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Mai regime fu più amato e odiato come la democrazia. Modello politico che ha profonde radici nella storia delle società umane, passato attraverso fasi alterne di sviluppo e regressione sino all’odierno trionfo, il sistema democratico è oggi al centro di un travaglio generato da una profonda insoddisfazione motivata da aspettative crescenti e non di rado tradite. La lunga marcia della democrazia e le sue cronache recenti sono al centro di questa conversazione tra Albino Comelli e Marco Orioles. Psicologo, letterato, poeta, Comelli pone l’accento sull’aspetto motivazionale, che porta i cittadini/elettori a ingaggiare dure battaglie per i propri diritti ma anche a esprimere disaffezione verso una classe politica quasi mai all’altezza della situazione. Sociologo, docente universitario e studioso di argomenti di attualità, Orioles compie un percorso a ritroso, richiamando la storia delle poleis greche, della Roma repubblicana e dei Comuni italiani, alla ricerca del filo che, snodandosi nei secoli, ha portato alla nascita di un modello di gestione della cosa pubblica in cui ogni individuo pesa come l’altro sulla base del principio cardine della democrazia: “una testa, un voto”. Ambedue gli autori entrano nel vivo dei fatti odierni, narrando episodi come il referendum sulla procreazione assistita o le vicende della guerra al terrorismo, evidenziando come in ciascuno si esprima quel fermento che è alla base della vita di una democrazia e della condivisione dei destini che essa è chiamata a promuovere.

 


Estratto da: A. Comelli, M. Orioles, Dialogo sulla democrazia

1. La democrazia logora chi non ce l’ha

Se la razza dei politicanti ragionasse come quel Re, la nostra discussione non sarebbe mai cominciata. Purtroppo, o fortunatamente, non è così. L’arte di governare va coltivata, eccome, nel nostro mondo. È un esercizio che, per lo meno, ci aiuterà a capire la lezione che hai opportunamente ricordato per noi: «il potere tende a corrompere l’animo di chi governa, o almeno a renderlo più spericolato e spregiudicato». Verissimo. Il potere corrompe, diceva Lord Acton, e il potere assoluto corrompe assolutamente.

Proprio in questi giorni ho avuto l’opportunità di constatare quanto tu e Lord Acton abbiate colto nel segno. Ho tra le mani l’interessante rapporto sull’Iraq di Saddam Hussein realizzato dal Pentagono. È il resoconto di una serie di colloqui realizzati con uomini di spicco del regime che, come sappiamo, fu abbattuto nell’aprile del 2003 dalle forze anglo-americane. Tra gerarchi e familiari del deposto dittatore, il rapporto ha radunato un discreto bestiario. Le testimonianze raccolte documentano fin troppo bene le manifestazioni di un potere, una corruzione e una follia probabilmente senza precedenti.

Almeno in linea di massima, la psicopatologia di Saddam Hussein e la fisionomia iper-totalitaria del suo regime erano note prima della guerra in Iraq. Le ultime aggiunte sfidano però anche la più fervida immaginazione. Il rapporto evidenzia i limiti asfissianti di una monocrazia, ma anche il lato patetico e financo ridicolo che essa può assumere. Non è il fatto in sé che colpisce, ma le sue proporzioni. Sapevamo infatti, per dirla con Dahl, che nei regimi autoritari «si osserva una forte propensione a commettere errori madornali [a causa del] potere assoluto dei governanti che induce una distorsione delle informazioni da parte di coloro che sono incaricati di fornirle, nonché per le stravaganze incontrollabili dei governanti stessi». Con Saddam però queste tendenze hanno raggiunto un parossismo inusitato.

Vediamole da vicino. Cominciamo col dire che il rapporto del Pentagono illumina un grande mistero: quello di un paese che era stato la superpotenza regionale salvo poi trovarsi a subire un’umiliazione dietro l’altra. Fino alla sconfitta finale. Perché un simile tracollo? La domanda è retorica. Il declino dell’Iraq è il frutto del delirio di onnipotenza del suo dittatore: un uomo cui nessuno poteva dire la verità senza temere il peggio.

La verità è qualcosa che Saddam Hussein non assaggiava da tempo. Non c’era più abituato, questo poveretto, al punto che non seppe riconoscerla persino quando lo tirarono fuori dal buco per sorci in cui si era nascosto dopo la sconfitta. «Sono Saddam Hussein, il presidente dell’Iraq e voglio negoziare», si sono sentiti dire i soldati che l’hanno catturato. Era il 14 dicembre del 2003, poche ore prima che il proconsole americano Paul Bremer III lanciasse al mondo l’annuncio tanto atteso: «Ladies and gentlemen, we got him». L’abbiamo preso.

