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Che cosa combina la Cina tra Hong Kong e Xinjiang

Pubblicato il 15/07/2019 - Start Magazine

In Primo Piano, le proteste a Hong Kong e la (mancata) reazione di Pechino nell’analisi del direttore del Cesi, Gabriele Iacovino. Nella sezione “Notizie dal mondo”, la guerra delle lettere all’Onu sullo Xinjiang; la prima telefonata tra Putin e il nuovo presidente ucraino Zelens’kyj; i rinforzi che Gran Bretagna e Francia (ma non la Germania) invieranno in Siria su richiesta degli Usa; la nascita della “provincia” turca del califfato.

PRIMO PIANO: HONG KONG VS. PECHINO, LE RAGIONI DI UNA SFIDA SPIEGATE DAL DIRETTORE DEL CESI IACOVINO

A partire dall’inizio del mese di giugno, dalla lontana Hong Kong sono rimbalzate in giro per il mondo e su tutti i canali social le suggestive immagini di un imponente movimento di protesta che ha sfidato frontalmente le istituzioni della città e il regime cinese che quelle istituzioni nomina e controlla.

Il pretesto che ha innescato l’ultimo confronto andato in scena nella ex colonia britannica tra istanze democratiche e ragion di Stato è stata una proposta di legge voluta da Pechino che, se approvata, avrebbe consentito l’estradizione nella madrepatria delle persone sospettate di crimini. Una provocazione bella e buona, secondo i manifestanti che, a centinaia di migliaia, si sono riversati nelle strade di Hong Kong chiedendo a gran voce il ritiro del provvedimento.

Provvedimento che, dopo settimane di alta tensione culminate con l’assalto al Legislative Council da parte di una pattuglia di manifestanti, la chief executive di Hong Kong, Carrie Lam, ha dichiarato “morto”. Una vittoria certamente simbolica per un movimento di protesta che incassa oggi quel che nei giorni del famoso movimento degli ombrelli del 2014 non fu possibile.

Per capire meglio quel che è successo in queste settimane lungo l’asse Hong Kong-Pechino, e le differenze tra il movimento di cinque anni fa e quello odierno, Policy Maker si è rivolto al Direttore del Ce.S.I, Gabriele Iacovino. Il quale, in questa conversazione, illustra quello che sarebbe secondo lui il vero motivo per cui la Cina, in questa circostanza, ha preferito non usare la forza contro i manifestanti.

Direttore, a Hong Kong la proposta di legge sull’estradizione voluta da Pechino proprio non l’hanno digerita.

 Già, le proteste stanno infatti andando avanti da almeno sei mesi. E l’atteggiamento del governo di Hong Kong, e soprattutto del capo esecutivo Carrie Lam, ha fatto sì che le proteste crescessero in numero ed intensità, fino alle grandi manifestazioni di inizio giugno che, in termini di partecipazione, sono state molto simili a quelle del movimento degli ombrelli del 2014.

Proprio in quei giorni, Twitter è stato inondato dai video di quelle manifestazioni che mostravano un impressionante fiume umano scorrere nelle strade di Hong Kong.

Certamente. Anche se numeri ufficiali non ce ne sono, le immagini avevano un impatto visivo e mediatico senz’altro molto forte e, aggiungo, diverso rispetto alle manifestazioni del 2014. Il movimento di protesta si è infatti evoluto e ha modificato la propria strategia. Le manifestazioni del 2014 erano sostanzialmente statiche, con la gente che ha occupato le strade di Hong Kong, circondando gli edifici governativi e non permettendo il passaggio di nessuno. Adesso, invece, abbiamo visto manifestazioni che si sono snodate per tutta la città, con la gente che si spostava rapidamente per le strade. L’organizzazione è inoltre davvero minima: le manifestazioni sono partite senza un vero obiettivo e i manifestanti, coordinandosi soprattutto via Telegram o via altre piattaforme social, hanno scelto via via i luoghi in cui protestare. Tutto questo fino all’evento clou del 1 luglio.

Che è stato il giorno in cui alcuni manifestanti sono penetrati nel palazzo del Legislative Council, con un atto clamoroso le cui immagini hanno fatto il giro del mondo.

