’impazienza di Trump nei riguardi di una missione che lui sostanzialmente considera conclusa – l’Isis, come ha ripetuto ossessivamente in questi mesi, è stato sconfitto – e che richiede ora solo di archiviarla per sempre, facendo armi e bagagli e incassando i dividendi politici della vittoria in chiave elettorale.

Ma è la seconda implicazione della mossa trumpiana quella che suscita la maggiore eco nei media e nell’opinione pubblica. In quelle parole, infatti, tutti – ma proprio tutti – vi hanno intravisto una sorta di via libera del presidente Usa all’offensiva che la Turchia sta preparando da mesi – e di cui Erdogan aveva parlato l’ultima volta pubblicamente appena 24 ore prima –  e per la quale esiste già un nome, “Fonte di pace” (Barış Pınarı Hareketi).

Offensiva con cui il Sultano non solo regolerà una volta per tutte i conti con gli acerrimi avversari curdo-siriani (alleati degli Usa) delle SDF, ma procederà con l’esecuzione di un piano da lui più volte illustrato– lo ha fatto anche durante l’Assemblea Generale Onu – con cui punta a ricollocare in una “safe zone” ritagliata ad hoc ad est dell’Eufrate centinaia di migliaia di rifugiati siriani attualmente accolti in Anatolia.

L’indignazione per quello che un fitto coro di politici, analisti e commentatori ha subito preso a definire come un atto inconsulto e soprattutto contrario agli stessi interessi dell’America da parte del capo della Casa Bianca viene rafforzata dalla contestuale rivelazione che il presidente, anche in questa occasione, sembrerebbe aver agito di testa propria.

A Fox News, alcuni esponenti del Pentagono confessano infatti di essere rimasti “scioccati” da un ordine che li ha “presi completamente alla sprovvista”, mentre il New York Times rileva come l’ordine di Trump entri in conflitto con “le raccomandazioni dei vertici del Pentagono e del Dipartimento di Stato”, che continuavano a nutrire la speranza di poter “conservare almeno una piccola presenza di truppe nel nordest della Siria per continuare le operazioni contro l’Isis e agire come contrappeso nei riguardi di Iran e Russia”.

A questo scollamento tra gli istinti del presidente e le valutazioni del resto del governo Usa, Politico aggiunge un ulteriore dettaglio, notando come appena tre giorni prima che Trump prendesse questa decisione, il suo Segretario alla Difesa Mark Esper aveva parlato al telefono con il suo omologo turco Hulusi Akar, con il quale sembrava ormai essersi consolidata l’intesa su un “meccanismo di sicurezza” concordato dalle due potenze per il pattugliamento congiunto di una “safe zone” nel nordest della Siria. Un pacchetto pensato anche se non soprattutto per togliere alla Turchia ogni tentazione di invadere quella zona.

In un tweet, il reporter di Politico Wesley Morgan riporta un frammento della conversazione intercorsa tra Esper e Akar, per sottolineare la distanza siderale tra un processo politico-militare faticosamente negoziato dagli apparati di governo e delle forze armate Usa con le controparti turche, e un presidente che se ne frega altamente e preferisce assecondare i suoi sbalzi d’umore:

Nelle ore immediatamente successive, Trump cercherà di rintuzzare queste accuse, negando di aver deciso tutto in splendido isolamento e giurando invece di essersi “consultato con tutti”. A tal proposito, la CNN – che non perde mai l’occasione di punzecchiare il magnate newyorchese – ha ascoltato due ufficiali del Pentagono che riferiscono come sia il Segretario Esper che il nuovo capo degli Stati Maggiori Riuniti, generale Mark Miller, fossero stati messi al corrente.

Il caos, insomma, circonfonde il nuovo caso creato dalla furia trumpiana. Caos che richiederà qualche ora per intravedere qualche spiraglio di luce. Sguinzagliati a caccia di dettagli, i reporter del New York Times contattano alcuni membri del governo al corrente della situazione che offrono alcune precisazioni: ciò che Trump ha ordinato non è il ritiro completo del dispositivo Usa in Siria, ma solo il ridislocamento di una sua piccola porzione – si parla di 100-150 soldati – attualmente schierata nella zona interessata dall’imminente avanzata turca.

