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Accoglienza flop. Tutti i limiti del sistema Friuli

Pubblicato il 23/10/2019 - Messaggero Veneto

I recenti gravi episodi di criminalità a Udine con protagonisti richiedenti asilo di nazionalità pakistana e afghana analizzati dagli esperti, in un approfondimento realizzato da Marco Orioles.

I recenti fatti di cronaca accaduti nella nostra città che hanno visto protagonisti alcuni richiedenti asilo e rifiugiati di nazionalità pakistana e afghana non possono non sollevare interrogativi pesanti che investono un tema già politicamente radioattivo come l’accoglienza. L’orrida violenza sessuale compiuta pochi giorni fa ai danni di un’adolescente udinese, e il coinvolgimento di un numero significativo di migranti nello spaccio di droga in zone come Borgo Stazione, finiscono così per riaprire l’annoso dibattito sul nesso tra immigrazione e aumento della criminalità.

Un dibattito in cui pesano come un macigno le parole con cui pochi giorni fa il capo della Polizia, Franco Gabrielli, si è visto costretto a rilevare come negli ultimi anni vi sia stato in Italia “un aumento degli stranieri coinvolti tra arrestati e denunciati”, con un’incidenza specifica dei migranti sul totale delle denunce e delle misure cautelari che dal 29,8% del 2017 è passata al 32% del 2019. E poiché, ha osservato Gabrielli, “gli stranieri nel nostro paese sono il 12% (del totale della popolazione), questo dà la misura del problema”.

La schiacciante evidenza delle statistiche giudiziarie cela tuttavia l’influenza di fattori e variabili complessi che una lunga tradizione di studi e ricerche sociologiche ha sviscerato in lungo e largo, restituendoci analisi e spiegazioni che invitano a sospendere il giudizio sollecitato da quei numeri così inquietanti. Il sociologo delle migrazioni dell’Università di Milano Maurizio Ambrosini ha buon gioco a evidenziare ad esempio che “in tutto il mondo, la probabilità di commettere reati si concentra in una categoria di persone: giovani, maschi, soli. E questa popolazione è percentualmente più altra tra gli immigrati che tra gli italiani, dove ci sono meno giovani e più anziani”. Questa precisazione, che già chiarisce almeno parte del problema, va integrata da una seconda constatazione formulata dallo stesso esperto, ossia che “tra gli immigrati è più elevato il rischio di commettere reati legati alla specifica condizione di immigrato, specie se si tratta di soggetti irregolari: parliamo di illeciti come usare documenti falsi, o scappare dai controlli delle forze dell’ordine”.

Questo è un punto su cui ci invita a riflettere anche un altro sociologo come Stefano Allievi, convinto come il collega che “la propensione alla criminalità è dovuta spesso alla condizione di irregolarità”. L’esempio che il docente nell’ateneo di Padova ci propone appare quanto mai calzante. Rammentando che “qualche anno fa erano i cittadini rumeni gli immigrati in cima alle classifiche sulla criminalità”, Allievi osserva che “da un anno all’altro i dati sulla commissione di reati o sulla presenza in carcere di cittadini romeni, la cui presenza in Italia era peraltro in continuo aumento, sono precipitati. E lo sa perché? Perché la Romania aveva firmato gli accordi di libera circolazione con l’Europa, determinando la simultanea regolarizzazione dei romeni in Italia”.

A questa variabile ne va aggiunta poi un’altra che è di nuovo Ambrosini a mettere in rilievo: “la partecipazione degli immigrati alle attività criminali si concentra prevalentemente tra i cosiddetti reati di strada, per esempio quelli connessi allo spaccio di stupefacenti, oppure i piccoli furti nei supermercati. E essendo queste attività di strada più facilmente identificabili, la probabilità di essere scoperti e arrestati è più alta”.

Non è tutto. Se prendiamo un altro indicatore del nostro problema, l’elevata incidenza degli immigrati nella popolazione carceraria, scopriamo che alle spalle ci sono anche – sempre secondo Ambrosini –  “fattori come la scarsa capacità di difesa, con il ricorso costante agli avvocati d’ufficio, e il fatto che se queste persone non hanno dimora non accedono alle misure alternative”.

