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Ecco la vera strategia Usa su Russia e Ucraina. Parla il prof. Pelanda

Pubblicato il 15/04/2022 - Start Magazine

La guerra in Ucraina? Un vistoso errore strategico non solo della Russia ma anche della Cina, di cui Mosca agisce come vassallo. Un errore, soprattutto, che avvantaggia nettamente il blocco delle democrazie, finalmente compatte nel confronto a tutto campo con le potenze del capitalismo autoritario.

È l’analisi che Carlo Pelanda, analista, saggista e docente di Geopolitica economica all’Università degli Studi Guglielmo Marconi, fa di un conflitto che egli invita a vedere con le lenti diverse da quelle più popolari in questo momento.

Dal punto di vista della Geopolitica economica, infatti, questa guerra si trasforma, per una clamorosa eterogenesi dei fini, in una disfatta epocale per chi l’ha scatenata, e in una grande opportunità per l’Occidente e per il nostro Paese (ma non per l’asse franco-tedesco), ritrovatisi in una posizione convergente che conferisce loro un obiettivo vantaggio strategico nella sfida con Pechino e Mosca.

Per usare le parole di Pelanda, questa guerra è un grande “favore” che il proxy di Xi Jinping, Vladimir Putin, ha fatto a tutti noi.

Professore, siamo arrivati al punto che anche Finlandia e Svezia bussano alla porta della Nato. Non è proprio ciò che Putin aveva previsto, vero?

Già, a quanto pare non ci troviamo di fronte a un grande ufficio strategico. Anche se in sostanza non cambierà nulla perché Finlandia e Svezia erano già integrate nella Nato, si tratta di un passo politico importante perché formalmente questi due Paesi beneficeranno d’ora in poi dell’art. 5 della Nato secondo cui, come è noto, un attacco a qualunque membro dell’Alleanza costituisce un attacco all’Alleanza intera.

Un vistoso fallimento dunque, frutto di una strategia che altri hanno definito approssimativa.

I russi non hanno ragionato bene, visto che l’Unione europea ora, male che vada, si troverà a conquistare due terzi dell’Ucraina, mentre l’America si ritrova a rinsaldare l’alleanza con i Paesi dell’Est e la Gran Bretagna a consolidare il suo progetto strategico di essere il riferimento di un’alleanza baltica. Vista così, è evidente inoltre che il dominio franco-tedesco sull’Ue è quasi totalmente annullato, dato che Parigi e Berlino non stanno combattendo e sono anzi contrarie ai rifornimenti di armi all’Ucraina.

Pare un successo completo per gli Usa.

Siamo in quella direzione. È importante evidenziare che all’America interessa ora non che si arrivi alla pace, bensì a un congelamento del conflitto in Ucraina per erodere le risorse di Mosca, e puntare a una lenta destabilizzazione della stessa Russia, e anche della Bielorussia, rimanendo così in attesa delle inevitabili conseguenze che matureranno nel tempo.

Quindi paradossalmente l’interesse dell’America è che il conflitto si protragga?

 Certamente. Del resto il conflitto vero non è con la Russia, ma con la Cina. Il confronto globale è tra Washington e Pechino. La Russia ha commesso un grande errore, quello di mettersi nella condizione di proxy della Cina, cioè di Xi Jinping. Putin non avrebbe mai fatto ricorso alla guerra cinetica senza contare sul sostegno di Pechino. Ecco perché la risposta giusta da parte dell’Occidente è, ripeto, congelare il conflitto in Ucraina puntando a uno scenario di tipo coreano, con la divisione tra Est e Ovest con la quale si vanificherebbero sia gli obiettivi di Mosca che quelli di Pechino. L’America ha tutto l’interesse a lasciare la Russia in uno stato di tensione permanente in Ucraina, soprattutto per impedire alla Cina – con la quale, come ho detto, è in atto il vero confronto – di raggiungere i suoi obiettivi.

