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La scuola elementare senza più bimbi italiani

Pubblicato il 04/10/2019 - Messaggero Veneto

di Marco Orioles

Che Borgo Stazione sia il quartiere multietnico di Udine lo rivelano inequivocabilmente i dati anagrafici, che ci dicono come nel quadrilatero che si sviluppa tra viale Europa Unita, viale Leopardi, via Ciconi e via De Rubeis un residente su tre non sia cittadino italiano. Se questo dato  – 33% di stranieri sul totale – può già apparire sorprendente, è bene dire che non è il solo e nemmeno il più clamoroso. In Borgo Stazione c’è anzi un ambito dove non solo le proporzioni tra nativi e foresti si invertono, ma la presenza italiana si riduce al lumicino.

Stiamo parlando della scuola primaria Dante Alighieri, dove le iscrizioni per il corrente anno scolastico restituiscono un quadro choc: su un totale di 51 alunni, quelli italiani sono appena quattro, sommersi da una popolazione scolastica che conta tra le proprie fila bambini e bambine di mezzo mondo. Su quattro classi, ve ne è addirittura una – la III – che, su tredici alunni, di italiani non ne conta manco uno, sostituiti da minori provenienti da realtà quali Bangladesh, Cina, Egitto, Filippine, Ghana, Marocco, Nigeria e Serbia. Rappresenta un caso però anche la classe V, dove ci pensa un singolo alunno italo-albanese a garantire un presidio italico almeno parziale. Come ci spiega il dirigente della Dante, Paolo De Nardo, “la nostra scuola ha questa caratteristica composizione da diversi anni e per un motivo molto semplice: chi abita in questo quartiere tende a iscrivere i propri figli nella nostra scuola, e nel quartiere c’è una prevalenza di residenti e dunque di bambini stranieri. Peraltro – precisa il dirigente, ricordando come il problema non sia affatto confinato in queste mura – la nostra non è l’unica scuola della città che presenta tali numeri e tendenze, con gli iscritti stranieri che sono in gran numero e in alcuni casi la maggioranza”.

I dati degli iscritti alla Dante richiedono tuttavia anche altre spiegazioni, vista la lampante differenza tra una presenza straniera nel quartiere pari al 33% e un numero di alunni non italiani alla Dante che supera il 90% del totale. “I fattori che spiegano questo”, osserva a tal proposito De Nardo, “sono diversi, il primo dei quali è che le famiglie italiane hanno maggiori possibilità di mobilità. Spesso infatti le famiglie straniere non possiedono l’automobile, che è appannaggio degli italiani. Pesano poi le possibilità economiche, che mettono gli italiani in condizioni di iscrivere i propri figli in determinate scuole, opportunità che invece è del tutto preclusa agli stranieri”.  Ma c’è un’altra variabile in gioco, che il dirigente non fa alcuna fatica ad ammettere: alcuni genitori rigettano l’idea di iscrivere il proprio figlio in una scuola come la Dante. “Ho avuto questa esperienza in questi anni”, ammette De Nardo, “però mi sento di dire che non si tratta di un rifiuto, ma del timore che un contesto come il nostro possa pregiudicare l’apprendimento dei loro figli. La vulgata infatti è che se ci sono alunni che stentano a parlare l’italiano, il percorso di apprendimento sarà rallentato, e questo è un rischio che i genitori non vogliono correre”.

Si tratta però, è la domanda che rivolgiamo al dirigente, di un timore giustificato? È vero cioè che inserire un bambino in una classe dove i non italofoni sono prevalenti vada a detrimento, tra le altre cose, della qualità dell’insegnamento? La risposta del nostro intervistato è che “il discorso è lungo e complicato. È chiaro comunque che laddove non c’è una presenza significativa di italiani possono sorgere dei problemi. I bambini infatti devono essere esposti ad un lessico ricco per poter apprendere bene la lingua e, di conseguenza, avere un percorso di studi significativo. E questo oggettivamente è più difficile se gli italiani sono pochi o addirittura non ci sono”. È lecito definire quella classe della Dante dove di italiani non c’è traccia una classe ghetto? La risposta della maestra Alessandra Stavolo, che insegna proprio in quarta, è un no secco e motivato: “i miei alunni sono sì delle etnie che si possono appurare dalla tabella degli iscritti, ma sono nati a Udine”. Si tratta dunque di bambini italofoni, che hanno appreso l’italiano all’asilo e nelle scuole d’infanzia. Bambini che, rimarca la maestra, “non si riconoscono affatto come stranieri. È per questo motivo che noi operatori viviamo con una certa sofferenza l’essere identificati come scuola di stranieri”.