Nel conto bisogna mettere poi anche quelle che il sociologo chiama variabili di tipo territoriale: “l’incidenza degli immigrati nelle attività criminali”, rimarca Ambrosini, “è più alta al Nord che al Sud. Questo significa che nell’ambito criminale succede qualcosa di simile ai mercati del lavoro regolare: gli immigrati entrano soprattutto dove c’è meno offerta italiana. Ora, sappiamo che al Sud c’è ancora una quota di popolazione italiana che finisce nei circuiti della criminalità, e c’è dunque meno spazio per gli immigrati. A Nord invece, dove c’è meno offerta italiana, è più facile che si infiltrino gli immigrati. In un certo senso – è la sintesi che fa il sociologo – c’è bisogno di qualcuno che venda stupefacenti, e se non lo fanno gli italiani lo fanno gli immigrati”.

A dirla proprio tutta, le statistiche sulla criminalità mettono a nudo anche una tendenza di segno opposto a quelle richiamate di norma nel dibattito nazionale. Tendenza che è emersa chiaramente nelle ultime edizioni del “Rapporto sulle condizioni di detenzione” curato dall’associazione Antigone. Ce la spiega il coordinatore nazionale dell’osservatorio carceri di Antigone, Alessio Scandurra, per il quale “in questi anni, nonostante il numero degli immigrati in Italia sia aumentato moltissimo, i dati della criminalità degli stranieri sono rimasti stabili, o sono addirittura in leggero calo. I dati elaborati nel nostro rapporto ci dicono anzi che, se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,39%”. Se dobbiamo prestar fede a Scandurra, tutto ciò è facilmente comprensibile: “le prime ondate migratorie”, ricorda il coordinatore, “erano composte da persone che quando arrivavano qui non trovavano connazionali in grado di dar loro una mano. Si trattava pertanto di gruppi destrutturati, poveri di riferimenti, nell’ambito dei quali l’incidenza della criminalità era significativa. Man mano che il fenomeno migratorio si è consolidato, i tassi di criminalità si sono abbassati. E questo si spiega semplicemente con il fatto che gli immigrati sono meno precari di prima”.

Queste considerazioni riecheggiano nell’analisi fatta da un altro sociologo, Renzo Guolo, che aggiunge un dettaglio in più: “tutte le migrazioni”, sottolinea il docente ordinario dell’Università di Padova, “avvengono generalmente in due fasi, una in cui arrivano i maschi giovani, e una successiva in cui avvengono i ricongiungimenti familiari, che fanno diminuire i reati. In altre parole, è ovvio che nella fase iniziale la presenza di migliaia di giovani maschi fuori da ogni dimensione relazionale, affettiva e sessuale, può indurre un aumento di reati. Questo per inciso ha riguardato anche i grandi nuclei di migranti italiani di fine ‘800 e inizio ‘900, che dopo una prima fase di turbolenza hanno conosciuto una sostanziale normalizzazione anche sul piano della frequenza e della tipologia dei reati”. Di “normalizzazione” che si sviluppa nel tempo parla anche Ambrosini, che la riconduce a due fattori: “da un lato, le sanatorie varate nel nostro Paese, che hanno fatto diventare regolari molti immigrati che non lo erano, e dall’altro i ricongiungimenti familiari. Sono fattori che portano ad una minore esposizione alla criminalità e a una rarefazione di comportamenti antisociali o border line, come risse, schiamazzi, ubriachezza. Per dirla con una battuta: i migliori gendarmi sono le mogli”.

Tutte queste delucidazioni non possono naturalmente autorizzare sottovalutazioni di un problema che ha basi oggettive ed è ben evidenziato dai fatti criminosi accaduti sul nostro territorio con particolare riguardo a due fattispecie preoccupanti di reato: lo spaccio di droga e la violenza sessuale. A tal proposito, il capo della Squadra Mobile di Udine, Massimiliano Ortolan, si vede costretto a segnalare che a Udine si sono innegabilmente verificati “episodi di quelle due specifiche fattispecie che hanno visto protagonisti proprio i richiedenti asilo” di nazionalità pakistana e afghana. “Per quanto riguarda però i reati a sfondo sessuale”, è la precisazione di Ortolan, le statistiche evidenziano che “oltre ad esserci in generale un sensibile calo, gli autori sono di diverse nazionalità tra cui alcuni di quelle indicate.

