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Se la scuola costruisce l’emarginazione degli stranieri

Pubblicato il 27/10/2014 - Gli Stati Generali

In qualità di insegnanti e formatori, ci siamo occupati a più riprese degli alunni stranieri, questione che, insieme a quella della formazione dei docenti, per il mondo della scuola è sicuramente la più rilevante degli ultimi anni. Decifreremo qui alcune misteriose sigle del burocratese (BES, NAI, PDP) che li riguardano, per confrontarci con il problema di come gestire e agevolare il loro apprendimento. L’obiettivo perseguito è quello di eliminare gli ostacoli che ci precludono una comprensione adeguata del fenomeno, dei nostri compiti e dei metodi migliori per assolverli. Sul Domenicale del 26 ottobre un approfondimento desta sicuramente scalpore, riportando il titolo: Diseguaglianze. Niente laurea allo straniero. L’autore, Marco Orioles, rileva come (non solo) in Italia ci si trovi di fronte al grave fenomeno della «segregazione formativa», per cui, a livello statistico, quasi mai gli immigrati riescono ad arrivare all’università. Visti gli attuali sforzi di aprire le università italiane agli studenti stranieri (introducendo, tra l’altro, corsi in lingua inglese sul modello del Politecnico di Milano o dell’Università Bocconi) l’esito può sembrare paradossale, se proprio la seconda generazione di immigrati (cioè i figli degli immigrati) fallisce miseramente (proprio di recente, sul suo sito internet il ministero dell’Università dell’Istruzione e della Ricerca ha presentato i numeri degli alunni stranieri e dei loro successi o insuccessi). Secondo le proiezioni Istat, la presenza straniera in Italia è quadruplicata dall’inizio del XXI secolo e potrebbe presto raggiungere quota dieci milioni. Di fronte a questi dati non possiamo cercare scorciatoie razziste o fingere che il problema non sussista, anche perché l’Italia è solo l’ultimo dei Paesi che, nel corso della storia recente, si sono trovati di fronte al fenomeno delle immigrazioni di massa; già dalla fine dell’Ottocento ha però riempito il mondo di emigranti, più del doppio rispetto agli italiani presenti sul territorio nazionale (le ultime stime, secondo storici ed esperti di statistica, ammonterebbero a una cifra superiore ai 120 milioni di persone). In due sensi, dunque, la storia potrebbe insegnarci qualcosa, per lo meno permetterci di formulare ipotesi di lavoro (didattico) da testare sul campo. Se la storia dell’integrazione scolastica non è una novità assoluta, alcune conclusioni potrebbero allora esserci già note. Secondo Orioles, i “nuovi italiani” (ma il discorso vale anche a livello europeo, come rileva l’Eurostat) si integrano abbastanza bene dal punto di vista culturale, non invece nella scuola e sul mercato del lavoro. Qui ci occupiamo di scuola, quali sono dunque gli esiti? Non è difficile prevederlo: difficoltà di apprendimento legate alle inadeguate o nulle competenze linguistiche, esiti incerti o tendenzialmente negativi (cioè voti largamente al di sotto della media della classe), bocciature, anche ripetute, frequenti riorientamenti, cioè cambiamento di scuola o indirizzo (per lo più inadeguati, perché non si coglie l’origine del problema), abbandono scolastico. Di fatto, quando non abbandonano, il risultato è che gli immigrati di seconda generazione, i quali in prospettiva saranno cittadini italiani, nella scelta delle scuole secondarie di secondo grado si orientano verso quelle “meno difficili”, quali istituti tecnici o professionali, ma quasi non frequentano i licei, considerati la chiave d’accesso all’università. Così, in sintonia con le rilevazioni dell’ultimo rapporto del MIUR, nell’istituto milanese presso il quale insegno, l’Istituto di Istruzione Superiore Luigi Cremona, che ha accorpato un liceo scientifico e un istituto tecnico commerciale, su una classe di 25 persone si hanno, al liceo, 4 o 5 alunni di origine straniera, presso l’istituto tecnico anche la maggioranza della classe (con punte di 13 su 16 per l’indirizzo con cinese come prima lingua straniera, visto che ci troviamo nei pressi del nostro quartiere cinese). Quali sono i motivi? Sicuramente, l’esigenza di iniziare quanto prima a lavorare, specialmente in situazioni di disagio economico. Non sono infatti rari i casi di alunni che lavorano a partire dal tardo pomeriggio e durante il fine settimana per far quadrare i conti familiari o per mantenersi da sé, nei casi più estremi. Ma c’è di più: è