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Petrolio, perché Stati e mercati guardano a Kirkuk

Pubblicato il 17/10/2017 - Formiche

Tutti i nodi vengono al pettine, e per il nodo di Kirkuk, la “Gerusalemme curda” benedetta dal petrolio che per tre anni è stata sotto il controllo dei peshmerga, l’ora del destino è scoccata all’alba di domenica. La nona divisione dell’esercito di Baghdad, insieme alla polizia federale, ad unità d’élite delle forze di contro-terrorismo e alle milizie sciite delle Unità di Mobilitazione popolare hanno obbedito all’ordine del premier iracheno Haider al-Abadi e del Parlamento di Baghdad di riconquistare la città caduta nel 2014 nelle mani del Governo Regionale del Kurdistan a seguito della fuga dei militari iracheni sotto l’avanzata delle bandiere nere dell’Isis. Una città, Kirkuk, inclusa nelle zone che il Governo Regionale del Kurdistan rivendica come parte integrante dello Stato curdo scaturito dal referendum indipendentista celebrato lo scorso 25 settembre. Referendum che la corte costituzionale di Baghdad ha dichiarato incostituzionale e a cui si sono opposti anche Turchia, Iran, Stati Uniti e le Nazioni Unite.

Era solo questione di tempo prima che l’Iraq facesse valere i propri diritti contro la volontà curda di controllare una città che è sempre stata parte integrante della “nazione” curda ed è stata oggetto della spietata repressione di Saddam Hussein, che qui promosse una politica di “arabizzazione” forzata che ne mutò la composizione etnica, costringendo molti curdi a fuggire a nord, dove nel 1992 è sorta l’odierna regione autonoma curda che oggi rivendica l’indipendenza.

In meno di ventiquattr’ore, le forze di invasione hanno espugnato gran parte della città, che sarebbe stata evacuata dai peshmerga insieme a migliaia di abitanti tra notizie di combattimenti che avrebbero causato varie vittime. Nella versione di Baghdad, i peshmerga avrebbero lasciato campo libero senza sparare un colpo, ma vari organi di informazione riferiscono di scontri armati nei quartieri meridionali di Kirkuk, con la Bbc in particolare che parla di numerosi colpi di arma da fuoco sparati ad un checkpoint. Il brigadier generale Bahzad Ahmed, portavoce dei peshmerga, conferma che le forze irachene hanno catturato le aree a sud di Kirkuk e che ci sono state “molte vittime”.

Sotto controllo iracheno sono finiti, oltre a vari quartieri, l’aeroporto, la base militare K1 e numerosi giacimenti petroliferi. Nel pomeriggio di lunedì inoltre un convoglio composto da una dozzina di mezzi corazzati delle unità del contro-terrorismo è entrato nel centro e ha preso possesso del palazzo del governatore provinciale, rimuovendo la bandiera del Kurdistan che sventolava assieme a quella irachena. Una foto che ha avuto ampia diffusione nei social mostra ufficiali iracheni dentro l’ufficio del governatore.

Inizialmente incontrollate, e ancora adesso confuse e piene di contraddizioni, le voci da Kirkuk sono subito rimbalzate nei mercati internazionali e hanno causato un repentino aumento del prezzo del petrolio. A New York i Futures hanno registrato una crescita dello 0,8%. “Le notizie dall’Iraq”, ha confermato a Bloomberg Michael Lynch, presidente di Strategic Energy & Economic Research, sono alla base di questa fiammata. Al centro delle preoccupazioni degli investitori c’è, secondo Lynch, il possibile venir meno dei rifornimenti dall’area. “È indubbio”, conferma, “che la psicologia del mercato è condizionata”. Le autorità di Baghdad hanno cercato di intervenire tempestivamente, con il ministero delle risorse naturali del Krg a rendere noto che il petrolio continua a fluire lungo la pipeline che collega il Kurdistan al porto di Ceyhan in Turchia. Ma secondo Bloomberg gli scontri, che hanno bloccato l’estrazione in due giacimenti di Kirkuk, potrebbero causare la perdita di 275 mila barili al giorno. Un funzionario di Baghdad ha cercato di fornire rassicurazioni: “Abbiamo avuto conferma dai comandi militari”, ha dichiarato a Reuters, “che è solo questione di tempo (…) le nostre forze coraggiose stanno per prendere il controllo di tutti i pozzi petroliferi e poi la produzione riprenderà immediatamente”.

Ci vorrà molto più che una dichiarazione estemporanea per calmare i mercati. Preoccupati per le sorti di un conflitto che potrebbe assumere proporzioni devastanti, se i comandi dei peshmerga decidessero di reagire. Per ora, dominano l’incertezza e l’acredine, con Baghdad che sottolinea la legittimità del proprio operato e i partiti curdi che si accusano l’un l’altro.