Queste rassicurazioni nulla tolgono in verità al problema rappresentato da quei minori che entrano per la prima volta in aula completamente a digiuno della nostra lingua. Ci sono, per esempio, quelli che il lessico ministeriale identifica come NAI, “nuovi arrivi in Italia”, per i quali la scuola – ricorda la maestra Alessandra – “ ha previsto un protocollo finalizzato a accelerarne e potenziarne l’apprendimento linguistico, per poterli mettere alla pari con tutti gli altri nel minor tempo possibile”. Ma come, concretamente, vengono gestiti i bambini cui sono del tutto ignoti i segni e i significati della lingua italiana? “Il primo passo che facciamo con loro”, osserva la maestra, “è capire se sono francofoni o anglofoni, e sulla base di questo decidiamo di usare come lingua ponte il francese o l’inglese. A quel punto la didattica viene impostata con degli adeguamenti”.

Quanto tempo ci vuole perché il gap tra chi parla l’italiano e chi non lo parla sia, se non superato, almeno ridotto? “Da tre a quattro mesi”, è la risposta di Stavolo. “Dopo di che i bambini sono già in grado di produrre qualcosa in italiano, almeno in termini di morfologia e di sintassi. A ridosso della fine del primo quadrimestre abbiamo insomma già superato il primo scalino che è quello dell’incomunicabilità”. Superato questo scoglio, tutti i bambini dominano quella che si può definire una “lingua funzionale”, e sono in grado di esprimersi almeno rudimentalmente in italiano e di impostare embrionali scambi linguistici. “Poi però”, osserva De Nardo, “bisogna passare ad un altro stadio, che è quella della lingua dello studio, la quale richiede una sistematica esposizione alla lingua italiana, e in particolare ad un modello ricco di lingua. Per questo è necessario che i bambini stranieri stiano il maggior tempo possibile a contatto con coetanei italiani e anche con i non coetanei. Ecco perché noi alla Dante stiamo lavorando ad un progetto di continuità tra scuola ed extra-scuola ”. Agli alunni stranieri della Dante, aggiunge la maestra, “serve un esercizio continuo della lingua, che altrimenti sarebbe messa da parte alle 16:10 quando da noi suona la campanella. Di qui la necessità di lavorare in raccordo con il territorio”.

I problemi della Dante, ad ogni modo, non si esauriscono nella sola questione linguistica. Ci sono alti nodi aperti da una popolazione scolastica in cui la componente italiana è rarefatta. Che posto ad esempio troveranno le nostre tradizioni in una scuola dove la maggior parte dei bambini crede in Allah o in altre divinità? Prima di saltare a facili conclusioni, converrà ascoltare quel che Alessandra ci racconta in merito a ciò che si fa alla Dante in occasione delle festività natalizie.

“Da quando siamo qui io e il dott. De Nardo – spiega -, ossia da quattro anni, i bambini musulmani fanno con i loro compagni cristiani e di altre religioni il presepe con la cartapesta, preparando i pastori, la madonnina e Gesù Bambino. E alla festa per gli auguri di Natale cantano insieme, accompagnati dal flauto dolce, ‘Tu scendi dalle stelle’ e altre canzoni del nostro repertorio tradizionale”. Se dunque né la lingua né le religioni costituiscono barriere per e tra questi bambini, quali differenze permangono tra i 47 alunni della Dante che risultano stranieri all’anagrafe e i 4 che sono italiani al 100%? Per rispondere, De Nardo ci propone un esempio: “prendete due bambini qualsiasi, metteteli nella stessa stanza e si metteranno a giocare, senza fare alcun tipo di considerazione su nazionalità, etnia, colore della pelle. Il problema è semmai la condizione di marginalità delle famiglie degli stranieri. Una famiglia che non ha le possibilità economiche, culturali e di conoscenze fa fatica a seguire il percorso di apprendimento del proprio figlio. E nel percorso di apprendimento, il ruolo della famiglia è decisivo”. Non è un caso se, dopo la primaria e la secondaria di primo grado, i percorsi scolastici degli italiani e degli stranieri divergano, con i secondi relegati per lo più negli istituti professionali o negli enti di formazione professionale – la letteratura sociologica definisce questo fenomeno “segregazione formativa” – e pronti ad entrare rapidamente nel mondo del lavoro, e i primi concentrati nei licei e destinati poi all’università, dopo la quale li attendono i mestieri più gratificanti e meglio retribuiti. Sulle differenze tra italiani e stranieri, la risposta della maestra è diversa: lei le identifica nel “senso di insicurezza, e nel timore di non essere accettati, presenti in molti dei bambini stranieri. A scuola, nell’ambiente classe, nel giardino, o in gita, questi bambini sono gruppo, sono compagni, si tengono per mano. Fuori dalla scuola invece c’è ancora paura”. Non è un caso, aggiungiamo noi, se al di fuori dell’edificio che ospita la scuola Dante si sviluppi un quartiere, Borgo Stazione, che suscita ancora molta apprensione e diffidenza. Un quartiere di cui la Dante, nel bene e nel male, rappresenta lo specchio.

 

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