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Usa, Cina e Russia. Il Taccuino estero di Orioles

Pubblicato il 28/12/2019 - Policy Maker

In primo piano nel Taccuino Estero di questa settimana, le sanzioni Usa contro il gasdotto russo Nord Stream 2. Seguono due approfondimenti: uno sul varo, durante una cerimonia alla presenza dei vertici della Repubblica Popolare, della prima portaerei made in China; l’altro sull’ultima mossa di Putin in Siria, che sta reclutando i curdi delle SDF con il niente affatto celato intento di riportarli nell’orbita di Damasco.

PRIMO PIANO: GLI USA SANZIONANO IL GASDOTTO NORDSTREAM (E I LAVORI DI POSA SI FERMANO)

Ha avuto l’effetto di un terremoto squassante sul mercato dell’energia, e nel già accidentato terreno delle relazioni transatlantiche, la firma apposta venerdì da Donald Trump sulla legge varata dal Congresso Usa — il National Defense Authorization Act — che, tra le altre cose, impone sanzioni alle aziende che concluderanno i lavori di realizzazione del gasdotto russo NordStream 2.

Ma è un po’ tardi, hanno subito osservato molti osservatori tra cui la rivista Forbes, per bloccare il varo di una pipeline – quella voluta dal colosso russo energetico Gazprom, dunque dal Cremlino, in concorso con un consorzio che comprende Royal Dutch Shell, la compagnia francese Engie, la società austriaca OMV e quelle tedesche Uniper e Wintershall – che è già completa all’83% per un’estensione di 2.042 km sotto il mar Baltico.

La decisione Usa, tra l’altro, arriva non molto tempo dopo che il governo danese ha approvato definitivamente la costruzione della sezione mancante del Nord Stream che attraverserà le acque territoriali danesi: lavori che, si stima, dovrebbero essere completati in appena cinque settimane. Se si considera che la legge varata dalla Casa Bianca ha bisogno di 30 giorni solo per stilare la lista delle aziende colpite dalle sanzioni, si fa presto a concluderne che la mobilitazione dell’America potrebbe servire a ben poco.

La tempistica della mossa dell’amministrazione Trump non convince anche perché si manifesta pochi giorni dopo che Vladimir Putin – il bersaglio n. 1 della furia trumpiana insieme alla Germania e agli altri clienti europei assetati del gas russo – ha raggiunto un’intesa con il collega ucraino Zelensky per il transito del gas russo attraverso il territorio ucraino – intesa che dunque fa venire meno uno dei problemi generati da una pipeline che la Russia ha concepito anche per bypassare Kiev e negarle miliardi di dollari in diritti di passaggio.

Tardiva o meno che sia, la decisione di The Donald di colpire quel che il Congresso, nel provvedimento di legge, ha definito l’ennesimo “strumento di coercizione” della Russia nei confronti di un’Europa ridotta a “ostaggio” di Putin, atterra in Europa come un dardo incendiario.

Il consorzio che gestisce Nord Stream 2 ha in verità fatto spallucce, rilasciando una dichiarazione nella quale, oltre a ricordare che “completare il progetto è essenziale per la sicurezza dei rifornimenti europei”, si annuncia che lo stesso consorzio, “insieme alle compagnie che supportano il progetto, procederà il prima possibile con il completamento della pipeline”.

Chi ha alzato la voce è stata invece la Germania, che già nei giorni precedenti, per bocca della cancelliera Merkel, aveva reso nota la propria “opposizione alle sanzioni extraterritoriali” Usa. Una volte che queste ultime, da intenzione, si sono trasformate in realtà, è stato il ministro degli Esteri Heiko Maas a sbroccare, parlando di una inaccettabile “interferenza in una decisione autonoma presa in Europa”.  “La politica energetica europea”, ha tuonato il capo della diplomazia di Berliino, “viene decisa in Europa, non negli Usa”.

