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Bin Laden non è morto

Pubblicato il 25/04/2015 - E-Paper

Il blitz antiterrorismo condotto venerdì scorso in sette province italiane scoperchia una realtà inquietante. I dieci arresti eseguiti dalla Polizia di Stato a Olbia, Civitanova Marche, Bergamo, Roma, Sora, Foggia e Porto Recanati, cui vanno aggiunte altre otto ordinanze di custodia cautelare non eseguite perché i destinatari hanno lasciato il territorio nazionale, rivelano l’esistenza nel nostro paese di un network islamico ramificato, finanziariamente solido e dedito al jihad globale. Un’organizzazione che, secondo gli inquirenti, “si ispirava ad al Qaeda”, con cui erano nutrite relazioni ad altissimo livello, ed era “dedita ad attività criminali transazionali” che alimentavano  simultaneamente l’insurrezione contro il governo del Pakistan – quasi tutte le persone ammanettate sono pakistane – e “la lotta armata contro l’Occidente”. Il primo elemento emerso dalle indagini è intriso di sangue: la fitta rete di contatti intessuta dall’organizzazione tra l’Asia centrale e vari centri della nostra Penisola e l’ingente liquidità raccolta sono servite anche a pianificare attentati in Pakistan. Tra i colpi messi a segno ci sarebbe quello dell’ottobre 2009 a Peshawar, con un bilancio di 137 morti, oltre 200 feriti e l’evidente intimidazione nei confronti dell’ex Segretario di Stato americano Hillary Clinton, presente quel giorno nella città pakistana  infiltrata da tempo immemorabile dal jihadismo autoctono e mondiale. Il ruolo svolto in quella circostanza dagli elementi italiani sarebbe di primissimo piano. Nell’ordinanza di custodia cautelare che contesta a cinque arrestati il delitto di strage, il gip del tribunale di Cagliari spiega che questi, “in concorso tra loro e con altri soggetti non ancora identificati”, facevano “deflagrare un potente ordigno nel mercato cittadino Menena Bazar”. Ma tra i progetti coltivati dalla rete ci sarebbe anche un attentato nel nostro paese, precisamente in Vaticano. L’obiettivo, si presume, sarebbe la persona dell’ex pontefice Benedetto XVI. “Non c’è la prova”, ha spiegato il responsabile della Digos di Sassari, Mario Carta, ma “il forte sospetto” che il network abbia inviato a Roma nel marzo 2010 due aspiranti kamikaze. Le intercettazioni dell’epoca captarono riferimenti ad un “grande jihad” e ad un “baba”, un capo da colpire. Il piano sarebbe sfumato a causa di una perquisizione effettuata dalla Polizia, allertata grazie alle intercettazioni, nell’abitazione di uno dei due terroristi. A quel punto, l’organizzazione contattò la coppia facendole capire di dover “cambiare aria”. Basterebbero questi segnali a mettere in luce la pericolosità dei movimenti tracciati dalle nostre autorità, che fortunatamente si rivelano attente ed efficaci. Ma c’è di più, molto di più. Il network smantellato, basato in Sardegna ma in contatto con altri centri del nostro paese tra cui l’area tra Bergamo e Como in cui operava il presunto ideologo, l’imam Hafiz Muahammad Zulkifal, trasferiva nelle casse di gruppi eversivi pakistani – oltre ad al Qaeda, sono menzionate formazioni come Theerek E Taliban, Theerek e Enifaz e Sharia e Mihammadi – ingenti quantità di danaro. Due i metodi per il trasferimento delle somme. L’invio diretto, tramite viaggi aerei dei membri dell’organizzazione che aggiravano i controlli doganali. E poi una tecnica ampiamente nota alle autorità antiterrorismo: la cosiddetta “hawala”, un sistema molto radicato nel mondo islamico che si basa sul legame fiduciario tra chi versa le somme ad un intermediario e chi le riceve in un altro paese, dove basta comunicare un codice segreto al terminale presente in loco per entrare in possesso del denaro. Sono due anche le fonti di approvvigionamento. La prima era costituita, come accade spesso in questi casi, dalle collette raccolte nelle moschee, che i semplici fedeli offrono senza sospettare che saranno destinate a finanziare il jihad. L’altra era, come detto, lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Gli inquirenti hanno documentato l’organizzazione meticolosa del trasferimento di migranti provenienti dall’Asia centrale e destinati a stabilirsi nel nostro paese o nel nord Europa. Pagando settemila euro, i beneficiari ottenevano false certificazioni di contratti di lavoro o si vedevano addirittura riconoscere lo status di vittima di persecuzioni etniche o religiose. Il pacchetto era comprensivo di un sostegno logistico che andava dal patrocinio verso i competenti uffici immigrazione, alle istruzioni sulle dichiarazioni da rendere per ottenere l’asilo politico sino alla fornitura di telefoni e carte sim. All’interno di questi flussi, presumibilmente, erano compresi soggetti da reclutare come protagonisti di una causa jihadista che mira a seminare morte anche in Occidente. Questo particolare lo si desume dall’identikit dell’imam Zulkifal, che il procuratore distrettuale Mauro Mura definisce “un personaggio di spiccato spessore criminale (…) votato alla propaganda radicale e alla ricerca di fedeli anche pronti al martirio”. Un altro dettaglio dell’inchiesta rivela lo spessore di un network che ha operato per anni, fortunatamente non indisturbato, nel nostro paes . Sono emersi contatti diretti niente meno che con Osama bin Laden. Tra gli arrestati ci sarebbero infatti due persone che avrebbero aiutato lo sceicco del terrore a sfuggire alle incessanti ricerche da parte degli americani, o che avrebbero addirittura fatto parte delle sue guardie del corpo. Se le imputazioni reggeranno in sede giudiziaria, l’Italia dovrà necessariamente trarre un insegnamento dagli arresti di venerdì. Contrariamente a quanto si va sostenendo in questi ultimi mesi segnati dall’avvento del Califfato e dall’emergere della minaccia dei “lupi solitari”, ossia di soggetti che si autoradicalizzano su internet e decidono autonomamente di entrare in azione, il terrorismo islamico nel nostro paese non ha ancora perso la sua fisionomia classica, fatta di reti tessute nel mondo reale da imprenditori della morte. Emerso nitidamente dalle indagini, lo spettro di bin Laden non si è ancora volatilizzato.
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