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Integrazione disintegrata e fondamentalismo delle seconde generazioni

Pubblicato il 17/03/2015 - Giornale dell'Umbria

Il mistero delle seconde generazioni. La ghettizzazione preferita all’ambientazione. La “segregazione formatia” nelle scuole da parte dei figli degli immigrat. Jihadi John e gli altri foreign fighters che dimostrano la scomparsa della millenaria divisione tra “amici” e “nemici. Un dialogo con il professor Marco Orioles, docente alle Università di Udine e Verona, autore de “E dei figli, che ne facciamo? L’integrazione delle seconde generazioni di immigrati”.

I fratelli Kouachi, responsabili dell’attentato al giornale Charlie Hebdo, erano cittadini francesi di seconda generazione. Lo era anche Ahmed Merabet, il poliziotto ucciso. Lo era Amedy Coulibaly, che ha freddato nelle stesse ore Clarissa Jean-Philippe, vigilessa originaria della Martinica, prima di asserragliarsi nell’Hyper Chacher. Non si era detto che nelle seconde generazioni il problema dell’integrazione sarebbe stato risolto dall’inserimento scolastico, dall’accoglienza, dalla teoria del “melting pot”?

Come ben sanno gli organismi di sicurezza di tutta l’Europa, il terrorismo di matrice islamica oggi ha il volto e le braccia di cittadini europei, immigrati di seconda generazione, ragazzi nati, cresciuti, socializzati e scolarizzati qui. Si chiama jihadismo “autoctono” o, come dicono gli anglosassoni, “homegrown”. C’è una linea che unisce l’attentato a Charlie Hebdo e l’assassinio del regista olandese Theo Van Gogh di dieci anni prima: in entrambi i casi, gli artefici erano musulmani di seconda generazione che hanno eseguito una sentenza di morte emanata dalle centrali dell’Islam radicale, che reputa “blasfeme” le idee e le iniziative di Charlie Hebdo e di Van Gogh ed esorta i fedeli a eseguire di propria iniziativa la sentenza. Contrariamente alla vulgata, che associa questi episodi a problemi di integrazione, chi studia seriamente questi fenomeni esclude che vi sia necessariamente questo legame. L’assassino di van Gogh era un operatore di comunità diplomato in un liceo di Amsterdam. Il jihadista più famoso, che tutti conosciamo come “Jihadi John”, era cresciuto a West London, che non è certo una banlieue, ed aveva in tasca una laurea in informatica. Le motivazioni della radicalizzazione dei musulmani europei vanno cercate altrove e poco hanno a che fare con le diseguaglianze economiche e col disagio dell’immigrazione.

Jihadi John ha svelato a chi non voleva vederlo, che il pericolo, l’inquietante, può nascondersi e crescere anche nelle normali famiglie inglesi. Il male quindi è ancora più banale di prima?

Come dicevo prima, Mohammed Emwazi alias Jihadi John fino all’immatricolazione all’università era un insospettabile studente londinese. Amava i Simpsons e il calcio, indossava berretti da baseball. Tutti lo ricordano come un ragazzo vivace e socievole. Poi, però, si è imbattuto nel circuito estremistico legato alla jihad somala, che lo ha indottrinato e poi convinto, subito dopo la laurea, ad andare in prima linea. L’intelligence glielo ha impedito e lo ha inserito nella lista dei sorvegliati speciali. Ma nel 2013 è riuscito a sgattaiolare in Siria dove, secondo molte testimonianze, si è subito distinto per zelo ed efferatezza. L’ISIS ha presto intuito di avere un asso nella manica: un jihadista occidentale che parla una nostra lingua è perfetto per lanciare messaggi intimidatori all’Occidente e attirare in Siria altri aspiranti jihadisti di casa nostra. Di qui la fabbrica audiovisiva horror che tutti conosciamo. Se c’è qualcosa di banale in tutto ciò è la sua prevedibilità.

Lei nel suo libro “”E dei figli, che ne facciamo? L’integrazione delle seconde generazioni di immigrati” fa una disanima di quanto sta succedendo. Chi sono questi ragazzi?

Il mio percorso di studio delle seconde generazioni di immigrati si è imbattuto inesorabilmente nel caso dei giovani musulmani, che sono l’oggetto del contendere in quella che uno studioso ha chiamato “la battaglia d’Europa”: la lotta tra chi li vorrebbe “sottomessi” alle correnti oltranziste dell’Islam e chi, invece, auspica la nascita di un Islam europeo che concili la tradizione religiosa con i principi e i valori della civiltà occidentale. Sebbene non siano rappresentativi di un insieme di persone, le seconde generazioni, che conta al suo interno svariate origini e appartenenze, i musulmani rappresentano senza dubbio il caso più problematico e meno prevedibile quanto agli esiti del processo di integrazione.

Che ruolo gioca la scuola nella loro formazione?

Tutti gli studi fatti nel nostro paese e in Europa dimostrano che le seconde generazioni fanno fatica a ottenere buoni risultati a scuola. La condizione di immigrato di seconda generazione sembra addirittura predittiva dell’insuccesso scolastico. Il rapporto annuale del Ministero dell’Istruzione sulla scolarizzazione dei figli degli immigrati è una sorta di bollettino di guerra, pieno di indicatori preoccupanti come ripetenze, ritardo, esiti traballanti, drop out. Particolarmente inquietante è il fenomeno della “segregazione formativa”: la concentrazione degli alunni stranieri, al livello della scuola secondaria di secondo grado, negli istituti professionali e tecnici e negli enti di formazione professionale a scapito dei percorsi liceali, prediletti invece dai nativi. Sebbene non manchi una spiegazione a tutto ciò, da sociologo non posso che rilevare l’esistenza di una disuguaglianza strutturale tra autoctoni e stranieri che è destinata a riflettersi nel mercato del lavoro. Stiamo parlando né più e né meno della balcanizzazione della nostra società.