Diversa è invece la situazione sul terreno della droga, dove gli episodi sono stati più significativi, in una situazione che è stata ben fotografata dalla nostra operazione denominata ‘Magnolia’ la cui parziale conclusione si è avuta alla fine di marzo” e che ha condotto a ben 35 provvedimenti giudiziari, gran parte dei quali inflitti a cittadini del Pakistan e dell’Afghanistan. Anche qui tuttavia incombono dei chiarimenti. In primo luogo, il capo della Mobile nota che i reati contestati agli indagati “rientrano prevalentemente nella fattispecie dello spaccio di ‘lieve entità’ che non prevede nemmeno il carcere ma solo misure come il divieto di dimora”. E poi, aggiunge Ortolan, “bisogna sottolineare che i soggetti in questione non hanno fatto altro che inserirsi in un settore che esisteva già ed era gestito da soggetti di altre nazionalità, i quali sono stati sostituiti sulla piazza dagli ultimi arrivati. Da questo punto di vista – è la conclusione del dirigente di Polizia – l’arrivo e la frequentazione in Borgo Stazione di questi nuovi soggetti non aveva fatto altro che sostituire i punti di riferimento di coloro che erano in cerca di sostanze stupefacenti”.

Se le analisi fatte sin qui sembrano metterci di fronte ad una situazione sostanzialmente fisiologica, tale dunque da non giustificare alcun allarmismo, resta sullo sfondo una domanda spinosa: perché un numero ristretto ma non insignificante di richiedenti asilo e rifugiati ha imboccato la strada del crimine, tradendo in un certo senso chi ha loro aperto le porte? Anche qui ci soccorrono le considerazioni di Ambrosini, secondo cui “il problema essenziale è se queste persone sono seguite o no. Finché erano nel circuito dell’accoglienza infatti non hanno provocato grossi guai. I problemi cominciano con la fuoriuscita dall’accoglienza determinata dai decreti Salvini. Se questa popolazione viene esclusa dalla possibilità di accoglienza, di fare percorsi formativi, oltre che di trovare una casa e un lavoro, mi sembra ovvio che siamo noi a creare una situazione criminogena”.

Queste osservazioni trovano pienamente concorde chi, come Anna Paola Peratoner, con la onlus Oikos è da tempo in prima linea nel campo dell’accoglienza sul nostro territorio. Anche secondo lei i problemi scaturiscono direttamente dalla “non gestione, a seguito dei decreti Salvini, dei percorsi necessari da sviluppare per promuovere l’inclusione sociale dei migranti. Il nodo qui è quello di accompagnare e indirizzare queste persone, metterle nelle condizioni di avere l’Abc per integrarsi, promuovendo ad esempio l’alfabetizzazione che è proprio una delle voci che ha subito un taglio netto da quei decreti. Segnalo peraltro che non esiste più nemmeno la voce per il supporto psicologico, e questo è gravissimo perché stiamo parlando di persone che hanno alle spalle forti sofferenze, o addirittura traumi”.

Queste considerazioni fanno il paio con quelle di Roberta, pseudonimo dietro cui si cela un’operatrice sociale che ha lavorato per anni come volontaria dell’accoglienza. Alla domanda sul perché certuni finiscano per delinquere, la sua risposta è che “bisogna capire se queste persone sono accolte in strutture e inserite in progetti, o se vivono in strada nella marginalità, che ovviamente favorisce la commissione di reati. E qui non posso non dire che la politica dell’accoglienza, dopo i decreti Salvini, è cambiata. Se in Fvg c’era un modello di eccellenza che era rappresentato dall’accoglienza diffusa, la politica attuale si basa sui grandi accentramenti, dove l’accoglienza non può che essere contenitiva e di sorveglianza. In questo modo è impossibile fare un lavoro di qualità, ossia cucito addosso alle specificità di persone che hanno alle spalle vissuti drammatici. Se si vuole continuare ad accogliere le persone in questo modo, è ovvio che la situazione sfuggirà di mano”.

Come ogni questione sociale, quello della criminalità degli immigrati è insomma refrattario a farsi rinchiudere nella gabbia delle spiegazioni semplicistiche che tendono a farsi largo quando si verificano fatti tali da suscitare in noi preoccupazione se non allarme. E se le parole dei nostri intervistati ci ricordano che il problema che abbiamo esplorato senz’altro sussiste, ci dicono anche che quando si richiamano cause come la cultura o la religione degli immigrati che cadono in fallo, o si invoca addirittura l’intervento dell’esercito, siamo lontani non solo dalla comprensione di quanto sta succedendo, ma anche dall’individuazione delle giuste soluzioni.

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