Ma torniamo al regime. Il sistema di potere in Iraq era così configurato. Al vertice, c’era Saddam Hussein con le sue paranoie. Sotto, uno stuolo di collaboratori che l’istinto di salvezza o l’arrivismo aveva trasformato in altrettanti yes-man. Come si producevano le decisioni? Che domande! Era Saddam a decidere. Spesso e volentieri, in splendido isolamento. Sai ad esempio come è scoppiata la guerra tra Iraq ed Iran, una delle più lunghe e sanguinose del XX secolo? Saddam era da solo in vacanza e, quando è tornato, ha dichiarato guerra. Con l’invasione del Kuwait è andata un po’ meglio. Ne aveva discusso col cognato.

C’erano delle eccezioni, non dico di no. Ministri e gerarchi potevano ratificare le decisioni del capo con applausi e altri gesti di approvazione. È capitato persino che Saddam li consultasse in anticipo. Peccato che nessuno osasse contraddirlo. Si vede che episodi come quello che vado a riferirti avevano lasciato il segno. Siamo nel 1982. La guerra con l’Iran iniziata pochi mesi prima è ad uno stallo. Con loro somma sorpresa, il presidente convoca i ministri. Vuole il loro parere sul conflitto in corso. Il ministro della salute, un certo Riyadh Ibrahim, aderisce con una punta di zelo in più. Suggerisce al suo capo di dimettersi fino a pace siglata, salvo riprendersi il potere subito dopo. Saddam, ovviamente, agisce di conseguenza. Si dimette? No: fa trasportare il ministro fuori dall’assemblea. Tornerà alla luce il giorno dopo, recapitato a fette alla moglie. Stando alle parole di uno dei presenti alla riunione, Abd al-Tawab Mullah Huwaysh, capo della Commissione Industriale Militare e parente del ministro assassinato, il gesto di Saddam produsse immediatamente i suoi effetti. Tutti gli altri ministri, ha dichiarato Huwaysh agli autori del rapporto, furono «unanimi nell’insistere che Saddam rimanesse al potere».

Potrei sbizzarrirmi con altri esempi, ma mi limiterò ad aggiungerne soltanto uno. È il 18 dicembre del 2002. Un intero esercito si sta ammassando ai confini dell’Iraq. Sono gli uomini e i mezzi che, quattro mesi più tardi, risveglieranno per sempre il paese dall’incubo saddamita. I comandanti della Guardia Repubblicana, l’élite delle forze armate irachene, sono convocati ad una riunione. All’ordine del giorno c’è il piano per la difesa del paese. Uno dei testimoni intervistati dal Pentagono è in sala. Quando il piano viene presentato, questi non crede alle sue orecchie. Si tratta chiaramente di una strategia amatoriale. Sembra proprio il parto di un uomo che non ha alcun contatto con la realtà. Sai in effetti cosa si sente rispondere il generale che avanza timidamente qualche riserva? Il capo della Guardia gli risponde che il piano non può essere discusso né modificato perché è stato già approvato da papà Saddam.

D’altro canto, c’era poco di cui discutere. Anche il piano meglio congegnato non avrebbe potuto evitare la sconfitta. E non per la schiacciante superiorità dell’avversario. L’annientamento dell’esercito iracheno era iniziato molto tempo prima. Cominciò quando le ossessioni di Saddam, le stesse che produssero i suoi leggendari sosia, indussero il gran capo a prendere decisioni sconsiderate. La paura di finire come Bruto spinse il rais a frantumare l’esercito in decine di schegge. Moltiplicare il numero dei corpi e delle sigle, militari e paramilitariavrebbe evitato pericolose concentrazioni di potere. L’efficienza delle forze armate ne sarebbe stata irrimediabilmente compromessa, ma questo non contava: l’importante era che il leggendario divide et impera facesse il suo corso. E lo fece, eccome. Ad un certo punto, l’Iraq pullulava di spie e controspie che si sorvegliavano a vicenda. Poiché questo non gli parve sufficiente, Saddam usò un altro accorgimento. Collocò ai vertici dell’esercito persone accomunate da due caratteristiche: il cognome e una preparazione militare prossima allo zero. Come ho già ricordato, il più giovane dei figli di Saddam diventò capo della Guardia Repubblicana. Esperienze nel curriculum? Non pervenute.