Più attenuate le parole dell’Unione Europea che, attraverso una portavoce, ha fatto sapere che “in linea di principio (..) si oppone all’imposizione di sanzioni contro aziende Ue che conducono il proprio business legittimo”

E nel fine settimana si è fatta immancabilmente sentire anche la voce di Mosca, che tramite il sempre attivo ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha giurato che Nord stream 2 andrà avanti fino alla posa dell’ultima pietra e che anzi la Russia reagirà duramente alle misure prese dagli Usa.

Questo turbine di parole che ha attraversato l’Atlantico nel fine settimana si sarebbe potuto risolvere come la classica tempesta nel bicchiere d’acqua se nel pomeriggio di sabato non fosse giunto, come un fulmine al ciel sereno, il comunicato del contractor svizzero-olandese che sta procedendo con la realizzazione del Nord Stream 2.

Con un testo dalla lunghezza telegrafica, la Allseas ha fatto sapere che, “anticipando l’entrata in vigore del National Defense Authorization Act (l’azienda) ha sospeso le attività di posa dei tubi del Nord Stream 2” e che attende di ricevere dalle “autorità americane (le) linee guida e i necessari chiarimenti regolatori, tecnici e ambientali”.

Il passo indietro di Allseas è dunque una bella gatta da pelare per Putin, Merkel e per tutti coloro che, in Europa, pensavano di aver assistito venerdì scorso ad una innocua sfuriata da parte del capo della Casa Bianca e dei suoi parlamentari.

Il National Defense Authorization Act, invece, tutto è fuorché il fuoco fatuo di un impero che ha rinunciato alle sue priorità geostrategiche. E permettere allo Zar di sottomettere l’Europa a causa dei rigori invernali, e di trasformarla in una provincia del proprio impero energetico, è qualcosa che il team Trump – al di là delle sue bizzarrie e degli innumerevoli passi falsi – non sembra disposta a contemplare.

Del resto, c’è un bel po’ di shale gas a stelle e strisce da piazzare sul mercato, e quella pipeline di Gazprom che secondo i piani dovrebbe raddoppiare il già cospicuo ammontare di gas russo (55 miliardi di metri cubi) che prende ogni anno la via del Vecchio Continente attraverso la rotta del vecchio Nord Stream rappresenta, per gli Usa di Trump, niente meno che un ostacolo da abbattere. Con tutti i mezzi disponibili.

 


Gli approfondimenti della settimana

 

1. Xi Jinping inaugura la prima portaerei made in China

È stata una lunga ed elaborata cerimonia quella andata in scena martedì al porto di Sanya, nella provincia meridionale cinese di Hainan, dove – alla presenza degli alti papaveri del regine, da Xi al suo capo dello staff Ding Xuexian, al vice-premier Liu He, al capo della pianificazione economica He Lifeng fino a quello del dipartimento degli staff congiunti Li Zuocheng, accompagnati dagli ufficiali del Comando del Teatro Meridionale dell’Esercito di Liberazione Popolare – è stata inaugurata la prima portaerei costruita integralmente entro i confini del Dragone.

Precedentemente nota con la sigla di Type 001, la Shandong è stata realizzata nella provincia di Liaoning dalla Dalian Shipbuilding Industry nell’arco di sei anni esatti. La sua inaugurazione era già stata fissata ad aprile, ma il periodo di prova è durato più a lungo del previsto a causa di alcuni problemi tecnici.

Si tratta di una versione modificata del modello della classe Kuznetsov che vanta caratteristiche innovative come un radar nuovo di zecca e un particolare sistema di ponti. Sarà in grado di trasportare fino a 36 caccia J-15 – la metà in più di quanti riesce a caricarne l’alta portaerei in dotazione alla Cina, la Liaoning – insieme ad un certo numero di elicotteri Z-9 e di aerei KJ-600 per la sorveglianza elettronica

Il battesimo del mare della Shandong risale al maggio 2018, mentre pochi giorni fa la portaerei è stata impiegata nello Stretto di Taiwan per “esperimenti scientifici” che celavano, secondo molti osservatori, un messaggio ben preciso all’attenzione della provincia ribelle che si rifiuta di essere riannessa alla madrepatria.