E il lavoro?

In Italia manca ancora una documentazione sistematica, perché le seconde generazioni sono per lo più ancora a scuola. Ma se guardiamo a quanto accade altrove in Europa, possiamo prevedere che anche da noi i figli degli immigrati finiranno per svolgere gli stessi lavori subalterni dei genitori. Non mancano indizi in tal senso. Il mio studio fotografa la situazione della mia regione, il Friuli Venezia Giulia, dove sul 100% di assunzioni di giovani in agricoltura, la metà riguarda ragazzi stranieri. In edilizia il rapporto è di circa uno su tre. La premessa dei fenomeni migratori, ossia i sacrifici dei genitori affinché i figli abbiano una chance di miglioramento e di promozione sociale, risulta purtroppo infondata.

Che identità hanno questi ragazzi? Si sentono divisi? Si sentono combattuti? O si sentono “fuori luogo”?

Sebbene anche qui, come nella famosa pellicola, ci siano numerose sfumature, la formazione delle identità conduce in linea di massima a tre esiti. Assimilazione, ovvero italianizzazione, da cui l’etichetta di “nuovi italiani”. Acculturazione selettiva, ossia il mantenimento di alcuni elementi dell’identità di origine che si coniuga con l’acquisizione di alcuni tratti dell’italianità: sono i soggetti “metà e metà” o, per dirla ancora col lessico sociologico, caratterizzati da una “doppia appartenenza”. C’è infine l’esito meno auspicabile, ossia il rigetto, il ripiegamento nell’identità di partenza col conseguente rifiuto della cultura e della società in cui si è immersi. I pochi studi fatti finora in Italia sembrano indicare una prevalenza degli esiti assimilativi. Sebbene non esista un vero e proprio “modello di integrazione” italiano, esso sembra dunque funzionare meglio di quello britannico e francese, dove il rigetto e gli scontri sono all’ordine del giorno.

A suo avviso la responsabilità si può ascrivere a una sorta di relativismo moderno che ha lasciato spazio alla sua stessa negazione?

Sebbene nel libro non prenda posizione, ma non ho avuto timore di sottolineare che l’approccio dominante al fenomeno migratorio, ossia il cosiddetto multiculturalismo, sta mostrando da tempo le corde. La dottrina multiculturale, secondo cui ogni gruppo etnico ha il diritto e il dovere di conservare intatte le radici, ha sfavorito l’integrazione e lo scambio reciproco e ha incoraggiato gli integralismi. Se questo modello fallimentare ha goduto e gode ancora di ampio consenso lo si deve al dilagante relativismo culturale, impegnato a denunciare la presunta arroganza occidentale, il neocolonialismo e sciocchezze del genere. La verità è che se non lavoriamo per trovare un punto d’incontro e soprattutto non offriamo agli immigrati qualcosa in cui riconoscersi, il nostro destino è quello delle enclaves e del declino. Che non è un bel vedere.

Oppure quest’odio è una reazione delle seconde generazioni che si sentono lasciate ai margini?

Sicuramente l’incapacità europea di trovare un nuovo modello economico che non subisca le onde del processo di globalizzazione ma possibilmente le cavalchi virtuosamente sta facendo numerose vittime, soprattutto tra i nativi. Gli immigrati sono, per così dire, vittime collaterali di una trasformazione epocale della nostra società che non sembriamo in grado di gestire e tanto meno di indirizzare verso esiti migliori. L’odio per la società non è prerogativa dei soli immigrati, ma accomuna interi segmenti della popolazione che arrancano e sono privi di ogni prospettiva. L’avanzata dei populismi ne è un sintomo.

Esiste una sindrome da ghetto nelle nuove generazioni?

L’Italia è messa per il momento meglio rispetto a paesi come la Francia, dove le minoranze etniche vivono segregate, relegate nei quartieri periferici come le famose banlieues, teatro di periodiche rivolte e serbatoio di un antagonismo sempre pronto ad esplodere. I recenti scontri nel quartiere romano di Tor Sapienza fanno intravedere tuttavia un potenziale deterioramento anche della nostra situazione, e sono stati peraltro preceduti da analoghi episodi accaduti, ad esempio, nel ghetto di via Anelli di Padova, dove il sindaco ha addirittura eretto un muro per proteggere i residenti dai fenomeni di devianza che caratterizzano certi soggetti di origine straniera. In assenza di politiche ad hoc dobbiamo temere il peggio.

Possono essere ritenute solo vittime, o hanno anche un ruolo attivo nella loro discriminazione?

Tra le seconde generazioni esiste anche, fortunatamente in casi rari, una sindrome da autoghettizzazione. Che è poi l’indicatore della difficoltà a trovarsi a proprio agio in un sistema sociale e culturale diverso da quello in cui sono cresciuti i propri genitori e in cui ancora ci si riconosce. Si preferisce rinchiudersi nel cerchio caldo della comunità dei connazionali e si rifiuta di allargare le proprie frequentazioni agli autoctoni. Nei quartieri multietnici fioriti negli ultimi anni nelle città italiane questa situazione è visibile a occhio nudo. Ci si ritrova tra connazionali, si usa solo la propria lingua madre, si riproducono usi e costumi del paese d’origine. Anche qui, comunque, siamo messi meglio che altrove. In Europa sono numerose le cosiddette “muslimtowns”, le aree urbane dove tutto ricorda i paesi islamici di provenienza degli immigrati e dove i residenti stranieri sono spesso la maggioranza. È facilmente intuibile che in un futuro non molto lontano tutto ciò avverrà anche da noi.

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