L’America, ricorderai, sconfisse l’Iraq in sole tre settimane. Una famosa penna del New York Times, Thomas Friedman, scrisse che sembrava di essere stati «in guerra con i Flinstones». Si capisce. Dall’altra parte del fronte, abbandonato a se stesso, c’era un esercito da tempo fuori uso. La sua disfatta mi sembra dunque il perfetto simbolo di un ordinamento politico, la dittatura, che le tre parole che hai scelto descrivono benissimo: una «manifestazione di incoscienza». Gli ufficiali iracheni sconfitti nel 2003 hanno rapidamente capito che le decisioni prese in incoscienza presenteranno prima o poi il conto, un conto salatissimo. Questo è un insegnamento di cui interi popoli sono purtroppo a conoscenza. Sono le moltitudini cui non è sfuggita l’osservazione di Amartya Sen: nelle democrazie non si è mai verificata una carestia. Le tirannie hanno l’esclusiva.

2. Democrazia senza eroi?

Perdonami se mi sono dilungato, ma credo ne valesse la pena. Ora infatti il prezzo della democrazia ci è più chiaro. Vivere in una democrazia significa fare a meno di presenze così ingombranti. Non importa che si facciano chiamare rais o caro leader. Quando questi tristi figuri finiscono dietro le sbarre o sotto terra, il loro paese non li rimpiange mai. E come potrebbe? Con essi, si libera del peso di errori e ingiustizie immani e indicibili.

Ammettiamolo, non è un vantaggio da poco. Dovremmo ricordarcene ogni qual volta siamo indotti a lamentarci del cosiddetto sistema. Quante volte abbiamo maledetto le lungaggini del processo politico, il suo arrancare verso una decisione che tarda ad arrivare e che forse mai arriverà, le angoscianti acrobazie con cui tentiamo di districarci tra i suoi mille controlli ed equilibri? Lo abbiamo fatto infinite volte, come infinita dovrebbe essere la pazienza da offrire ad un sistema che vuole, in questo modo, tutelarci. Ancora una volta, le tue parole mi soccorrono. «Il sistema liberale obbliga a tenere conto di tante cose e di tanta gente, occorre convivere con situazioni mutevoli e differenti, mantenere la calma, essere misurati e pazienti».

Certo, la nostra rabbia talvolta è giustificata, legittima, doverosa. Ci sarebbe semmai di che preoccuparsi se questa rabbia non venisse fuori. Se nessuno inveisse contro certe perversioni, come la paralisi decisionale che troppe volte rappresenta l’epilogo della dialettica politica. Se il malaffare dei potenti rimanesse sempre impunito e i malintenzionati la facessero costantemente franca. Ma se queste falle, che pure ci sono,appartengono al regno del male, si tratta pur sempre del male minore. Ti ricordi cosa diceva Winston Churchill? La democrazia è il sistema peggiore, con l’eccezione di tutti gli altri.

Vuoi la mia opinione? Preferisco che i treni non arrivino in orario, se per raggiungere questo obiettivo si arriva ad uccidere il macchinista. Tanto so che il sistema che non uccide i macchinisti funzionerà meglio. L’efficienza non richiede la pena di morte. Sarebbe un’efficienza disumana e mendace, incapace di produrre risultati a lungo, se mai li produce. Questa è una regola che vale anche in altri ambiti. Anche, per fare un esempio, nelle competizioni sportive. Il dirigente che intimidisce e tortura una squadra di calcio – com’è accaduto, di nuovo, nell’Iraq di Saddam – aumenta o no le sue possibilità di vittoria? La risposta è un sonante no.

La democrazia non funziona a bacchetta. La democrazia funziona e basta. È una inoppugnabile verità che solleva tuttavia un problema. Oltre ai capibastone, la democrazia deve rinunciare anche agli eroi? Non c’è davvero posto per la grandezza, in negativo come in positivo, nel sistema democratico? Di primo acchito, dinanzi a questa domanda tu sembreresti propendere per una risposta negativa. «Il nostro paese non ha bisogno di eroi», scrivi laconicamente. Poi aggiungi, maliziosamente, che dovremmo «rassegnarci a pensare che l’unico eroismo possibile è quello del buon senso quotidiano».

È una precisazione importante, questa, che ci aiuta a cogliere la sottile provocazione sullo sfondo. Più che sui gesti clamorosi e rari che i libri di storia amano raccontare, la democrazia si impernia su tante, piccole dosi di routine. Il motore della democrazia, se posso esprimermi in questo modo, funziona a diesel. Vero, purché si ammetta che non sempre è così.