In una dichiarazione ufficiale rilasciata ieri, il primo ministro iracheno Abadi ha sostenuto che l’operazione a Kirkuk era necessaria per “proteggere l’unità del paese, minacciata di divisione” a causa del referendum del 25 settembre, che ha sancito la vittoria schiacciante degli indipendentisti. “Facciamo appello a tutti i cittadini”, ha detto Abadi, “affinché collaborino con le nostre eroiche forze armate, che sono vincolate dalle nostre direttive perché proteggano anzitutto i civili, e perché impongano l’ordine e la sicurezza, e proteggano le infrastrutture e le istituzioni”. Sulla sua pagina Facebook, Abadi ha chiesto inoltre ai peshmerga “di fare il proprio dovere come parte delle forze armate irachene sotto la leadership federale”. Conscio del turbamento dei mercati per la sorte del petrolio di Kirkuk, il premier ha sollecitato quindi “tutti i lavoratori a continuare il proprio lavoro normalmente e a non sabotare gli interessi di tutti i cittadini”.

Tra le fila dei curdi è partita, intanto, la caccia al responsabile della sconfitta, tra scambi di accuse e teorie del complotto. Come di rito, il Comando Generale dei Peshmerga ha minacciato Baghdad di pagare un “duro prezzo” per l’offensiva su Kirkuk, considerata “una dichiarazione di guerra contro la nazione del Kurdistan”. Ma nel comunicato lo spazio maggiore era dedicato al presunto “tradimento” dell’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk), fazione rivale del Partito Democratico del Kurdistan (Kdp) del presidente Massoud Barzani. Il Puk è accusato dal Kdp di aver collaborato al “complotto contro il popolo del Kurdistan”. “Sfortunatamente”, si legge nel comunicato, “alcuni leader del Puk hanno dato una mano d’aiuto a questo complotto contro la nazione del Kurdistan e hanno commesso uno storico tradimento contro il Kurdistan e i martiri che hanno sacrificato le loro vite per il Kurdistan”. Secondo il Kdp, il Puk avrebbe stretto un patto con gli invasori, ritirandosi di buon ordine. La prova del misfatto starebbe in un misterioso documento che Hemin Hawrami, assistente di Barzani, ha postato su Twitter. Si tratta di un comunicato delle milizie sciite Assaib Ahk al Haq in cui si ringrazia il Puk per essersi allontanato da Kirkuk. Il Puk, naturalmente, nega, replicando che decine di suoi combattenti sono stati in realtà uccisi o feriti, notando inoltre polemicamente come “nemmeno uno dei peshmerga del Kdp sia ancora stato martirizzato nei combattimenti a Kirkuk”.

A Washington, intanto, c’è preoccupazione per gli eventi di queste ore. Il presidente Donald Trump fa sfoggio di equilibrismo, non potendo parteggiare né per l’Iraq contro i curdi, alleati chiave nella lotta contro lo Stato Islamico, né per i secondi contro il primo, partner strategico per gli equilibri di una regione turbolenta su cui si allunga minacciosa l’ombra dell’Iran. Ai giornalisti assembrati nella capitale, il capo della Casa Bianca ha detto che “non prende posizione”, anche se “non ci piace il fatto che si stiano combattendo”. “Abbiamo avuto per tanti anni ottimi rapporti con i curdi”, ha aggiunto, sottolineando che “siamo anche stati dalla parte dell’Iraq.

Le parole che rimbalzano dal Dipartimento di Stato sono invece più articolate. La portavoce Heather Nauert si è detta “molto preoccupata per le notizie sulle violenze a Kirkuk” e ha chiesto a tutte le parti di “evitare ulteriori scontri”. “Noi sosteniamo”, ha sottolineato Nauert, “l’esercizio pacifico di un’amministrazione comune delle aree contese da parte dei governi centrale e regionale, in accordo con la costituzione irachena”. Ha aggiunto inoltre che gli Usa stanno facendo opera di persuasione sui rappresentanti dei due governi per “incoraggiare il dialogo” ed “evitare provocazioni di cui possano approfittare i nemici dell’Iraq che sono interessati ad alimentare il conflitto etnico e settario”, avvertendo che “c’è ancora molto lavoro da fare per sconfiggere l’Isis in Iraq”.

A essere meno diplomatico, invece, è il capo della Commissione Forze Armate del Senato John McCain, che ha minacciato di “severe conseguenze” il governo iracheno qualora fosse confermato che le armi fornite dagli Usa siano state utilizzate in operazioni contro i curdi. “Gli Stati Uniti”, ha detto il senatore, “hanno fornito equipaggiamento ed addestramento al governo iracheno per combattere l’Isis e per renderlo sicuro da minacce esterne, non per attaccare uno dei suoi governi regionali”.

Anche l’Altro Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea Federica Mogherini ha fatto sentire la sua voce, sollecitando il governo iracheno e i curdi a perseguire la via del “dialogo al fine di preservare l’unità e la stabilità nel lungo termine dell’Iraq”.

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