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Crepe nel muro gialloverde

Pubblicato il 16/02/2019 - Il Piccolo

È sempre più chiaro, col passare dei giorni, come l’ingranaggio su cui scorre l’esperienza gialloverde si sia inceppato. Gli ultimi granelli di sabbia infiltratisi nel motore del governo del cambiamento arrivano dal fronte dell’autonomia differenziata, cavallo di battaglia della Lega in grado, come altri temi cari al Carroccio, di generare fibrillazione tra le fila degli alleati pentastellati. Arrivata sul tavolo del Consiglio dei Ministri, la bozza delle intese con le tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – che chiedono più competenze si blocca davanti all’ostruzionismo del M5S espresso nel nome del no alla “secessione dei ricchi” e alla “divisione tra cittadini di serie A e di serie B”. Uno stallo, quello sul regionalismo differenziato, che ha l’effetto di cementare la cesura tra le due forze di maggioranza: l’una rappresentativa di quei ceti produttivi e benestanti del Nord che scalpitano per strappare maggiore autonomia e risorse allo Stato centrale, l’altra espressione di un Mezzogiorno che nutre una comprensibile sindrome da abbandono. Un dualismo politico che ha l’effetto di esaltare quello economico che piaga da sempre un Paese incapace di accorciare le distanze tra le sue componenti geografico-sociali. E che non può che inibire, fino a neutralizzarla, la capacità di sintesi che spetta al potere esecutivo. La questione delle autonomie rischia dunque di paralizzare ulteriormente un’azione di governo già duramente messa alla prova da dossier scottanti come la Tav. Anche qui, com’è noto, si misurano due linee incompatibili. Quella del M5S è stata mirabilmente sintetizzata dal ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “chi se ne frega di andare a Lione”. Una posizione che, figlia delle battaglie storiche di un Movimento cresciuto a pane ed ortodossia ambientalista, si contrappone fatalmente a quella di una Lega da sempre favorevole alle grandi opere. Come sulle autonomie, anche sulla Tav il governo sembra intenzionato a rimandare il tempo delle decisioni, rinviandolo a quando le prossime elezioni regionali e quelle per l’Europarlamento avranno delineato i nuovi equilibri politici. Un attendismo che non fa altro che spostare più in là il momento in cui quel “buco nella montagna” sospingerà l’esperimento gialloverde sull’orlo della crisi. Crisi che potrebbe aprirsi ancor prima, se un Movimento in crisi di identità decidesse di rispolverare le radici giustizialiste votando a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno sul caso Diciotti. Eventualità che, a Salvini, potrebbe non dispiacere. Il martirio di un processo sui migranti gonfierebbe infatti ancor di più le vele del suo consenso. E gli fornirebbe l’alibi per staccare la spina ad un governo che ormai gli sta stretto. Con lo sguardo fisso su Palazzo Chigi, e gli occhi puntati sulla partita per Bruxelles, Salvini scruta fiducioso l’orizzonte. Dove si stagliano le contraddizioni di un Movimento che, dagli eventi prossimi venturi, ha tutto da perdere.

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