La democrazia si baserà anche su un basso continuo di impegni e scadenze. Ogni tanto però la storia le tende un’imboscata. Allora il nostro buon senso incontra i suoi limiti, costretto com’è a constatare che la macchina si è bloccata. Per farla ripartire, occorre una spinta. Ci vuole l’energia straordinaria che solo uomini straordinari possiedono. Ci vogliono, in una parola, degli eroi.

Dobbiamo farci a questo punto una domanda: le democrazie sanno rispondere alle chiamate della storia? L’ordinaria mediocrità su cui si imperniano è in grado, nel momento del bisogno, di sfornare degli eroi? Chiunque ne conosca le vicissitudini risponderà senza esitazioni che, sì, le democrazie sanno superare le emergenze. Una democrazia sana possiede gli anticorpi con cui debellare anche le minacce più insidiose. Vuoi delle prove, anzi, dei nomi? Te ne posso fare quaranta.

Sono Leroy Homer, professione pilota. CeeCee Lyles e Sandra Bradshaw, assistenti di volo. E poi Todd Beamer, Mark Bingham, Tom Burnett, Andrew Garcia, Jeremy Glick, Richard Guadagno. Dovrei aggiungere altri trentuno nomi, ma non è necessario. L’importante è ricordarli, tutti insieme, come gli uomini e le donne del volo 93. Sono le persone che, l’11 settembre del 2001, si ribellano ai terroristi che hanno dirottato il loro aereo. E’ un gesto disperato ma efficace. Drammaticamente efficace. Il tentativo di riprendere il controllo del Boeing 757 impedisce di replicare per la quarta volta l’exploit di pochi minuti prima a New York e Washington. Alle 10:03, ora della costa orientale degli Stati Uniti, il volo 93 precipita sulla campagna di Pittsburgh. Il presunto bersaglio, il Campidoglio o forse la Casa Bianca, è a centocinquanta miglia. La missione dei quattro terroristi, del quarto commando, è fallita.

Questa storia era già nota prima che United 93 uscisse nelle sale cinematografiche. Il film però, bisogna dirlo, la racconta in modo perfetto, da tutti i punti di vista. Senza sbavature né indulgenze, la pellicola ricostruisce quanto si è verificato nella pancia di quell’aereo in poco più di due ore, dalle operazioni di imbarco fino al tragico epilogo.

Quarante vite scorrono, inizialmente, nella piena normalità. Identificarsi è sin troppo facile: un giorno come gli altri, esistenze qualsiasi, tran tran, pillole e giornali. Poi, però, tutto muta. Improvvisamente. Con le urla frenetiche dei terroristi, il successivo, interminabile disorientamento. L’angoscia. Fino a quando, anche lassù, arriva la stessa notizia che sta girando il mondo: ci sono altri aerei. Dirottati, sequestrati. Due, tre, forse di più. Nessuno, negli Stati Uniti, sa bene cosa stia succedendo. Solo una cosa è certa, a terra come in quota. È una verità orribile: due aerei si sono schiantati sulle Torri Gemelle. America is under attack.

L’ombra cupa di un destino imminente si allarga sui corridoi del volo 93. Paura e sconforto si fanno largo nel cuore di molti. Qualcuno telefona ai familiari, per l’ultimo saluto. Altri si aggrappano ai cellulari per avere aggiornamenti, ragguagli, o solo per il conforto di un contatto. A chiamare dall’aereo saranno in tutto dodici persone: dieci passeggeri e due membri dell’equipaggio.

Per chi ha ricostruito questi avvenimenti, in particolare per il Congresso degli Stati Uniti, le telefonate hanno rappresentato una preziosissima fonte di informazioni. Grazie a queste testimonianze abbiamo ad esempio appreso come, lassù, non sia la rassegnazione a prevalere. Guarda ad esempio, caro Albino, cosa fa Tom Burnett. Quest’uomo di 38 anni chiama per quattro volte la moglie. È incredibile: è lui a rassicurare lei. «Non ti preoccupare», le dice. «Stiamo per fare qualcosa». We’re going to do something.

Il film qui si fa superlativo. Una colossale emozione ti inchioda sulla poltrona. È l’emozione trasmessa da un nucleo di persone che si stringe come un sol uomo. Sgominando la paura, questo gruppo trova la forza di seguire i tre magici passi della danza democratica: discutere, decidere, passare all’azione. Nel film li sentiamo pronunciare una frase che, a mio avviso, racchiude l’essenza della nostra discussione sulla democrazia. «Siamo in tanti. Dobbiamo fare qualcosa». Questa non è fiction, è un manifesto politico.