Le fonti di Reuters e CBS abbassano addirittura il numero di soldati trasferiti ad appena qualche decina, specificando che saranno spostati in un luogo non precisato ma dove saranno comunque al riparo dal “fuoco incrociato” tra truppe turche e curde che viene ormai dato per certo.

Grande insomma è la confusione del cielo, ma è questa la situazione nella quale Erdogan, a poco più di 24 ore di distanza dal comunicato della Casa Bianca e dal tweet di The Donald, può far sapere al mondo che i soldati Usa hanno cominciato ad evacuare la zona, lasciando così intuire che per l’inizio della sua offensiva in Siria è ormai solo questione di tempo.

Ed è proprio in questo quadro surreale, dove ognuno può leggere quel che meglio crede, che si inseriscono le nuove dichiarazioni di Trump che – conscio di aver appena messo in subbuglio mezzo mondo oltre che il suo stesso governo – fa partire dal suo account Twitter una bordata all’indirizzo del beneficiario della sua decisione precedente, ossia proprio Erdogan.

Con un avviso come sempre scevro dalle forme ricamate della diplomazia, il presidente turco viene dunque ammonito a non prendersi troppe libertà, pena la più dura delle rappresaglie economiche. Una minaccia ribadita poche ore dopo quando, parlando ai reporter presenti nella Casa Bianca, il tycoon ha spiegato loro di aver avvisato telefonicamente Erdogan che il suo Paese potrebbe ritrovarsi con “un’economia decimata” qualora le sue truppe decidessero di agire in modo “inumano” in Siria.

È proprio qui che cominciamo a intravedere i segni di quella “trappola” tesa dagli Usa ad Erdogan cui faceva cenno Limes. Segni che ritroviamo iscritti anzitutto nelle parole con cui alcuni ufficiali Usa hanno spiegato a Reuters che la Turchia, qualsiasi cosa intenda fare in Siria, non solo non potrà più beneficiare del meccanismo di coordinamento dello spazio aereo gestito dagli Usa in quella zona, ma sarà anche tagliata fuori dal dispositivo di intelligence e sorveglianza garantito sempre dagli americani.

Gli Usa, insomma, lasciano fare ma non prima di aver chiarito alla Turchia che sarà da sola in quest’avventura e da sola dovrà gestirne le conseguenze. Conseguenze che, dal punto di vista degli americani, prospettano – pur a fronte del duro prezzo da pagare in termini di popolarità – alcuni frutti inattesi quanto squisiti.

Come spiega Limes, Washington sta per “attirare i turchi nella trappola siriana” al fine di “solleticarne gli istinti imperiali per affogarli nell’Eufrate”. Gli Usa, in altre parole,  intendono assecondare la “grande strategia neokemalista” di Erdogan “i cui obiettivi finali sono i territori del Patto Nazionale: Aleppo, Mosul, Kirkuk”. Un disegno imperiale, per l’appunto, un cui “tassello” fondamentale è proprio l’operazione ad Est dell’Eufrate che è da mesi sulla bocca minacciosa del presidente turco.

Operazione che, nel calcolo degli americani, è anzitutto destinata fatalmente ad impantanarsi a causa della reazione dei curdi, che – come evidenziato dal tweet del portavoce delle SDF, Mustafa Bali – hanno deciso di vendere cara la pelle.

Ma l’operazione, aggiunge Limes, vedrà soprattutto la Turchia avvicinarsi “alla zona d’influenza persiana”, con l’ovvio risultato di “irrigidire il confronto tra Ankara e Teheran” la cui recente collaborazione Washington non può che sperare di compromettere.

Ma c’è un ulteriore motivo per cui favorire indirettamente l’operazione turca in Siria finisce, dal punto di vista degli Usa, per servire i propri interessi.

L’intervento turco ad est dell’Eufrate non può infatti che sconquassare l’intesa crescente tra la Turchia e la Russia di Putin, che della Siria è diventato com’è noto il kingmaker anche grazie al coordinamento e al dialogo, in chiave anti-occidentale, con Ankara e Teheran.

L’ultima mossa della Casa Bianca trumpiana insomma è tutto fuorché quello che appare ad uno sguardo superficiale. Di certo, riflette i costumi e le abitudini di un leader che ogni giorno di più assomiglia ad un ibrido tra l’Orlando Furioso e Machiavelli.

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