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Stranieri negli asili: quel tetto ci fa regredire

Pubblicato il 10/11/2018 - Il Piccolo

Monfalcone, letteralmente, fa scuola. E Trieste, in uno slancio gregario, si accoda. Tra le decisioni della giunta Dipiazza, spunta l’introduzione di un tetto dei bimbi stranieri negli asili, gran vanto della sindaca della città dei cantieri, Anna Cisint. Giacché, tuttavia, il capoluogo regionale deve vantare i suoi record, ecco che la riforma cisintiana viene mutuata con un sovrapprezzo. Anziché il tetto del 45% varato a Monfalcone, a Trieste si seguirà la regola del 30%. Lo spread con Monfalcone non è l’unico coniglio che spunta dal cilindro della giunta Di Piazza. Conscio delle sfide di civiltà in atto nel nostro mondo inquieto, il governo cittadino introduce anche l’obbligo dell’esposizione del crocifisso in aula. Un gran favore al Dio cristiano, minacciato dalle orde di musulmani, taoisti e scintoisti che si insinuano nelle nostre istituzioni, con l’intento di sovvertirle. Qual è la logica, insomma, dietro le nuove scelte della giunta tergestina? Sul tetto agli stranieri, si è discusso diffusamente quando scoppiò il caso Monfalcone. Il ragionamento che ispira questi amministratori è che troppi bimbi non italofoni in classe contaminino irreparabilmente l’ambiente formativo. Una logica che scricchiola, mostrando tutt’al più i pregiudizi dei riformatori. Da anni, infatti, i minori con cittadinanza italiana iscritti nelle nostre scuole sono, in maggioranza, nati qui. Indistinguibili, se non per i tratti ascritti, dai bambini autoctoni. Non sono competenti in italiano, perché a casa mamma e papà parlano loro in altri idiomi? È un alibi: la padronanza della lingua di Dante è l’orizzonte e il destino di questa coorte di nuovi italiani, presenti qui non per un temporaneo capriccio dei genitori ma perché il Belpaese è la loro patria. La distinzione tra italiani e stranieri che informa l’introduzione del tetto è speciosa e, a ben vedere, ingiustificata. Nell’uno e nell’altro caso siamo di fronte a cittadini italiani in erba, accomunati dalla frequenza delle stesse scuole e dai codici comunicativi che permettono loro di relazionarsi, affratellarsi, essere membri di un medesimo collettivo. Un collettivo che, si badi bene, non è né può essere omogeneo culturalmente. La società multiculturale, realtà secolare in quel di Trieste, è fatta di convergenze – tutti parlano italiano, lingua veicolare e strumento primario degli scambi sociali – e divergenze. Un equilibrio che può essere virtuoso, ove sia sovrastato da un valore comune: la tolleranza. Ma se quest’ultima viene a mancare, ed è sostituita da un sostrato ideologico fatto di proclami nazionalisti, quell’equilibro vacilla. L’imposizione del crocifisso rientra in questa scia. È l’ultimo rifugio di chi avversa i cambiamenti demografici e culturali, paventando lo sgretolamento della civiltà occidentale. Una retorica apocalittica che si abbarbica a simboli identitari da ostentare come un corpo contundente. Conclusione: come quelle di Cisint, le nuove norme della giunta Dipiazza appaiono regressive. Una minaccia alla convivenza di cui Trieste, città multietnica e cosmopolita, può benissimo fare a meno.

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