I fatti successivi sono tutti documentati dalla scatola nera trovata nel relitto. I suoni e le voci restituitici dall’oltretomba lasciano pochi dubbi: la battaglia è stata furiosa. «Nella cabina!», In the cockpit!, è il disperato grido di guerra dei passeggeri. Lo lanciano due volte di fila, alle 9:58 e 55 millesimi di secondo e alle 9:58:57. «Vogliono entrare», si dicono nello stesso istante i terroristi asserragliati nel loro fortino. «Prendiamoli», Let’s get them, urlano gli assedianti alle 9:59:20.

Per quattro lunghissimi minuti, è il caos. Poi, tra le 10:03:02 e le 10:03:09, un’invocazione. Risuona dentro la cabina, come un martello, per nove volte: «Allah è grande. Allah è grande». Sono le ultime parole del volo 93. In questo preciso istante, a Somerset County, in Pennsylvania, alcuni testimoni oculari avvistano un aereo. È a pancia in giù, evidentemente fuori controllo. Si dirige, a quasi mille chilometri l’ora, verso il suolo. Forse l’irruzione è riuscita del tutto, forse no: non lo sapremo mai. Sappiamo quel che basta: i nomi dei vincitori della battaglia della Pennsylvania.

Tu certo sai, caro Albino, che questa ricostruzione non mette tutti d’accordo. Proprio come per l’aereo che mai sarebbe caduto sul Pentagono, anche qui c’è chi preferisce cullarsi nell’odioso tepore delle teorie cospiratorie. A queste persone vorrei dire: andate su internet. Accendete il vostro computer e scaricatevi la trascrizione del nastro, come ha fatto chi scrive. Ma non mi faccio illusioni. Non ci crederebbero comunque. Il loro fanatismo non teme confronti. Diciamo, per giustizia, che è appena una spanna sotto quello di Ziad Jarrah. Prima di strillare come un ossesso «Allah è grande» ai comandi di quel Boeing 757, questo giovane libanese nato nel 1975 aveva preso le sue belle lezioni di volo in Florida. Al suo istruttore aveva detto di amare l’America.

Bravo Ziad, sei riuscito a prenderlo per il naso, il tuo istruttore. L’hai proprio fregata l’America. Devi ammetterlo: non è stato difficile. Dopo aver aperto le porte a decine di milioni di disgraziati, quel paese non poteva far caso al tuo muso. E dire che, di americani, i tuoi correligionari ne avevano fatti saltare in aria, eccome. Era dal 1983 che ci avevano preso gusto. È che sono cocciuti, gli yankee. Come direbbero a Roma, hanno proprio la capoccia dura. Sono un po’ come i cani: tu li bastoni e loro si fidano.

Pensa che noi, in Europa, abbiamo pure provato a dichiarargli guerra mezzo secolo fa. Sì, lo so: era un gesto disperato. Ma noi di fanatismo ne abbiamo avuto da vendere. Abbiamo fatto anche noi le nostre guerre sante, i nostri jihad. Ad ogni modo, sai cos’hanno fatto gli americani dopo aver vinto la seconda guerra mondiale contro di noi? Sono diventati i nostri migliori amici. E non a parole, ma coi fatti. Per difendere la nostra libertà si sono esposti alle rappresaglie sovietiche: prima con i loro soldati dislocati in Europa e poi, nell’era dei missili balistici, col proprio territorio. Con il Patto Atlantico, gli americani sono stati addirittura surreali. Se non lo sai, te lo dico io cosa fecero con questa organizzazione creata per unire le democrazie dell’Occidente. Accolsero il paese che poco tempo prima aveva cosparso l’Europa di lager e cenere.

Il significato di questi comportamenti deve esserti sfuggito, caro il mio Ziad. Tu e il tuo amico Osama bin Laden li ritenevate un segno di debolezza. Vi siete sbagliati. L’errore che avete commesso è di proporzioni incommensurabili. Pensavate che, colpendola all’altezza del ventre, la democrazia avrebbe ceduto. Avete invece centrato il vero giacimento del suo eroismo: i suoi cittadini. Te ne sei accorto subito delle forze che avete sprigionato, vero Ziad? Anche il tuo sceicco se ne è accorto, tanto che da quel giorno evita di farsi vivo. I gerarchi giapponesi e il loro compare coi baffetti dovettero vivere una sensazione simile, dopo l’attacco a Pearl Harbour.

Ma questa è un’altra storia.

 

Anno di Pubblicazione

2008

Editore

Leonardo

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