Professore, il conflitto in Ucraina non avrebbe mutato di una virgola la Grand strategy degli Usa, concentrati da tempo nel braccio di ferro col Dragone?

In realtà un cambiamento c’è stato ed è il vantaggio che questa guerra ha assicurato al fronte delle democrazie, che si sono finalmente compattate. A questo punto, visto che parliamo di Grand strategy, vorrei farle un riferimento legato anche alla mia attività scientifica condotta negli Usa.

Prego, dica pure.

Nel febbraio 2013, quando Obama lanciò le iniziative del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) con l’Europa e del TPP (Trans-Pacific Partnership) con la regione del Pacifico, fu avviato simultaneamente un programma di ricerca che coinvolse l’Università in cui insegno, oltre a vari think tank. Il progetto aveva un titolo un po’ strano: Deglobalizzazione conflittuale e riglobalizzazione selettiva.

Interessante. Ce ne può spiegare i contenuti?

Con il TTIP e il TPP l’America aveva cercato di costruire due aree di mercato sotto sua influenza per tentare di bloccare la Cina e isolare la Russia. Questo generò la tendenza alla bipolarizzazione del mercato globale e del sistema internazionale. La Cina rispose con la Via della seta e la Russia nel 2013/14 aumentando le tensioni nell’Est, fondamentalmente per ricattare la Germania e sabotare così il TTIP. Da lì è cominciato un processo che non conduce, come molti miei colleghi sostengono, alla multipolarità, con l’Europa che rappresenterebbe un polo autonomo: la vera tendenza è alla bipolarizzazione, cioè allo scontro tra l’area del capitalismo autoritario e l’area del capitalismo democratico. Come riscontrammo dopo aver avviato il nostro progetto, mancava però un tassello fondamentale, ossia la compattazione. E qui ritorniamo alla guerra in Ucraina…

La quale, se ho intuito bene, ha fornito proprio il tassello mancante.

Senz’altro. Putin ha fatto un grosso favore al blocco delle democrazie, comprendenti G7 allargato, Nato e Ue, perché le ha indotte a compattarsi, arrestando la tendenza a divergere. L’azione di Putin, spinto secondo me da Pechino nella sostanza anche se non a parole, ha creato quel fattore che mancava, il motivo morale per consolidare l’insieme delle democrazie.

Che ruolo può avere l’Italia in questo contesto?

Per l’Italia si aprono scenari molto interessanti. Essendo ormai sbarrato l’accesso al mercato russo ed essendoci crescenti difficoltà con il mercato cinese, per l’Italia diventa imperativo rivolgersi a mercati alternativi: quello americano anzitutto, nell’ambito di una relazione che va resa più fluida, per poi agire più intensamente nel continente africano e cominciare a guardare con occhi diversi al Sudamerica e cioè a quell’immensa area grigia che si colloca tra i due blocchi contrapposti.

Ma l’influenza cinese in Africa e Sudamerica si è accresciuta notevolmente

In realtà l’Africa, che la Cina da tempo considera conquistata, è contendibile. Lo stesso direi per il Sudamerica, dove un’intelligente divisione del lavoro tra Usa ed Europa assegnerebbe a quest’ultima il compito di condurre le danze, visto che i gringos da quelle parti non sono molto amati. Ricordo che gli europei stanno conducendo un prenegoziato per fare un accordo di libero scambio con l’area che comprende il Brasile e i Paesi del Mercosur.

L’Italia ha tutto da guadagnare, dunque, dalla sua appartenenza al blocco delle democrazie?

Sì. Se questa tendenza al consolidamento del blocco venisse confermata nel tempo, l’Italia farebbe bingo. Roma godrebbe infatti dell’accesso a una zona sicura di mercato, qual è quello americano, ma anche di volumi crescenti di esportazioni verso l’Africa e il Sudamerica. Visto il suo tipo di export, concentrato soprattutto sull’industria leggera, l’Italia beneficerebbe notevolmente della formazione di un mercato internazionale molto ampio, che sarebbe garantito da un G7 allargato.

 

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