Proprio così. È stato un passaggio importante perché, come si dice in questi casi, le immagini contano. E quelle immagini hanno mostrato come una manifestazione pacifica di centinaia di migliaia di persone possa avere anche aspetti violenti. La sede del Parlamento è stata scelta, comunque, perché in quel momento la manifestazione passava lì vicino. Stiamo parlando dunque di qualcosa di poco pianificato che ha però alla base una simbologia molto forte, che riprende quella del 2014 e utilizza dei pretesti legislativi contingenti per avanzare una richiesta di maggiore apertura democratica.

A tal proposito, è opportuno ricordare che dal 1997 – anno in cui la Gran Bretagna cedette il controllo della sua ex colonia alla Cina – a Hong Kong vige un ordinamento che è noto con la formula “un paese, due sistemi”, un equilibrio che la legge sull’estradizione, secondo l’accusa dei manifestanti, avrebbe irreparabilmente compromesso.

Non è la legge sull’estradizione che compromette il sistema, ma quella del 1997, e mi spiego. Prima che le autorità britanniche lasciassero il territorio di Hong Kong alla Cina, si erano inseriti nel sistema legislativo di Hong Kong dei processi di democratizzazione, compresa la possibilità di eleggere una parte dei rappresentanti del parlamento. Con l’ingresso di Hong Kong all’interno del sistema cinese, questi elementi sono venuti meno. Questo non toglie che, per la Cina, Hong Kong è sempre stato e continua ad essere un laboratorio politico ed istituzionale in cui sperimentare sistemi più democratici rispetto alla madrepatria. La Cina tuttavia, come sappiamo, non può permettersi una apertura democratica completa, che sarebbe insostenibile per il sistema nazionale cinese. Ed è proprio questo il presupposto delle manifestazioni che si ripetono periodicamente ad Hong Kong. Manifestazioni che esplodono quando si presenta un trigger, come è stato per l’appunto la legge sull’estradizione.

Legge che la chief executive Carrie Lam la settimana scorsa ha dichiarato morta. La possiamo considerare una bruciante sconfitta per Pechino, una ritirata tattica, o cos’altro?

La scelta di Pechino, che è stata poi quella di Carrie Lam, è stata di non andare allo scontro coi manifestanti. Una scelta dettata dal fatto che l’attenzione della Cina in questo momento è su altri scenari, in particolare sulla guerra commerciale con gli Usa, a cui non si è voluto dare un pretesto – e l’uso della forza contro i manifestanti lo sarebbe senz’altro stato  – per essere attaccata sul suo tallone d’Achille che è la non democraticità del proprio modello. Un modello che viene sfidato periodicamente da un movimento autoctono, quello di Hong Kong, che esprime richieste di maggiore democraticità. Stiamo parlando comunque di una città la cui ricchezza risiede nella stabilità. E i cui abitanti non vogliono rischiare di perdere tale ricchezza per una protesta che potrebbe causare una risposta muscolare di Pechino. Per questo Carrie Lam, nonostante le richieste di dimissioni dei manifestanti, rimarrà probabilmente al proprio posto e porterà avanti politiche volte a allargare al maggior numero di persone la ricchezza di Hong Kong.

A questo punto pare di capire che Hong Kong, che la Cina tanto ha desiderato riavere, è una sorta di spina nel fianco per un regime che è sotto i riflettori e non può agire come probabilmente vorrebbe.

Essendo stata Hong Kong sin dal 1997 il laboratorio politico ed istituzionale cinese, inevitabilmente Pechino deve pagarne un prezzo. E questo prezzo è l’esistenza di una voce fuori dal coro. Una voce che alla Cina non conviene zittire, perché a quel punto non avrebbe più quel laboratorio capace di individuare strumenti che possono essere utili anche per lo sviluppo istituzionale della madrepatria.

 


TWEET DELLA SETTIMANA

Venerdì mattina le prime parti del sistema russo di difesa anti-aerea S-400 acquistato dalla Turchia in barba ai moniti di Washington sono arrivate ad Ankara, e Sputnik, testata pro-Cremlino, ne ha dato prontamente notizia sul suo account Twitter in lingua inglese.

