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Cosa succede a Hong Kong dopo l’elezione (farsa) di John Lee

Pubblicato il 12/05/2022 - Start Magazine

Come dimostra l’arresto del novantenne cardinale Zen, uno dei più noti sostenitori del campo democratico nonché oppositore dell’accordo tra Cina e Vaticano del 2018, il quadro a Hong Kong delle libertà e dei diritti fondamentali si è ormai deteriorato.

E non c’è solo Zen: c’è stata soprattutto, la scorsa domenica, l’elezione farsa a nuovo governatore del principale volto della repressione scattata nel 2019, l’ex capo della sicurezza John Lee Ka-chiu, che dal 2020 è nella black list degli Usa e, per questo, non può nemmeno detenere un account YouTube.

Un’elezione, quella di Lee, con cui Xi Jinping ha voluto infliggere l’ennesimo schiaffo alla un tempo vibrante ex colonia britannica e, al tempo stesso, a quell’Occidente che negli ultimi tre anni ha guardato con orrore alla deriva autoritaria di quella che fino a poco tempo fa era una testa di ponte della democrazia nei territori del Dragone.

L’elezione di Lee

Lee ha vinto facile, essendo l’unico candidato in lizza e avendo raccolto addirittura il 99% dei voti (solo 8 i contrari, riferisce Reuters) della LegCo, l’Assemblea legislativa di 1.416 membri che, secondo le regole del sistema elettorale opportunamente riformato l’anno scorso con il decisivo contributo dello stesso Lee, che presiedeva l’apposita commissione, devono necessariamente essere “patrioti”.

Le congratulazioni di Pechino

Il governo cinese si è subito congratulato con il successore di Carrie Lam, che entrerà in carica il prossimo 1° luglio, osservando come l’elezione si sia svolta “in modo corretto, giusto e ordinato in accordo con le leggi e i regolamenti”.

Sono giunte puntuali anche le congratulazioni del Hong Kong and Macao Affairs Office, l’organo che si occupa di gestire le complesse relazioni tra isola e madrepatria, per il quale “il successo di questa elezione” dimostra la “bontà” del nuovo sistema elettorale che – si aggiunge con sprezzo del pericolo – risulta essere in linea col noto principio “un Paese due sistemi”.

Le dichiarazioni di Nathan Law

Le reazioni al presunto esercizio di democrazia andato in scena a Hong Kong, e alla conseguente esultanza del fronte pro-Pechino, non si sono fatte attendere.

“Non si tratta affatto sotto ogni punto di vista di un (processo) democratico”, è stato il commento dell’ex membro della LegCo e protagonista della rivolta degli ombrelli del 2016, l’oggi esule Nathan Law. “Si tratta solo di una nomina, non si può proprio parlare di elezione”.

I comunicati del G7 e dell’Ue

A tamburo battente sono arrivate le secche dichiarazioni dei ministri degli esteri del G7 e dell’Alto rappresentante della politica estera Ue, Josep Borrell.

Per i capi delle diplomazie di Usa, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Canada e Germania l’elezione di domenica “è parte integrante di un continuo assalto al pluralismo politico e alle libertà fondamentali”.

“L’attuale processo di selezione e la nomina che ne risulta”, prosegue il comunicato dei sette grandi, “segnano un netto allontanamento dall’obiettivo del suffragio universale… così come statuito dalla Basic Law … ed erodono ulteriormente la possibilità per i cittadini di Hong Kong di essere legittimamente rappresentati”.

Dello stesso tenore le parole dell’Alto rappresentante Borrell, per il quale la riforma elettorale adottata ad Hong Kong “indebolisce i già limitati elementi democratici del sistema di governo” dell’isola e “va contro l’impegno a una maggiore rappresentatività iscritto nella Basic Law”.

Per l’Ue, dunque, il voto di domenica è da considerarsi come “l’ennesimo passo verso lo smantellamento del principio “un Paese due sistemi”.

Ma chi è Lee?

I toni da scontro di civiltà dimostrano quanto sia tesa ormai la relazione tra Occidente e Cina che trova nella questione di Hong Kong uno dei nodi più roventi.

Sta di fatto che Pechino riesce nell’intento di porre a capo dell’isola ribelle un proprio fedelissimo con un know how securitario che non può che risultare gradito alla madrepatria decisa a schiacciare con ogni mezzo l’anelito democratico degli hongkonghesi.

Entrato in polizia a 19 anni nel lontano 1977 come semplice recluta, Lee ne scala rapidamente le gerarchie diventando Sovrintendente capo nel 1997 e Vicecommissario nel 2010. Due anni dopo il salto al Security Bureau in qualità di sottosegretario e la concomitante e simbolica rinuncia alla cittadinanza britannica.

Con l’arrivo di Carrie Lam alla guida dell’isola, la sua posizione si consolida ulteriormente con la nomina prima a Segretario alla sicurezza e poi, l’anno scorso, a Segretario capo dell’Amministrazione di Hong Kong, ossia al secondo posto di potere dopo la stessa Lam.

Una scalata in cui si coglie nitidamente la riconoscenza di Pechino per il pugno duro con cui Lee gestisce le clamorose proteste del 2016 prima e soprattutto del 2019, quando gli agenti sotto il suo comando fecero ampio ricorso a proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

Punto di forza o tallone d’Achille?

Ma il punto di forza del nuovo governatore corrisponde anche al suo tallone d’Achille. Come osserva la Cnbc, “John Lee si è focalizzato per tutta la sua carriera sulla sicurezza ed è ampiamente inesperto (untested) in altre aree”.

Se in un sistema come quello di Hong Kong, dove poco più di un migliaio di grandi elettori rigorosamente selezionati designa il leader, la popolarità non è un fattore che possa dirsi decisivo (e Lee, per inciso, gode di appena il 34% del gradimento dei cittadini di Hong Kong), non lo stesso può dirsi per le abilità manageriali necessarie per gestire una megalopoli complessa e un hub finanziario globale.

Ma a Pechino tutto questo, nell’attuale momento, sembra interessare poco. La priorità è proseguire nella stretta cominciata quando il Security Bureau diretto da Lee varò la famigerata National Security Law che ha introdotto nell’isola quello che un recente rapporto del Georgetown Center for Asian Law ha definito “clima di paura” e di cui l‘ultimo a fare le spese è il cardinale Zen.

Hong Kong verso l’abisso?

Nel braccio di ferro globale con gli Usa e nella grande sfida planetaria tra autocrazie e democrazie, Pechino non vuole e non può permettersi alcun arretramento.

A pagarne il prezzo sono gli stessi cittadini di Hong Kong, che a decine di migliaia ogni mese prendono la via dell’esilio (180.000 tra febbraio e marzo, ricorda la Cnn) insieme a quei professionisti e manager che tanto avevano contribuito alla ricchezza dell’isola.

Intanto nell’ultima classifica sulla libertà di stampa di Reporters sans frontières Hong Kong precipita di 68 posizioni e finisce al 148° posto, poco sopra l’Afghanistan.

Come ciò possa coniugarsi con lo slogan della campagna elettorale di Lee, che ha promesso di rendere Hong Kong “un posto di speranza”, sarà tutto da vedere.

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