La scelta del porto in cui celebrare l’inaugurazione è stata tutto fuorché casuale: a Sanya si trova non solo la più grande base navale dell’Asia, ma anche il secondo porto per portaerei della Cina, capace di ospitare più navi simultaneamente, e la base “Yulin” per sottomarini nucleari.

Sanya, soprattutto, rappresenta una delle vie d’accesso al Mar Cinese Meridionale, che Pechino rivendica come proprio territorio in barba ai diritti dei paesi rivieraschi come il Vietnam o il Brunei, con i quali è in corso da anni un braccio di ferro che non esclude provocazioni navali ad alto rischio. Il prossimo ingresso in questa cornice infuocata della Shandong è dunque destinato ad innalzare ulteriormente il livello della tensione.

Che il nuovo gioiellino della Marina cinese porti tempesta nel Pacifico è apparso chiaro pochi giorni dopo ai lettori del South China Morning Post che – attingendo al recente articolo di una rivista cinese specializzata in questioni militari – ha squarciato il velo sulle reali intenzioni di Pechino

L’articolo del mensile Naval and Merchant Ships rivela infatti che la Shandong sarà schierata congiuntamente alla Liaoning in quello che in gergo si chiama “dual-carrier battle group”, che avrà a propria disposizione anche due cacciatorpedinieri della classe Type055, quattro fregate Type 054, sei fregate dotate di missili teleguidati, tre sottomarini nucleari Type 093B e una nave d’appoggio.

Il nuovo battle-group, ecco il punto, sarà schierato nello stretto di Taiwan con compiti di deterrenza contro qualunque potenza straniera che osasse affacciarsi in quel tratto di mare durante eventuali ostilità  – e dietro quel “qualunque” si celano ovviamente l’identikit degli Usa e del Giappone, dei primi paesi cioè che presumibilmente mobiliterebbero le proprie navi in soccorso di Taiwan durante un’invasione cinese.

Inequivocabili, a tal proposito, le affermazioni del commentatore di questioni militari Song Zhongping che, rammentando come la principale missione dell’Esercito di Liberazione Popolare sia di “bloccare l’accesso a Taiwan alle flotte di Usa e Giappone”, si rallegra per il fatto che il nuovo battle-group estenderà non poco il raggio d’azione della Marina cinese.

Sempre a detta del Naval and Merchant Ships, l’altro compito affidato al gruppo navale sarebbe di “negare ai bombardieri Usa a lungo raggio la possibilità di decollare dalla base navale di Guam (per  impedire loro)  di prendere di mira le formazioni di sbarco e i sottomarini cinesi”.

Inoltre, come ha spiegato al SCMP lo specialista in affari militari Zhou Chenming, le due portaerei “sarebbero in grado di lanciare circa 30 jet F-15 così da colpire qualsiasi aereo che decollasse dalle portaerei Usa”.

E dalle acque roventi del Pacifico, per questa settimana è tutto.

 

2. La Russia recluta i curdi per pattugliare il confine turco-siriano (e riportarli nell’orbita di Assad)

Secondo fonti locali sentite dai reporter di Voice of Americala Russia starebbe procedendo alla costituzione di una nuova milizia chiamata ad operare nelle zone del Nordest della Siria al confine della Turchia che un tempo erano presidiate dai curdi delle SDF con l’appoggio degli Usa.

Molto chiaro il senso della mossa di Mosca: si tratta di togliere di mezzo le stesse SDF, che Ankara considera una formazione terroristica e contro la quale il presidente turco Erdogan ha già scatenato ad ottobre un’offensiva militare, sostituendole con una formazione addomesticata che risponda ai desiderata (e ai comandi) del Cremlino.