 


NOTIZIE DAL MONDO

 

Guerra delle lettere all’Onu sullo Xinjiang. Lunedì gli ambasciatori di 22 Paesi hanno trasmesso una lettera al Consiglio Onu dei Diritti Umani nella quale esprimono preoccupazione per il confinamento “in larga scala” e per “la diffusa sorveglianza e le restrizioni” che colpiscono gli “Uiguri e altre minoranze nello Xinjiang”. I firmatari, che includono gli inviati al Palazzo di Vetro di Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, Canada, Giappone e Svizzera (ma non quello degli Usa, usciti polemicamente dal Consiglio dei Diritti Umani l’anno scorso), esortano la Cina ad “astenersi dalle detenzioni arbitrarie e dalle restrizioni della libertà di movimento degli Uiguri e degli altri musulmani e delle comunità di minoranza nello Xinjiang”. Pechino è quindi invitata a “rispettare nello Xinjiang e in tutto il Paese le proprie leggi nazionali e gli obblighi internazionali e di rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali, inclusa la libertà di professare la propria religione o credo”. La lettera chiede inoltre al governo cinese di acconsentire all’ingresso nello Xinjiang dell’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani Michelle Bachelet e di esperti indipendenti affinché compiano le necessarie indagini sui campi di detenzione. La replica alla clamorosa iniziativa dei 22 ambasciatori occidentali è arrivata pochi giorni dopo sotto la forma di un’analoga lettera siglata dai colleghi di 37 Paesi dì Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina, che esprimono apprezzamento per “il contributo” dato dalla Cina “alla causa internazionale dei diritti umani”. Firmata dagli inviati di Russia, Pakistan, Arabia Saudita, Venezuela, Cuba, Corea del Nord, Bielorussia, Myanmar, Filippine, Siria, Oman, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e altri, la lettera sottolinea come la Cina, “davanti alla grave sfida del terrorismo e dell’estremismo, ha intrapreso una serie di misure di contro-terrorismo e deradicalizzazione nello Xinjang, incluso mettere in piedi del centri di istruzione, formazione professionale e addestramento”. Nello Xinjang, a detta degli ambasciatori, non solo sono salvaguardati i diritti umani fondamentali di tutti i gruppi etnici, ma è anche tornata la sicurezza, come dimostra il fatto che non si registrano attentati terroristici da tre anni a questa parte. E la popolazione, si sostiene, è felice. I diplomatici si spingono a lodare la Cina per i “notevoli risultati nel campo dei diritti umani”, apprezzandone le azioni di “protezione e promozione dei diritti umani attraverso lo sviluppo”. Nella missiva c’è spazio anche per un attacco alle nazioni che indulgono nella pratica di “nominare, additare ed esercitare pressione sugli altri Paesi” per presunte o effettive violazioni dei diritti umani. Approfondisci su South China Morning Post, Reuters e New York Times.

 

Prima telefonata giovedì tra Putin e Zelenskiy. Secondo il Cremlino, l’iniziativa l’ha presa il nuovo presidente ucraino, che avrebbe discusso  col collega russo  del ritorno in patria dei prigionieri ucraini e, soprattutto, dell’avvio di nuovi negoziati sulla Crimea e sul conflitto nel Donbass sulla base del formato “Normandia”, che affida a Francia e Germania il compito di mediare tra Mosca e Kiev. La telefonata arriva dopo la profferta, fatta lunedì da Zelensky al collega russo attraverso un video social,  di incontrarsi a Minsk per discutere del contenzioso tra i due Paesi.  La proposta del presidente ucraino, che ha incontrato l’immediata approvazione del presidente bielorusso Alexander Lukashenko, è di allargare il formato Normandia al presidente Usa Donald Trump e alla premier britannica Theresa May. In un colloquio avuto lo stesso giorno con il presidente della Commissione Europea Donald Tusk e il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, Zelensky ha ventilato la possibilità di togliere l’embargo alle aree controllate dai ribelli qualora questi ultimi riconsegnino al governo ucraino gli stabilimenti industriali conquistati con le armi. Approfondisci su Reuters e Al Jazeera.

 

