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Referendum sulla cittadinanza: si sceglie il modello di società

Pubblicato il 01/06/2025 - Messaggero Veneto

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Tra i referendum su cui saremo chiamati a votare i prossimi 8 e 9 giugno ve ne è uno – quello sulla cittadinanza – che interviene sul nodo irrisolto dell’identità degli italiani. Il quesito propone di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza legale continuativa richiesto agli stranieri maggiorenni per presentare domanda di cittadinanza. In caso di approvazione, verrebbe cancellata parte dell’articolo 9 dell’attuale legge (n. 91/1992), dimezzando i tempi attualmente previsti e allineando così l’Italia alle normative in vigore in altri Paesi europei. Va subito precisato, anticipando le critiche di chi ritiene che si vada verso una “cittadinanza facile”, che il referendum interviene solo sul requisito temporale, lasciando invariati gli altri criteri tra cui quello di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, della disponibilità di un reddito adeguato, della mancanza di precedenti penali e dell’assenza di motivi ostativi legati alla sicurezza nazionale. Secondo i promotori, la riforma risponderebbe a un’esigenza di giustizia sociale, riconoscendo il contributo di circa 2,5 milioni di soggetti di origine straniera che vivono, studiano e lavorano in Italia ma non ne possiedono la pienezza dei diritti. In particolare Riccardo Magi ha dichiarato che “ridurre i tempi (…) significa riconoscere che chi vive stabilmente in Italia è già parte della nostra comunità” e che ciò rappresenterebbe “un passo verso un’Italia più inclusiva”. La coordinatrice del comitato promotore, Antonella Soldo, ha precisato che la cittadinanza non deve essere ritenuta “un premio” bensì “il coronamento di un percorso di integrazione che per molti è già realtà”. Ma cosa dicono le teorie sociologiche in merito al tempo necessario per fare di un immigrato un buon cittadino? Il tema è stato al centro di numerosi studi, elaborati già al tempo delle grandi migrazioni che interessarono gli Usa nella prima parte del ‘900, che offrono chiavi di lettura utili per valutare l’impatto del referendum. Una delle teorie più influenti è quella dell’assimilazione, che descrive l’integrazione come un processo graduale in cui lo straniero adotta progressivamente i valori, le norme e i comportamenti della società ospitante. Sulla base di questa visione, cinque anni potrebbero essere ritenuti sufficienti per l’acquisizione almeno dei fondamenti della cultura italiana oltre che dei suoi valori e stili di vita, cosa che si verifica soprattutto in quei contesti urbani dove l’interazione tra immigrati e autoctoni è più intensa. Varianti della stessa teoria ci dicono però che vi sono circostanze, quali la marginalità o la mancata inclusione nei principali processi sociali ed economici, che rendono quel lasso temporale ridotto insufficiente a garantire la formazione di identità condivise e legami solidi. Un approccio alternativo ci viene dalla teoria del multiculturalismo, che valorizza la coesistenza all’interno di uno stesso Paese di identità culturali diverse, suggerendo che l’integrazione non debba necessariamente implicare l’abbandono delle proprie radici e dunque la piena assimilazione. Orgoglio delle origini e appartenenza alla società di arrivo possono in breve coesistere e garantire, ciò malgrado, una sufficiente integrazione ma naturalmente, per le ragioni già dette, solo se accompagnati da lavoro, studio e partecipazione attiva alla vita comunitaria. In altre parole, se trascorsi in contesti che favoriscono l’interazione con la popolazione locale come scuole, luoghi di lavoro o associazioni, cinque anni di soggiorno dovrebbero garantire l’identificazione del migrante con la società ospitante e la conseguente adesione ai principi e alle norme dominanti. Chi invita gli italiani a votare “no” è invece del parere che gli attuali dieci anni di residenza siano il minimo necessario per garantire un’integrazione effettiva. I più critici paventano il rischio di una svalutazione della cittadinanza che potrebbe incentivare l’immigrazione irregolare, sebbene tale obiezione sia neutralizzata dal fatto che il quesito referendario non modifica i requisiti di legalità del soggiorno e richieda comunque un’adeguata padronanza della nostra lingua. Gli elettori in sostanza sono chiamati a decidere non solo su una norma, ma sul modello di società in cui vogliono vivere e, dunque, sul diritto a chi non vi è nato ad esserne parte integrante purché si riconosca come italiano.

Marco Orioles

Cronache italianeimmigrazioneMessaggero Veneto
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