“I russi”, ha dichiarato un giornalista curdo a VOA, “hanno già aperto dei centri di reclutamento in due città della nostra regione”, a cui si stanno rivolgendo molti giovani di etnia curda che, sempre a detta del giornalista. “hanno firmato per entrare a far parte di questa forza”.

“Sono i nostri uomini che si stanno arruolando”, ha confermato un comandante delle SDF, che auspica “una relazione militare molto stretta con la Russia”. Nega, il comandante, che ci siano attriti tra SDF e Mosca o che possano svilupparsi in futuro; al contrario, ha spiegato l’ufficiale, “siamo essenzialmente coinvolti nel reclutamento e nella selezione dei nuovi combattenti”.

Altri ufficiali curdi sentiti da VOA hanno spiegato che questa forza sarà impiegata con compiti di pattugliamento del confine che saranno svolti fianco a fianco ai militari di Mosca.

Che altre mire abbia Mosca, mentre si accinge a inquadrare in una forza nuova di zecca ma posta sotto il suo comando una buona fetta dei circa 85 mila combattenti delle SDF, è presto detto secondo Jonathan Spyer, ricercatore del Middle East Forum.

“L’obiettivo della Russia”, spiega Spyer, “è il ritorno dell’autorità del regime (di Damasco) ad est dell’Eufrate”, ossia nella zona che sfugge da oltre otto anni al controllo della capitale e dove lo Stato Islamico, che qui aveva parte delle proprie roccaforti, è stato scacciato dalle SDF con l’appoggio dell’aviazione e delle forze speciali degli Usa.

E poiché, dopo la caduta del califfato, il Nordest della Siria era rimasto in una sorta di limbo – amministrato dalle SDF ma al di fuori di ogni accordo a livello nazionale o internazionale sugli assetti del paese – e il sogno di uno Stato indipendente curdo in quell’area era ad un passo dal realizzarsi, ecco che Mosca – approfittando del ritiro delle truppe Usa deciso ad ottobre da Donald Trump – può ora procedere con un passo che appare propedeutico – per dirla ancora con l’esperto del Middle East Forum – “a spingere verso la graduale riannessione delle forze curde nel Nordest siriano allo Stato siriano”.

Resta un piccolo problema che potrebbe guastare i piani di Putin: il petrolio dei pozzi del Nordest della Siria. Com’è noto, dopo aver annunciato  di voler togliere di mezzo i propri soldati per consentire a quelli di Ankara di invadere la Siria, The Donald – su pressione di pezzi importanti del suo stesso governo, a partire dal Pentagono – ha innescato una parziale marcia indietro, decidendo di conservare una presenza residua di qualche centinaio di soldati (l’ultima cifra circolata nella ridda di indiscrezioni e smentite di queste settimane è cinquecento soldati) con l’unico fine – stando almeno a ripetute esternazioni pubbliche dello stesso capo della Casa Bianca – di mettere in sicurezza il petrolio siriano negandolo, oltre che ai jihadisti, al suo stesso legittimo proprietario, ossia Damasco.

La speranza di Putin, ora, è che dopo aver cooptato i curdi, questi ultimi si decidano a convincere gli americani a farsi gli affari loro e facciano dunque in modo che i proventi di quei pozzi petroliferi vadano nelle casse di Bashar al-Assad.

Così, almeno, la pensa Anna Borshchevskaya, ricercatrice del Washington Institute for Near East Policy, per la quale, “per quanto siano minuscole le riserve siriane in termini di market share, i relativi introiti sono diventati fondamentali al regime Assad per sopravvivere”.

Se dunque, prosegue la ricercatrice, fino ad oggi “erano le forze Usa e curde a raccogliere i proventi del petrolio”, adesso che i soldati a stelle e strisce sono in partenza “i curdi non hanno alternative al lavorare fianco a fianco con Putin e Assad”.

 


Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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