proprio il nostro sistema scolastico a segregarli negli istituti tecnici e professionali (non sempre più agevoli, del resto), ritenendoli, salvo casi eccezionali, inadatti a studi liceali (ritenuti anche più prestigiosi). Il risultato è che, invece di rimuovere le cause delle disuguaglianze, culturali, economiche, linguistiche, sociali, il sistema scolastico finisce col perpetuarle e, quasi, legittimarle. Dopo gli studi, resteranno loro i lavori mal retribuiti, precari, pericolosi, penalizzanti o, al limite, la disoccupazione e la malavita. Eppure potrebbero essere molto utili a uno Stato che voglia commerciare con l’estero, farsi conoscere, vendere ovunque i suoi prodotti e la sua arte. Come ovviare? La normativa sui BES ci aiuta a districarci, i corsi di formazione docenti e l’esperienza di mediatori culturali e linguistici possono permetterci di superare in modo più agevole i limiti oggettivi del nostro intervento. Cosa sono i BES? Il burocratese non aiuta il docente, che crede di aver risolto i suoi problemi nel momento in cui ha decifrato un termine misterioso quanto e più dei geroglifici. Significa, molto semplicemente, che nella scuola sono presenti bisogni educativi speciali, cioè esigenze degli alunni che sono diverse da quelle tradizionali e consolidate. In un certo senso, l’istruzione si trova oggi nella stessa situazione in cui si trovavano i maestri elementari del periodo post-unitario: se si mettevano a fare lezione in italiano, i loro alunni non li capivano (a meno che non si trovassero in Toscana). La direttiva del 27 dicembre 2012, ripresa da una circolare del 6 marzo 2013, che fornisce alcune importanti indicazioni operative, così definisce i Bisogni Educativi Speciali: « svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse». In questa definizione c’è di tutto, dalla dislessia all’handicap alle difficoltà degli alunni stranieri, ai problemi economici (svantaggio sociale). Di conseguenza, si estende «a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento», richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla Legge 53/2003. Ora, se nel caso della dislessia (DSA) si continua a richiedere una certificazione esterna per poter intervenire, per bisogni di tipo sociale, culturale e linguistico è invece l’istituto che si deve attivare, con apposite commissioni e coadiuvando i docenti all’interno del consiglio di classe, dove si prendono le decisioni concrete da un punto di vista didattico. Tale intervento non è opzionale, se il documento citato sottolinea come si tratti di un «compito doveroso dei Consigli di classe o dei teams dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri casi sia opportuna e necessaria l’adozione di una personalizzazione della didattica ed eventualmente di misure compensative o dispensative, nella prospettiva di una presa in carico globale ed inclusiva di tutti gli alunni». Cosa sono le misure 1) compensative e 2) dispensative, nel caso degli alunni stranieri? Per esempio, tra le misure compensative, formulazioni linguisticamente più comprensibili delle domande e richieste, sia orali che scritte, uso di vocabolari in formato digitale, correttori ortografici, sussidi nella loro lingua materna o in una lingua comprensibile; per il punto due, invece, sostituzione di alcune discipline con corsi di lingua italiana organizzati apposta per loro. Ma, aggiungiamo, ci vuole anche una valutazione che tenga conto del fatto che per questi studenti, quando va bene, la lingua italiana è solo la prima lingua straniera, quindi sarebbe opportuno valutare la loro produzione secondo il quadro comune europeo per le lingue straniere, così come, cioè, i nostri docenti di lingue valutano i loro alunni in inglese, tedesco, francese, russo, cinese ecc. Naturalmente, su questa base va esteso a tutti gli studenti che ne abbiano bisogno il percorso didattico personalizzato (in burocratese: PDP), cioè un programma differenziato e graduale che permetta agli alunni di superare le loro difficoltà arrivando in sede d’esame a dare il meglio di sé. Così lo definisce la normativa: un «percorso individualizzato e personalizzato […] che ha lo scopo di definire, monitorare e documentare – secondo un’elaborazione collegiale, corresponsabile e partecipata – le strategie di intervento più idonee e i criteri di valutazione degli apprendimenti».   