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L’abbraccio fra Bibi e Trump, due debolezze che fanno una forza

Pubblicato il 06/03/2018 - Formiche

È stata come una rimpatriata tra vecchi amici che hanno molte cose in comune e vedono il mondo allo stesso modo. Ed è durata un’ora più del previsto. La visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a Donald Trump alla Casa Bianca ieri pomeriggio si è rivelata così un’occasione per un confronto a tutto campo sui temi di interesse comune all’America e ad Israele.

“L’Iran, l’Iran, l’Iran è stato il principale tema trattato nell’incontro”, riferisce Netanyahu, aggiungendo che se ne è parlato “almeno metà del tempo”. L’altra metà è stata dedicata a argomenti non meno roventi come Siria, Iraq, Libano e i palestinesi. Di questi ultimi però “non abbiamo conversato più di quindici minuti”. Come dire: l’intesa è massima.

Che il colloquio fosse concentrato sull’Iran era scontato. Appena quindici giorni fa Israele è stata oggetto di una grave provocazione militare da parte di Teheran, che ha fatto sorvolare il territorio israeliano da un proprio drone, costringendo l’aviazione di Gerusalemme ad abbatterlo. La polemica tra Iran ed Israele su questo episodio è stata durissima, come si è visto alla conferenza sulla sicurezza di Monaco della settimana scorsa, durante la quale Netanyahu e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif si sono scambiati battute al vetriolo.

L’Iran è il nemico comune di Israele e Stati Uniti. Su questo perno poggia la comune intenzione di articolare una strategia per contrastare le ambizioni egemoniche di Teheran nel Levante e le sue ardite operazioni militari all’estero. Su un punto in particolare la sintonia tra Trump e Netanyahu è totale: entrambi vogliono riformare l’accordo sul nucleare con l’Iran, il Jcpoa negoziato per anni dall’amministrazione Obama e siglato a Vienna nel luglio 2015.

“Nei prossimi 60 giorni il Presidente deve prendere un’importante decisione al riguardo dell’accordo sul nucleare”, ha detto Netanyahu, “ e credo che questo mostri il suo grande interesse per la mia valutazione”. La valutazione di Netanyahu sul Jcpoa è nota dai tempi in cui il primo ministro non perdeva occasione, prima del 2015, di arringare i leader internazionali in proposito: è un pessimo accordo che non risolve il problema del nucleare iraniano, ma si limita a rimandarlo nel tempo, e lascia in piedi tutta una serie di problemi riguardo la politica estera e gli affari militari dell’Iran.

Durante il colloquio di ieri, sia Trump che Netanyahu hanno convenuto che l’accordo debba essere o rinegoziato e ridefinito (“fixed”) o cancellato. Ambedue si sono lamentati della sua durata limitata – quindici anni dalla sua sigla – e del fatto che le sue clausole non coprano il programma balistico di Teheran o l’appoggio fornito a milizie armate sciite in tutto il Medio Oriente.

“Se io devo dire quale sia la nostra più grande sfida in Medio Oriente ad entrambi i nostri paesi”; ha detto Netanyahu a Trump, “e ai nostri amici arabi, è incapsulata in una parola: Iran. L’Iran deve essere fermato. Questa è la nostra sfida comune”. Peccato che la visione dei due leader non coincide con quella degli europei, che sulla minaccia posta da Teheran e sul Jcpoa nutrono idee contrastanti. Anche per questo motivo incontri come quello di ieri sono importanti: Trump e Netanyahu sanno di dover concertare una strategia che non potrà fare conto sul sostegno degli alleati del Vecchio Continente, che sull’Iran hanno scelto una linea morbida e di stracciare il Jcpoa non ci pensano minimamente. Ma con o senza alleati, è necessario “contrastare la maligna influenza dell’Iran”, dice la Casa Bianca sottolineando che questo è uno degli “obiettivi” dell’amministrazione Trump.

Sulla pace con i palestinesi, come si è detto, si è parlato poco. La Casa Bianca fa sapere che Trump ha posto in evidenza “il suo impegno nel raggiungere una pace duratura tra israeliani e palestinesi”. Netanyahu ha replicato ricordando il monito di Gaza, che il gruppo islamista di Hamas, dopo l’evacuazione da parte di Israele nel 2005, ha conquistato manu militari trasformandola in un’enclave islamista opposta strenuamente a Israele. “Se tu lasci un posto”, ha detto Netanyahu, “se ne impossessano immediatamente degli elementi terroristici. Ciò che mi interesssa ora è come prevenire che una situazione come quella di Gaza si ripeta in Giudea e Samaria”.

La preoccupazione di Netanyahu è molto condivisa in Israele, dove non sono pochi coloro i quali temono la nascita di uno Stato Palestinese ostile ai propri confini. Per questo l’unica via d’uscita è rappresentata dal negoziato diretto e da colloqui a lungo termine finalizzati a risolvere i dettagli della separazione. Il problema è che i palestinesi, specie sotto la leadership di Mahmoud Abbas, hanno un rapporto ondivago con i negoziati: a volte li cercano, volte li evitano. “La situazione migliore”, precisa Netanyahu, “è quella in cui i palestinesi vogliono risolvere questo conflitto ed educano il proprio pubblico a questo obiettivo”. Ma i palestinesi spesso “scappano dal negoziato in ogni modo possibile”.

In ogni caso, c’è intesa tra Netanyahu e Trump sulla necessità di rilanciare il processo di pace lungo le linee tracciate dagli uomini che alla Casa Bianca da circa un anno stanno lavorando a questo dossier. Tra questi c’è Jared Kushner, il genero e consigliere di Trump che era presente al bilaterale di ieri nonostante le polemiche di questi giorni dovute al mancato ottenimento della clearance di sicurezza.

Quando i colloqui di pace riprenderanno, Israele potrà sempre fare affidamento sul sostegno convinto degli Stati Uniti, che hanno recentemente mostrato la loro profonda amicizia riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e decidendo di trasferirvi la loro ambasciata. Trump ieri ha annunciato l’intenzione di partecipare all’inaugurazione del nuovo complesso, l’estate prossima. “Vorrei venire”, ha detto il presidente; “Se potrò, lo farò”. E sulle polemiche che la decisione americana di spostare l’ambasciata ha creato, Netanyahu si è concesso un piccolo sfogo, ammettendo che “al di là di Stati Uniti e Guatemala ci sono altri paesi con cui stiamo discutendo di spostare l’ambasciata a Gerusalemme”.

Insomma, il poderoso abbraccio ricevuto ieri da The Donald potrà non aver allontanato un millimetro dalle spalle di Netanyahu l’ombra dei guai giudiziari che si stanno aggravando giorno dopo giorno. Ma è servito senz’altro a confermare, in patria e all’estero, il carisma di un leader con le amicizie giuste nei posti giusti.

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