Francia e Gran Bretagna – ma non la Germania – schiereranno nuove truppe in Siria. Al contrario di Parigi e Londra, Berlino non accoglie le richieste degli Usa di inviare nella Siria nordorientale dei militari da affiancare alle forze Usa che, secondo i desiderata di Donald Trump, dovrebbero essere parzialmente ritirate. Secondo le fonti del Guardian, Francia e Uk aumenteranno di un quantitativo non noto, ma che dovrebbe essere nell’ordine del 10-15%, le unità d’élite che ambedue i Paesi già schierano su quel fronte. Il governo tedesco ha motivato il proprio diniego sostenendo, attraverso il portavoce Steffen Seibert, di voler “sticking to the current measures”. Che significa “niente truppe di terra”. Un rafforzamento del dispositivo tedesco renderebbe necessario, d’altronde, un voto del Bundestag e un conseguente rinnovo delle operazioni militari in Siria, che vedono la Germania contribuire alla coalizione internazionale anti-Isis con alcuni Tornado, un aereo da rifornimento e addestratori in un impegno che si concluderà il prossimo 31 ottobre. C’è da mettere in conto inoltre la contrarietà dei partner socialdemocratici di Angela Merkel. Su Twitter, il leader ad interim dell’SPD, Thorsten Schäfer-Gümbel, ha scritto a chiare lettere che “con noi non ci saranno truppe di terra tedesche in Siria”. Approfondisci su The Guardian e Politico.eu.

 

L’isis intanto fonda la Provincia della Turchia. Nel video di cinque minuti girato nel “Wilayah” della Turchia si vedono alcuni militanti formulare il giuramento di fedeltà (bayah) al califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Ottavo della serie “E il miglior risultato sarà per i Giusti”, il filmato è il primo realizzato nella nuova provincia.I neo-adepti ritratti nel filmato sono armati di tutto punto: si possono distinguere un fucile di precisione Draganov, un fucile automatico PKM, un lanciagranate RPG-7, due fucili d’assalto AKMS, una pistola Glock e varie granate. I sette video precedenti avevano visto protagonisti jihadisti delle province del Khorasan (che comprende Afghanistan e Iran), del Caucaso, dell’Asia orientale, del Sinai, dell’Africa occidentale e della Libia, cui va aggiunto un video originato in Azerbajian, che a differenza delle precedenti non è stato ancora dichiarato una provincia del califfato. La propaganda dell’Isis aveva già fatto riferimento ad una provincia turca: va menzionato in particolare il video del 29 aprile che mostrava al-Bagdadi, riapparso dopo quasi cinque anni di occultamento,  controllare alcune cartelle contenenti informazioni sulle varie province del califfato, tra cui quella turca. Negli anni del suo dominio siro-iracheno, l’isis ha prodotto per un certo tempo un magazine in lingua turca, Konstantiniyye. La Turchia è stata colpita varie volte dal gruppo jihadista: gli attentati più clamorosi furono quelli dell’ottobre 2015 a Diyarbakir e Ankara e il triplice attacco suicida all’aeroporto Atatürk del giugno 2016. L’ultimo colpo messo a segno dall’Isis in Turchia risale al capodanno 2017, quando fu preso di mira il nightclub Reina di Istanbul. Approfondisci su Defense Post.

 


SEGNALAZIONI

  • “Das wäre nicht das Ende Europas”: l’intervista al  ministro degli Esteri del Lussemburgo, il socialista Jean Asselborn, sul voto al Parlamento Europeo di ratifica della nomina del nuovo presidente della Commissione Europea pubblicata sul numero odierno della Süddeutsche Zeitung.
  • “Islamist leader elected new speaker of Algeria parliament”: l’elezione di Slimane Chenine, leader di una coalizione di partiti islamisti, a nuovo presidente del parlamento algerino nell’articolo di Al Jazeera.
  • “1,250-mile road linking Europe to China given green light”: l’approvazione del progetto per la realizzazione dell’autostrada “Meridiana” che collegherà la Bielorussia al Kazakistan, ed è parte delle nuove vie della seta cinesi, nell’articolo della CNN.
  • “In new message, Al-Qaeda chief calls for ‘united jihad’ in Kashmir, says Pakistan Army can’t be trusted with liberation of Indian state”: il messaggio con cui il capo di al Qa’ida Ayman al-Zawahiri incita i gruppi jihadisti del Kashmir a colpire obiettivi civili e militari indiani nell’articolo di Firstpost.
  • “At least 544 civilians killed in Russian-led assault in Syria, rights groups say”: il bilancio delle ultime operazioni militari russe nella provincia siriana di Idlib nell’articolo del Guardian.
  • “America and North Korea: Are We Headed for a Freeze-for-Freeze Nuclear Deal?”: l’articolo di Daniel R. DePetris sul negoziato nucleare Usa-Corea del Nord su The National Interest

Il Taccuino Estero è l’appuntamento settimanale di Policy Maker a cura di Marco Orioles con i grandi eventi e i protagonisti della politica internazionale, online ogni lunedì mattina.

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