In questo caso gli interventi devono essere temporanei, ma fino a un certo punto. Nella scuola superiore si estendono infatti fino a quattro anni. Può forse sorprendere che un alunno straniero frequentante la scuola italiana venga esentato da alcune discipline o abbia bisogno di sostegno per così tanto tempo, ma occorre considerare che, nella migliore delle ipotesi, chi non sa una lingua impiega come minimo quattro anni per raggiungere competenze linguistiche di tipo accademico (cioè, adatte a trattare materie come fisica, chimica, storia, letteratura italiana). Del resto, seconda la normativa, al termine alunno straniero si sostituisce la sigla NAI (Neo Arrivati in Italia), col che sembrerebbero esclusi coloro che in Italia risiedono da diverso tempo. Tuttavia, a parte gli alunni che parlano una lingua neolatina come il rumeno, il francese o lo spagnolo, gli altri hanno bisogno di almeno quattro anni per essere valutabili a un livello comparabile con quello degli autoctoni, i cinesi, eventualmente, anche di più tempo, in considerazione delle enormi differenze di tipo linguistico e culturale. Ecco perché, per il ministero, all’atto pratico, sono da considerarsi neo arrivati in Italia anche alunni che per noi tali non sarebbero. Ma forse resta ancora qualche dubbio. Per dissiparlo, può essere utile (come spesso suggeriamo ai nostri colleghi) provare a fare il test di posizionamento al British Council, al Goethe Institut o all’istituto Confucio, per vedere se siamo in grado di parlare in una lingua straniera della materia che insegniamo (en passant, l’insegnamento di una disciplina non linguistica in una lingua veicolare diversa dall’italiano si chiama in gergo CLIL, dall’inglese Content and Language Integrated Learning). Dopo questo cambiamento di prospettiva il problema dei loro alunni si porrebbe diversamente. Provi il lettore, qualunque sia il suo campo di lavoro, a impostare lezioni o interventi in arabo e in cinese (in molti casi può bastare l’inglese). Come, non conosce queste lingue? Così come i discendenti degli italiani si sono inizialmente trovati in difficoltà in Francia, in Germania, in Belgio, negli Stati Uniti in Canada, in Svizzera e in Argentina, per non citare che le mete tradizionali della nostra emigrazione, così si trovano ora in difficoltà i nostri alunni stranieri. In Svizzera all’ingresso dei locali scrivevano: vietato l’ingresso ai cani e agli italiani; negli Stati Uniti, a Ellis Island, i test sul quoziente di intelligenza (nato in Francia come strumento diagnostico per individuare i bambini bisognosi di particolari attenzioni da un punto di vista didattico) sono stati usati per impedire l’immigrazione degli italiani (venivano “somministrati” in inglese o tramite l’ausilio di immagini, in condizioni caotiche, spesso alla fine di un lungo viaggio, a persone analfabete, l’esito era dunque largamente prevedibile); in Germania, inoltre, i risultati degli italiani di seconda generazione sono stati a lungo tra i peggiori, eguagliando quelli degli immigrati dalla ex Jugoslavia (e generando più di un pregiudizio). Quest’ultimo caso, però, ci aiuta a capire il problema. Infatti, al contrario degli italiani, in Germania i greci ottenevano risultati di tutto rispetto, superiori a quelli dei migliori tra i tedeschi. Geni? No, il fatto è che, dopo la scuola tedesca, frequentavano anche quella greca, e il greco era la lingua veicolare. Si sono insomma trovati in famiglie interessate al successo scolastico dei loro figli, stimolati e aiutati da insegnanti preparati e hanno potuto capire le discipline che studiavano. Sì, in un certo senso è l’insegnamento bilingue, in qualche sua variante, che potrebbe aiutarci a uscire da questa impasse. Adesso il governo sa dove deve davvero investire. Noi ce ne occuperemo in un’altra occasione.   Techne Maieutike

Andrea Gilardoni

FONTI E RIFERIMENTI P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italianaPartenze e arrivi, Donzelli, Roma 2001-2002 (2 voll.). Stephen Jay Gould, The Mismeasure of Man, Norton, New York 1981; ed. it. Intelligenza e pregiudizio, Editori Riuniti, Roma 1991. François Grosjean, Bilinguismo. Miti e realtà, Mimesis, Milano 2014 (in corso di stampa). Marco Orioles, Diseguaglianze. Niente laurea allo straniero. Domenicale del 26 ottobre 2014. N. 294, Il Sole 24 Ore, p. 35.

 

Sui Bisogni Educativi Speciali: http://www.marche.istruzione.it/dsa/allegati/dir271212.pdf Legge 53/2003

Dati del Miur sugli alunni stranieri: http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ministero/focus211014_bis

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